E' sotto gli occhi di tutti come sia in atto da tempo una battaglia contro la famiglia: condotta a viso aperto, esprimendo contrarietà ad ogni politica in favore della famiglia tradizionale; o, indirettamente, con la pretesa di equiparare ad essa ogni forma di convivenza.
Questa 'battaglia' non deriva solo dalla negazione del ruolo sociale della famiglia, o dalla rivendicazione di presunti "diritti". Si tratta di una battaglia culturale che ha radici profonde.
Chi è contrario a politiche di tutela della famiglia, al fondo, sostiene semplicemente che non sono legittime, perché solo l’individuo sarebbe soggetto di rilevanza pubblica, meritevole di attenzione. Ogni sostegno alla famiglia rappresenterebbe un inquinamento moralistico della politica, significherebbe sostenere una realtà che costituisce uno schermo all’uguaglianza dei cittadini o – addirittura - un istituzione "antiquata" che ostacola il "progresso".
A queste posizioni si può ricondurre la scelta di molti Paesi industrializzati, nei decenni passati, di sostituire le politiche familiari con politiche sociali individuali.
Noi vorremmo dimostrare che la questione si pone in termini esattamente opposti: è proprio lo sforzo di ignorare o svuotare la famiglia che esprime una posizione moralistica ed è causa di discriminazioni.
La famiglia combattuta dagli Stati assoluti
Gli argomenti contrarî alla famiglia risalgono al periodo tra fine Settecento e inizio Ottocento, epoca in cui maturò l'idea di "rivoluzionare" la società.
Un documento del 1819 redatto dall'Alta Vendita della Carboneria (organo di vertice di un movimento descritto dai libri di scuola come "patriottico", e che in realtà era massonico) spiega come reclutare un nuovo affiliato: "lavoratelo con destrezza, fategli credere di essere importante; insegnategli poco a poco ad avere disgusto delle occupazioni quotidiane e così, dopo averlo separato da moglie e figli e dopo avergli mostrato quanto è faticoso vivere adempiendo ai proprî doveri, inculcategli il desiderio di una vita diversa".
Sempre all'Ottocento risale la concezione – rivelatasi infausta - di uno Stato cui è affidato il compito di promuovere il Progresso, e di plasmare a questo scopo gli assetti sociali esistenti; combattendo - ça va sans dire - la famiglia.
Questo avveniva con lo Stato (pseudo)“liberale” di stampo illuminista, che nella sua azione considerava gli individui, ma non i corpi intermedî (famiglia, associazioni, scuola, Chiesa, imprese, ecc.). Era uno Stato che si definiva neutralista, ma in realtà era interventista e antifamiliare. Infatti, assumeva come soggetto di diritto un uomo diverso da quello reale, ignorando il ruolo insostituibile che sullo sviluppo della personalità e dell’affettività esercita la famiglia. Cosicché interveniva sulla società come se fosse diversa da quello che era, finendo col modificarla, ed esprimendo - al contrario di quanto proclamava - una posizione moralistica.
Dare sostegno agli individui a prescindere dai loro legami familiari (affettivi, economici, culturali) significa incoraggiarli ad emanciparsi dall’istituzione familiare, producendo una sudditanza dallo Stato. Ignorare la famiglia significa combatterla, in quanto realtà autonoma che fa schermo all’autorità pubblica. Questo tipo di Stato rivela una dimensione assolutistica.
Tale concezione diveniva esplicita con lo Stato etico e interventista che dichiarava quali modelli culturali e sociali riteneva legittimi. E la famiglia ne era esclusa, perché è il luogo dove viene custodita e trasmessa una morale libera da ipoteche statali. Allo scopo di squalificare la famiglia è stata persino creata la spregiativa categoria sociologica del "familismo amorale", che contrapponeva artificiosamente la morale familiare a quella pubblica (questa teoria fu elaborata dal politiologo americano E. C. Banfield sulla base dell'osservazione di un unico paesino dell'Italia meridionale (!), prescindendo da ogni analisi storica. L'assenza di rigore scientifico della categoria del familismo amorale poteva già essere evidente a chi non se ne volesse servire per scopi politici; ad ogni modo, tra i tanti che hanno provveduto analiticamente a confutarla va segnalata Loredana Sciolla, nel suo studio Italiani, stereotipi di casa nostra, Il Mulino, Bologna, 1997).
