Ogni tanto qualche spirito critico si esercita a mettere in evidenza gli inevitabili stereotipi giornalistici in uso nelle redazioni. Nei titoli, si sa, la scoperta è sempre macabra, il problema scottante, l'incidente tragico. Quante volte abbiamo letto che gli inquirenti brancolano nel buio o che la bufera è scoppiata sulla Rai?
Ma anche i politici non sono da meno, nell'adoperare frasi fatte. Per esempio, sui temi eticamente sensibili, come eutanasia, unioni di fatto, ricerca scientifica sugli embrioni, la definizione che ricorre è sempre la stessa: si tratta di "conquiste di civiltà". Una società come la nostra sarebbe dunque arretrata e gravemente incivile, mentre il beato paese dove sia ammesso il suicidio assistito o il matrimonio omosessuale dovrebbe scoppiare di felicità e benessere sociale.
La verità, però, non va di pari passo con i comodi luoghi comuni di chi associa il livello di civiltà all'allargamento dei diritti individuali. Anche rimanendo sul semplice terreno del pragmatismo, e verificando gli effetti di certe leggi sul tessuto sociale, si avrebbero amare sorprese. I paesi europei considerati più avanzati e più civili dell'Italia, soffrono di gravissimi problemi, da cui il nostro governo potrebbe imparare qualcosa.
Vediamo, per esempio, cosa accade in Inghilterra, antica patria della democrazia liberale, e modello per tutti coloro che auspicano i matrimoni gay o anche soltanto un riconoscimento delle unioni di fatto, per incoraggiare la nascita di diverse tipologie di famiglia. Proprio in questi giorni il conservatore inglese Duncan Smith ha consegnato al suo leader, David Cameron, una relazione fitta di dati davvero allarmanti sulle cause e gli effetti della crescente disgregazione sociale nel paese.
Nel rapporto, il cui apocalittico titolo «Breakdown Britain» potremmo tradurre con «Il collasso dell'Inghilterra», si tratteggia il quadro di un paese ai limiti dello sfacelo, in cui il welfare, l'assistenza, la scuola pubblica, e in genere le politiche sociali, non bastano a bloccare «la spirale viziosa che spinge verso il fondo milioni di persone vulnerabili». Il cuore del disastro è identificato nel disfacimento progressivo della famiglia, che sempre meno è in grado di svolgere le sue preziose funzioni, soprattutto educare i figli e proteggere i membri più deboli.
Le unioni di fatto, stando ai numeri, si rompono con una frequenza spaventosa: una su due naufraga prima che il figlio compia cinque anni, mentre a chi si sposa regolarmente questo accade solo in un caso su 12. Da buon inglese, Smith fa anche i conti, sottolineando i pesantissimi costi che lo stato deve sopportare per ogni nucleo familiare che va in pezzi, provocando una serie di ricadute sui suoi membri più indifesi: i bambini, in primo luogo, ma anche le donne sole. Inoltre dimostra che il 70% della delinquenza giovanile proviene da famiglie monoparentali, e mette in luce i nessi tra disagio familiare e abuso di alcool e droghe, citando sempre le cifre.
Il rapporto si conclude con un accorato apologo del matrimonio classico, che dovrebbe tornare ad essere il fulcro di ogni politica sociale. Niente altro può essere di vero aiuto: solo una urgente riflessione su come fornire sostegno alla famiglia può fermare il disastro.
L'analisi di Smith è tanto più credibile, in quanto rischia di imbarazzare più che di aiutare David Cameron, giovane leader emergente, che ha puntato tutto sul rinnovamento del vecchio conservatorismo inglese, e ha rassicurato gli ambienti gay sulla permanenza del matrimonio omosessuale qualora al governo tornassero i tory. Ma sui dati è difficile discutere, e quelli inglesi sono impressionanti. Lo stereotipo così pervasivo e rassicurante sulle unioni di fatto come semplice e automatica "conquista di civiltà", andrebbe dunque ripensato, forse rovesciato. Se dobbiamo dare credito al rapporto Smith, e far tesoro dell'esperienza inglese, incoraggiare pacs e unioni di fatto sarebbe una scelta politica con effetti che a lungo termine appaiono devastanti, e che metterebbe a rischio i livelli di civiltà invece di alzarli.
Pubblicato su Avvenire del 14-12-2006
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