Magritte, The lovers I
Nella nuova versione del Nuovo Testamento pubblicata recentemente dall'Università di Oxford, il Padre Nostro comincia così: «Padre / Madre nostro, che sei nei cieli». L'espressione «figlio dell'uomo» è stata sostituita con «figlio dell'umano». E niente più «regno di Dio», espressione palesemente androcentrica e patriarcale. Non si tratta di casi isolati o amene sottigliezze da dotti, ma di uno dei tanti segni dell'avanzare della «prospettiva di genere». Adottare una prospettiva di genere, spiega un documento dell'Instraw, un istituto che fa parte dell'Onu, significa «distinguere tra ciò che è naturale e biologico e ciò che è costruito socialmente e culturalmente, e nel rinegoziare i confini tra il naturale e la sua inflessibilità, e il sociale». In parole povere, «prospettiva di genere» vuol dire dunque che nulla di originario, di «dato», esiste nelle differenze fra uomo e donna, e quindi tutto può, e deve, essere cambiato.
Teoria di cui potremmo anche non preoccuparci più che tanto, se non fosse che tale «prospettiva» è una colonna portante dell'agenda dell'Onu. Se non fosse che quella parola inglese, «gender», ossessivamente ripetuta nei documenti delle conferenze del Cairo e di Pechino, e poi dell'Unione europea, sempre più si andrà insinuando nelle legislazioni nazionali, e giù nelle delibere degli enti locali e delle scuole, fino a plasmare la forma mentis delle persone. Come spiega con estrema efficacia un saggio appena pubblicato da Rubbettino, Maschi o femmine? La guerra del genere, della americana Dale O'Leary, traduzione italiana di Dina Nerozzi (pagine 208, euro 14,00).
Chi è ancora convinto di un Dio che «maschio e femmina li creò» potrà forse meravigliarsi nelle pagine della O'Leary, pro-life americana andata a mettere il naso anche dietro le quinte, alle conferenze Onu del Cairo e di Pechino, e oltre. Quella parola, «genere», usata in luogo di «sesso» (dove «genere» indica proprio una categoria socialmente costruita, in opposizione a «sesso» che si riferisce alla distinzione biologica tra maschio e femmina, ndr), non è solo femministese per indicare la legittima domanda di pari opportunità della donna, afferma la O'Leary, ma una sorta di «Verbo» che l'Onu con il suo prestigio è in grado di imporre a tutti gli Stati membri.
Grazie al peso acquistato all'interno delle strutture direttive dell'Onu di una cultura femminista radicale, il tentativo è quello di ridisegnare la società superando i limiti imposti dalla natura, considerata qualcosa di antiquato. Il nuovo mondo non dovrà più tollerare maschi e femmine, madri e padri, né definire l'eterosessualità «normale». Tutto dovrà essere - si legge nella prefazione - «precario, contrattabile e dipendente unicamente dalla volontà della maggioranza "democratica" del momento».
Se l'esempio del Nuovo Testamento «genderizzato» dall'Università di Oxford vi era parso non così rilevante, fate caso alla raccomandazione dell'articolo 276 comma D della Piattaforma di Pechino: «Adottare misure affinché le tradizioni, la religione e le loro manifestazioni non siano causa di discriminazione nei confronti delle bambine». Madre nostra che sei nei cieli. Tra parentesi, le religioni monoteiste e in particolare il cristianesimo appaiono per la cultura del gender il vero nemico da abbattere, con quella arcaica pretesa di affermare un diritto naturale dell'uomo.
Ma, si domanda a un certo punto la O'Leary, da dove viene a certo femminismo ultraradicale questa visione del mondo così conflittuale, dove le donne sono sempre oppresse, e gli uomini comunque oppressori? E di questo femminismo ultrà riesplora le radici marxiste andando a riaprire le pagine de L'origine della famiglia, della proprietà privata e dello stato di Engels. Dove l'autore scriveva: «In un vecchio manoscritto mai pubblicato scritto da Marx e da me nel 1846, ho trovato queste parole: "La prima divisione del lavoro è quello tra uomo e donna per la riproduzione dei bambini". Oggi - continua Engels - posso aggiungere: la prima opposizione di classe che appare nella storia coincide con lo sviluppo dell'antagonismo uomo-donna nel matrimonio monogamico, e la prima oppressione di classe coincide con quella fatta dall'uomo sul sesso femminile». Da ciò derivava, per il socio di Marx, che «la prima condizione per la liberazione della moglie è quella di riportare tutto il sesso femminile nell'industria pubblica, e ciò richiede l'abolizione della famiglia monogama come unità economica della società».
Quanto passa da Engels all'Instraw, istituto dell'Onu, che nel '95 scrive: «L'obiettivo è l'uguaglianza statistica tra uomini e donne in tutte le attività e tutte le cariche. Il maggior ostacolo all'uguaglianza statistica è la maternità, la vocazione delle donne a curare prima di tutto i loro figli. Pertanto, la maggior spinta alla "prospettiva di genere" è la decostruzione della maternità come unica vocazione delle donne». Insomma, per costruire il Nuovo Mondo occorre dissuadere le donne dalla maternità. (E' la stessa logica che mette in primo piano i "diritti riproduttivi" intesi solo come diritti a non avere figli: aborto, sterilizzazione, contraccezione, ndr).
La strategia del «gender» è già a buon punto. Bandita la vecchia antidemocratica differenza, se la O'Leary ha ragione fra cinquant'anni saremo tutti correttamente neutri. Più felici, ne dubitiamo. Ma assolutamente uguali.
pubblicato su Avvenire del 7-12-2006
La posizione della Chiesa nella Lettera sulla collaborazione dell'uomo e della donna nella Chiesa e nel mondo