Questo Stato era spesso anticamera dei totalitarismi. Così Françoise Navailh descrive gli effetti della politica antifamiliare (divorzio facile, introduzione del "matrimonio di fatto") sovietica: "L’instabilità matrimoniale e il rifiuto massiccio dei figli sono i due tratti caratteristici del tempo. Gli aborti si moltiplicano, la natalità cala in modo pauroso, gli abbandoni dei neonati sono frequenti. Gli orfanotrofi sommersi diventano dei veri mortori. Aumentano gli infanticidi e gli uxoricidi. Effettivamente i figli e le donne sono le prime vittime del nuovo ordine delle cose. I padri abbandonano la famiglia, lasciando spesso una famiglia priva di risorse" (AA.VV., Storia delle donne, Il Novecento, a cura di F. Thebaud, Laterza, 1992). Tant'è che nel 1935 il regime sovietico - almeno su questo - fu costretto a fare marcia indietro, tornando ad esaltare l'importanza della famiglia.
Queste concezioni antifamiliari risultavano già vecchie e largamente minoritarie nel secondo dopoguerra, tanto nella coscienza politica e giuridica italiana (come emerge chiaramente dalla Carta costituzionale) quanto in quella internazionale (la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo statuisce che “la famiglia è il nucleo fondamentale della società e ha diritto ad essere protetta dalla società e dallo Stato”).
Dalla cultura del '68 venne un tardivo tentativo di rilanciare un'aggressione frontale alla famiglia, dipinta come "istituzione repressiva borghese". La famiglia era osteggiata come il luogo della tradizione, dell'educazione ai valori di un mondo che si voleva abbattere; luogo in cui si apprende la necessità del principio di autorità; luogo in cui si stabiliscono i legami umani necessarî (anche di solidarietà), insopportabili a chi sognava un libertinismo senza responsabilità.
Il tentativo di di abbattere l'insostituibile istituto familiare fallì. Ma è restato lo strascico della diffusione di una cultura individualistico-utilitaristica che ha indebolito la famiglia stessa: sia dal punto di vista culturale (il matrimonio non è più visto come il cardine dell'istituto familiare, e anche quando ci si sposa l'impegno è più debole), sia dal punto di vista socio-economico, aprendo la strada ad una serie di politiche discriminatorie contro la famiglia.
Le moderne élites contro la famiglia
Esistono minoranze che continuano a sostenere le concezioni antifamiliari. Minoranze molto attive, ben rappresentate in alcune élites economiche e sociali (anche all’interno dei mezzi di comunicazione), capaci quindi di influenzare il dibattito pubblico.
Basti pensare che fino al 2016 - anno di approvazione della legge Cirinnà sulle "unioni civili" - una sorta di "registro delle convivenze", con relativi benefici (anche pensionistici), era attivo in Italia per due categorie: parlamentari e giornalisti...
Perché queste élites rilanciano una visione antifamiliare?
Delusa l’utopia di costruire un “mondo nuovo” (abbattendo tutto ciò che poteva ostacolarla), emerge una nuova tentazione individualistica: quella di plasmare la società sul proprio stile di vita.
È la tentazione libertina di trasformare i desideri in diritti, di vivere la libertà senza doveri e responsabilità. La tentazione di poter restare indifferenti alle ricadute che i comportamenti hanno sulla società, sull’ambiente, sulle generazioni future.
Questa tentazione è originata dalla diffusione del benessere economico: se questo non dà la felicità assoluta che ci si aspetta, che sembra a portata di mano, ci devono essere ostacoli “esterni” da superare. L’ostacolo principale è visto nella famiglia, il luogo dove siamo educati ad una cultura della solidarietà e della responsabilità, dei diritti accompagnati dai doveri.
L'individualismo immagina un'espansione indefinita dei diritti soggettivi (assurdità contro cui già metteva in guardia Bobbio), anche mediante la richiesta di emancipazione da ogni vincolo e la dissoluzione degli istituti della comunità civile, gli enti intermedi tra Stato e cittadino. L'errore è di non considerare che gli enti intermedi sono in realtà un presidio di libertà: tanto della comunità nel suo complesso (rispetto all'arbitrio antisociale dei più forti), quanto dei singoli.
L'individuo trova nella famiglia protezione non solo - come visto - rispetto allo Stato assolutista, ma anche rispetto ai condizionamenti omologanti della cultura sociale, della tecnologia, dell'economia, del desiderio immediato e non progettuale. Uno dei maggiori critici delle derive anti-istituzionali, Arnold Gehlen, spiega che tutto ciò che smantella tradizioni e ordinamenti primitivizza l'uomo e lo rigetta nella "instabilità della vita istintuale".
L'attacco alla famiglia e al vincolo matrimoniale, inoltre, è motivato dalla considerazione che questi istituti contraddicono la visione di una sessualità ridotta esclusivamente a piacere personale. Tra i soggetti più attivi nella lotta contro la famiglia c'è la lobby gay, che esprime una cultura edonistico-individualistica antinomica a quella familiare.
Infine, le élites economico-finanziarie, soprattutto degli Stati Uniti, hanno visto nell'indebolimento della famiglia lo strumento per favorire la denatalità e salvaguardare gli assetti di potere sociali e geopolitici di cui hanno il controllo.
Gli ingentissimi capitali profusi dalle multinazionali in questa battaglia, unitamente al fatto che questi poteri economico-finanziarî hanno ormai il controllo dei media e un'influenza decisiva sui governi nazionali e sulle istituzioni sovranazionali (UE, agenzie ONU), spiega perché l'azione di destrutturazione della famiglia è riuscita a prevalere sulla naturale propensione dei popoli a difenderla.
Risultato di queste azioni? La cultura individualistica, incapace di trovare un suo equilibrio, finisce per demandare questo compito allo Stato, che torna quindi protagonista. Allo Stato non si chiede solo di rispettare l’esercizio delle libertà personali (compito dello Stato liberale). Si chiede anche di garantire la realizzazione dei desideri, e di compensare economicamente i relativi costi sociali. Non progetto il futuro, non risparmio? Lo Stato mi garantisca in ogni caso la pensione. Non studio, non mi formo? Lo Stato mi garantisca ugualmente un lavoro. Scelgo legami affettivi deboli, precari? Lo Stato paghi l’assistenza ai soggetti deboli – bambini, anziani, malati - che lascio privi di protezione (alle ferite interiori ci penserà lo psicologo...).
Allo Stato e alle aziende si chiede anche – con la cultura del “politicamente corretto” – di tacitare tutte le opinioni critiche rispetto a questa invadenza, le opinioni che fanno appello alla responsabilità individuale: queste opinioni sono considerate “discriminatorie”. La Bbc ha ordinato ai suoi dipendenti di non usare le parole “marito” e “moglie”, perché questo potrebbe dare l’impressione che il matrimonio tradizionale sia preferito ad altre forme di unione sessuale...
Si finisce così – in un misero baratto - col sacrificare le libertà più importanti: politiche (non c’è più spazio reale per incidere sulle scelte di uno Stato ipertrofico), civili (libertà di espressione, di associazione), economiche (ridotte dalle tasse).
Insomma, seppure in forma diversa, torna la richiesta che lo Stato imponga un sua etica, differente da quella espressa dal sentire sociale.
Lo svuotamento della famiglia.
Una delle ‘violenze’ etiche più rilevanti è proprio la discriminazione contro la famiglia, che costituisce la naturale difesa contro l’invadenza pubblica e l’omologazione culturale e sociale.
Spesso la lotta contro la famiglia è meno evidente che in passato, perché più subdola. Si dice di voler "estendere" i diritti della famiglia ad altre forme di convivenza, per evitare ingiuste discriminazioni. Ma se i diritti di cui gode la famiglia fossero fonte di discriminazione rispetto agli individui, se fossero privilegi, sarebbe più coerente e coraggioso - come in passato - contestarli apertamente. Invece... si chiede di partecipare a questa "ingiustizia"!
Si parla anche di “nuovi modelli di famiglia” o di "definizione inclusiva" della famiglia, pretendendo di equiparare all'unione matrimoniale tra un uomo e una donna le coppie di fatto, etero ed omosessuali. Nell'articolo Di famiglia ce n'é una spieghiamo perché le forme di convivenza diverse dalla famiglia tradizionale non possono definirsi tali e non hanno la sua stessa funzione sociale.
Lo scopo vero è quello di ‘svuotare’ la famiglia delle sue prerogative e della sua centralità, rendendole impossibile l’esercizio del suo ruolo. Se si dice di voler “sostenere tutti”, è evidente che... non si vuole sostenere nessuno!
"Allargare" i diritti della famiglia, quindi, non è - come si vuol far credere - un'operazione indolore che non danneggia nessuno. E' invece un'operazione che colpisce direttamente - dal punto di vista giuridico, culturale, economico - le famiglie e tutti coloro che ne fanno parte!
Il movimento gay è mosso da motivazioni particolari nella sua politica di assimilazione forzata delle unioni omosessuali al matrimonio e alla famiglia. La pretesa che lo Stato dia un sigillo giuridico di “uguaglianza” a situazioni che oggettivamente uguali non sono (com’è di immediata evidenza, e come spiegheremo più in dettaglio oltre) ha un unico significato: quello di ottenere un pubblico riconoscimento di “moralità” o di “normalità” alla propria condotta, pensando che ciò possa attenuare una personale situazione di disagio.
Il nuovo Stato etico dovrebbe sancire l'insignificanza etica (appunto) e giuridica della famiglia, degradata a retaggio di un passato oscurantista e oppressivo; nonché l'insignificanza del matrimonio, degradato a mera cerimonia folkloristica.
In effetti, sappiamo che ogni legge non ha solo un valore prescrittivo, ma anche simbolico. Ciò che è prescritto o consentito viene normalmente percepito dai consociati come "giusto". Dunque, sancire legalmente l'equivalenza tra matrimonio e altre unioni "deboli" significa sancire - soprattutto agli occhi dei più giovani - l'inutilità degli obblighi e delle responsabilità presenti nel matrimonio; significa promuovere concretamente la sostituzione della famiglia con forme di convivenza precaria; significa far credere che per i figli non sia importante nascere all'interno di una famiglia solida.
Vedremo più avanti che la famiglia sarebbe danneggiata anche dai "diritti" (o, meglio, privilegi) associati ad un riconoscimento formale delle convivenze.
Che esista una vera campagna contro la famiglia e il matrimonio è evidente in documenti pubblici come il discusso manifesto - pubblicato negli Stati Uniti - "Beyond marriage" ("Oltre il matrimonio"), o come il memorandum preparato per la presidenza tedesca dell'Unione Europea dalla sezione europea dell'ILGA (International Lesbian and Gay Association).
Le esigenze sociali di riconoscere "nuove famiglie" non ci sono; le conseguenze negative sì.
Dicevamo che questa nuova campagna antifamiliare è una battaglia di élites senza radicamento popolare. Lo dimostra ad esempio il fallimento dell'esperienza dei "registri delle unioni civili" attivati in 18 Comuni italiani (tra cui Pisa - dal 1999 -, Perugia, Firenze, Bologna, Voghera): a gennaio 2007 erano registrate 143 coppie, di cui 14 omosessuali, su una popolazione anagrafica totale (in quei Comuni) di 1.488.096 abitanti. Le coppie registrate corrispondevano quindi allo 0,02% della popolazione, quelle omosessuali allo 0,002%
Le percentuali sono irrisorie non solo perché è basso il numero delle coppie di fatto (il 3,9% delle coppie italiane), ma anche perché queste stesse coppie non sentono l'esigenza di una "regolarizzazione": un'indagine di Federcasalinghe su 682 coppie di fatto attesta che solo il 3% ritiene necessaria una legge per la loro situazione.
In alcuni Paesi (Francia, Olanda, Danimarca, Gran Bretagna, Spagna) è stata ottenuta l'istituzione di formule come i Pa.C.S., o addirittura i veri e propri matrimoni omosessuali. Ebbene, anche in questi Paesi si è avuta conferma che si tratta di un fenomeno di scarsa rilevanza sociale: le percentuali di adesione a questi istituti sono molto basse, sia rispetto al totale della popolazione, sia rispetto alle stesse coppie conviventi (Uno studio mirato sulle unioni civili e i matrimoni tra omosessuali, promosso dallo statunitense Institut for Marriage and Public Policy - Demand for same-sex marriage, a cura di Maggie Gallagher e Joshua Baker, 2006 -, ha evidenziato che il fenomeno è in grosso calo: mediamente, nei vari Paesi, solo il 5% degli omosessuali dichiarati ha chiesto una regolarizzazione della propria posizione; percentuale che cala ulterirormente se teniamo conto di eventuali omosessuali non dichiarati).
Lo scarso numero di adesioni vorrà dire almeno che gli effetti negativi sulla famiglia sono limitati?
Purtroppo no, perché si tratta del culmine di un percorso che - come visto - ha già logorato la solidità della famiglia tradizionale. Inoltre, l'effetto negativo dovuto al messaggio simbolico di inutilità del matrimonio deriva dalla semplice adozione di quei provvedimenti legislativi e dall'amplificazione che al fenomeno danno i media.
Si tratta di una deriva inarrestabile? Pensiamo di no.
L'emergere di problemi sociali conseguenti al degrado della famiglia ha già innescato un dibattito nei Paesi che si erano spinti più avanti nelle politiche antifamiliari.
Della Gran Bretagna parliamo analiticamente in un altro articolo.
In Francia, in un documento programmatico dei socialisti (sì, proprio i socialisti) si legge che “l’evasione dai modelli familiari più tradizionali compiuta dalla generazione del ’68 non ha avuto effetti benefici sulla struttura identitaria e psicologica dei loro figli”. L'approvazione del matrimonio omosessuale, nel 2013, ha causato una grande mobilitazione popolare, portando il consenso del presidente Hollande a un minimo storico - per un Presidente francese - da cui non è più risalito.
La diffusione di misure legislative che equiparano le convivenze al matrimonio, dunque, non autorizza a trarre conclusioni frettolose e superficiali su presunte "linee di avanzamento dei diritti civili".
Resistenze ancora più forti c'erano in Italia (della cui "eccezione" forse dobbiamo essere orgogliosi) e negli Stati Uniti (dove erano stati bocciati tutti i referendum per l'introduzione del matrimonio gay).
Poi accade che in Italia la legge Cirinnà, che introduce il simil-matrimonio omosessuale, il governo Renzi non ha avuto remore a ricorrere al voto di fiducia, cosa mai avvenuta su temi sociali (e addirittura senza che si fosse concluso il dibattito in commissione).
E negli Stati Uniti, in barba alla sovranità popolare, il matrimonio omosessuale è stato introdotto da una sentenza della Corte Suprema (come già accadde per l'aborto).
Diritti e privilegi
L'obiettivo dello ‘svuotamento’ della famiglia, o dell'imposizione di una nuova moralità pubblica, spesso è mascherato con la rivendicazione di "diritti".
L’argomento ripetuto ossessivamente è: “chiediamo uguali diritti; la negazione di questa uguaglianza costituisce un’ingiusta discriminazione”. Un argomento capzioso e infondato, che può essere facilmente ‘smontato’.
Domandiamoci: ha senso che un trentenne denunci come “discriminazione” il mancato godimento della pensione concessa ai sessantenni? Ha senso che un uomo denunci come discriminazione il mancato godimento del congedo per gravidanza, o la mancata esenzione dai lavori gravosi, concessi alle gestanti? Ha senso che un comune cittadino denunci come discriminazione la mancata protezione con la scorta concessa ai magistrati antimafia?
Evidentemente no.
Argomento altrettanto inconsistente è quello "pietistico" a sostegno dei matrimoni omosessuali, che dovrebbero servire ad evitare il senso di frustrazione che deriva ad alcune persone per il non poter accedere al matrimonio ordinario, nonché a "combattere le discriminazioni culturali e l'omofobia".
Ebbene: ha senso riconoscere la laurea anche a chi non ha superato gli esami, solo perché costui si sente “frustrato” nelle proprie relazioni sociali e “discriminato” nelle proprie ambizioni lavorative?
Evidentemente no, perché ciò significa privare di valore e significato il titolo stesso (facendolo divenire davvero “pezzo di carta”) e disincentivare i giovani dall’impegnarsi nello studio.
Bisogna allora tener fermo un punto: “uguaglianza” significa trattare in modo uguale situazioni uguali, e in modo differente situazioni differenti. Se si trattano in modo uguale situazioni differenti, allora sì che si crea una discriminazione (contro il sessantenne, contro la donna, contro il magistrato, contro il laureato, per restare agli esempi precedenti).
Un conto sono i diritti che spettano a tutti gli individui (diritti umani) o a tutti i cittadini (diritti civili e politici) in quanto tali. Altro conto sono le tutele giuridiche e i "diritti di prestazione", che lo Stato riconosce (o dovrebbe riconoscere, visto che in Italia esistono spesso gravi lacune) ad alcune persone in funzione di una determinata condizione (aver sviluppato competenze specifiche, aver maturato un'anzianità contributiva, ecc.); oppure di uno status (l'appartenenza ad un nucleo familiare, il ruolo istituzionale rivestito, ecc.) che ha particolare rilievo sociale (status al quale, peraltro, sono collegati particolari doveri).
Legare tutele specifiche e diritti di prestazione a status e condizioni significa esercitare una reale giustizia ed uguaglianza. Al contrario, si avrebbe una "discriminazione" positiva, il riconoscimento di un privilegio, se tali tutele fossero estese a chi non si assume corrispondenti doveri e non esercita funzioni di utilità sociale. Il discorso non cambia se i privilegi vengono arbitrariamente definiti “diritti civili”...
La famiglia tradizionale esercita particolari funzioni di utilità sociale, che non sono in grado di esercitare altre unioni. Per questo l'istituto matrimoniale merita le specifica tutela giuridica (protezione della stabilità del vincolo, diritti dei suoi componenti all'interno della formazione) che l'ordinamento gli accorda; e merita altresì diritti di libertà e di prestazione collegati a politiche familiari specifiche (anche se, da questo punto di vista, in Italia c'è ancora molto da fare).
Si dice anche che "estendere i diritti non danneggia la famiglia".
Abbiamo visto come ciò sia falso innanzitutto dal punto di vista giuridico-simbolico, perché l'istituto familiare fondato sul matrimonio verrebbe svuotato da ogni equiparazione con altre forme di convivenza.
Aggiungiamo che estendere indiscriminatamente le tutele riservate alla famiglia danneggia la famiglia stessa e ne ostacola il ruolo.
In alcuni casi in maniera diretta. Ad esempio, consentire ai conviventi l'accesso alle graduatorie pubbliche riservate alle famiglie (come quelle per le case popolari) significa - poiché si tratta di graduatorie che gestiscono disponibilità limitate - consentir loro di scavalcare famiglie concrete. Concedere diritti ereditari che oltrepassino la quota disponibile significa ledere le quote ereditarie degli altri familiari del defunto.
In tutti gli altri casi in maniera indiretta. I diritti di prestazione richiesti allo Stato sono "diritti" che costerebbero ai contribuenti - alle famiglie - somme enormi. Nel caso delle pensioni di reversibilità, ad esempio, secondo un esperto di previdenza come Giuseppe Pennisi "una stima preliminare afferma che nei primi 20 anni di introduzione un istituto come i Pacs costerebbe, in termini di pensioni di reversibilità, oltre 83 miliardi di euro, pari a 3.500 euro per ogni lavoratore. Solo nell’ultimo anno della stima il costo totale sarebbe di quasi 8 miliardi in totale, cioè 340 euro per contribuente. Si tratta però di un calcolo approssimato per difetto. Perché se si vogliono prendere per buone le dichiarazioni degli esponenti del movimento gay, secondo i quali 'ci sarebbero dai 2 ai 3 milioni di coppie pronte a stringere un Pacs' (ma abbiamo visto sopra - in merito alla crisi del fenomeno nel resto del mondo - che si tratta di cifre sovradimensionate, ndr), allora bisognerebbe moltiplicare per 4 o 5 volte le stime iniziali" (da Avvenire del 23-3-2007).
Insomma: privilegi che danneggiano le famiglie e tutti i cittadini, pesando ingiustamente sulle casse dello Stato.
Gli strumenti del diritto privato (lasciti testamentari, assicurazioni previdenziali, cointestazioni dei contratti di affitto o di proprietà, ecc.), del resto, consentono alle coppie non sposate di dotarsi di tutte le garanzie di cui hanno bisogno.
Inoltre, singole leggi e la giurisprudenza costituzionale hanno già provveduto a tutelare i diritti dei singoli con riferimento specifico all'appartenenza ad una convivenza di fatto: diritto del convivente more uxorio a subentrare al titolare deceduto nel contratto di affitto o nell'utilizzo di una casa popolare (sono forme di tutela non della coppia in quanto tale, ma del diritto di abitazione del singolo, sia pure connesso ad una situazione di fatto); diritto ad assistere il convivente malato e a esprimere il parere circa le cure (non è vero - come una certa propaganda vuol far credere - che questo diritto non sia tutelato); diritto a non testimoniare contro il convivente nel processo penale; in caso di omicidio del convivente, diritto al risarcimento del danno morale e patrimoniale dimostrato.
Ma tutto ciò non può bastare, se il vero obiettivo è un altro...
Ai conviventi e agli omosessuali devono essere riconosciuti – lo ribadiamo, anche se dovrebbe essere ovvio - i diritti (umani, civili e politici) di cui godono tutti gli individui o i cittadini in quanto tali. Ogni ingiusta discriminazione rispetto a questi diritti è una discriminazione odiosa, che va doverosamente combattuta. E bisogna però dire che molti di questi diritti sono già adesso riconosciuti.
Invece, la pretesa di equiparazione con la famiglia non ha nulla a che vedere con questi diritti: in particolare, cultura gay e diritti degli omosessuali sono orizzonti completamente distinti.
Per una nuova soggettività della famiglia
Non bisogna dimenticare il pesante carico di oppressione che è derivato - in passato - dalle concezioni assolutistiche ed etiche dello Stato. La concezione successivamente maturata nella coscienza civile (ed oggi a rischio?) è quella di uno Stato che non è fine, ma mezzo; uno Stato che è posto a servizio della società, così come questa spontaneamente si sviluppa nelle sue articolazioni (individui e corpi intermedî), secondo il principio di sussidiarietà; uno Stato che, nella sua azione, sceglie il realismo e non l’ideologismo astratto.
Una visione realista e attenta della società non può ignorare l’importanza dell’istituto familiare per il benessere dei singoli cittadini e della società stessa nel suo complesso. Ogni seria battaglia contro le disuguaglianze sociali dovrebbe accorgersi che queste nascono anzitutto da disuguaglianze familiari; la famiglia non è causa di ingiustizie, ma è il luogo principale per sconfiggerle.
Riconoscere alla famiglia rilevanza pubblica significa riconoscere la legittimità di un intervento che tuteli questa rilevanza: ciò non assume alcuna dimensione moralistica. È un riconoscimento che va ben oltre le istanze di parte cattolica, e appartiene piuttosto ai doveri di uno Stato davvero laico (non laicista) sensibile ai diritti e alle esigenze sociali.
Oggi è diffusa la convinzione che lo Stato assistenziale debba ridimensionare la sua presenza. Ma è bene ricordare che lo Stato ha allargato il suo raggio d’azione cercando di svolgere un ruolo di supplenza rispetto alla famiglia; per cui può arretrare solo se la famiglia si rafforza.
Ogni indagine sociologica rileva che, soprattutto tra i giovani, il valore più solido è quello della famiglia. A dire il vero, talora c’è il rischio che il recupero della famiglia avvenga in chiave soggettiva, utilitaristica, come mero rifugio da una società sentita sempre più fredda e disumana. Il che porta a non valutare a pieno l’importanza dell’istituto familiare, a non riconoscergli quella forza che sappia comporre i conflitti intrafamiliari: non appena sorgono contrasti tra il bene familiare e le aspirazioni del singolo, si butta per aria frettolosamente la famiglia, pensando che sia facile ricomporne un’altra. Per evitare questi rischi occorre, da una parte, che il dibattito culturale torni a dare rilievo non solo alla dimensione soggettiva, ‘atomistica’, dei singoli, ma anche al loro senso di responsabilità; dall’altra, che si rifletta adeguatamente sull’importanza della famiglia in quanto tale.
Accanto ai diritti dell’individuo, esistono i diritti della famiglia (e degli altri corpi intermedî). A questo richiama l’art.29 della Costituzione, quando afferma che “la Repubblica riconosce i diritti della famiglia”, e non solo (come si ricava dall’art.2) i diritti dell’individuo nella famiglia. Non è possibile, insomma, parlare di politiche per la famiglia, se prima non le si riconosce un’autonoma soggettività, anche pubblica.
Riferimenti bibliografici:
Alfredo Mantovano
La Guerra dei DICO
Rubettino Editore, Soveria Mannelli (CZ) 2007
Francesco Maria Agnoli
Attacco alla famiglia. Pacs, unioni omosessuali, Dico
Fede & Cultura, Verona 2007