Flavio Bucci nel Tartufo di Molière
La distinzione tra morale (moralità) – cui genericamente attribuiamo un significato positivo - e moralismo – con significato negativo - non è una sottigliezza per filosofi, ma un'esigenza che tutti sentiamo pressante nella vita quotidiana: per indirizzare i nostri comportamenti, o valutare quelli degli altri. Questo vale nelle amicizie, nel lavoro, nella politica. Anche se, a volte, ci capita di non riuscire a trovare il giusto bandolo della matassa.
Il fastidio per il moralismo e per i moralisti (pessimi soggetti inclini a prediche fastidiose, di cui ci apprestiamo a tratteggiare meglio i lineamenti) è spontaneo e legittimo. Tale fastidio rischia però - a volte - di trasformarsi in fastidio per la morale tout court; e questo è un grave abbaglio.
Chi nega la distinzione tra moralità e moralismo spesso fa semplicemente confusione. Oppure è - magari da direzioni opposte - un nemico della morale.
A negare la distinzione, da un lato, può essere un amorale, o addirittura un immorale, un cinico, che taccia di spregevole moralismo chiunque suggerisca regole di convivenza civile; o, comunque, un superficiale, che calpesta con disinvoltura il prossimo appellandosi alla propria “spontaneità”.
Oppure, dal lato opposto, può cercare di sovrapporre i due elementi proprio il moralista, che cerca di proteggersi attribuendosi una patente di finta moralità, strumentalizzandola.
Nell'articolo in cui illustriamo il significato pieno della libertà, cerchiamo anche di chiarire l'importanza della moralità, intesa come sforzo di attenersi ad un codice morale.
Un equivoco diffuso è quello di confondere spontaneità e sincerità. Ricordare che la spontaneità non può essere il faro dei comportamenti non significa - come vedremo - elogiare l'ipocrisia. Significa avere la maturità di coniugare la sincerità - che è amore della verità - col rispetto degli altri e di sè.
La moralità è dunque auspicabile e necessaria. Ma ha un altro nemico, che muove - per così dire - da direzione opposta: non negandola, ma sclerotizzandola, strumentalizzandola. E' il moralista. Che differenza c'è, allora, tra moralità e moralismo? La persona davvero "morale" è quella che afferma l'importanza di alcuni valori e cerca di uniformare ad essi innanzitutto il proprio comportamento. Perché è di quello che siamo chiamati a rispondere. Se si comprende ciò, si comprende perché nell'occhio del fratello troviamo - dobbiamo trovare - sempre solo una "pagliuzza", mentre nel nostro una "trave".
Si possono - e si debbono - anche denunciare le situazioni in cui alcuni valori sono calpestati; ma a condizione di spiegare bene quali valori sono stati traditi, e di avere grandissimo pudore nel fare nomi di persone: l'onorabilità è un bene preziosissimo, la calunnia un male detestabile. Si può giudicare - con prudenza - un comportamento, bisogna evitare di giudicare la persona. (S.Agostino diceva: "Diligite homines, sed interficite errores", "Amate gli uomini, ma condannate gli errori")
Il moralista, invece, parla genericamente di "immoralità" e "disonestà", senza indicare quali principî concreti e definiti siano stati infranti, senza spiegare quale - secondo lui - sarebbe il comportamento corretto e concretamente realizzabile.
Il moralista invoca una moralità della società, degli altri, che non gli richieda impegno. Conosciamo bene il vezzo di criticare solo i vizi delle altre categorie: il commerciante critica lo statale, che critica il professionista, che critica il politico, .... Il giovane critica i vizi dell'adulto: l'inquinamento, l'evasione fiscale; l'adulto critica i vizi del giovane: la sregolatezza, l'incoscienza. Ma ognuno, quando guarda ai vizi propri (se li vede), ha la giustificazione pronta: "sono una necessità", "tengo famiglia", "così fan tutti".
Oppure abbiamo il moralista del "fine che giustifica i mezzi". Si appella a grandi obiettivi morali; così grandi e così "morali" che... lo fanno sentire giustificato nel calpestare le regole morali concrete.
L'allora cardinal Ratzinger, nella sua conferenza tenuta a Subiaco il 1-4-2005 (L'Europa nella crisi delle culture), individuò una delle cause della decadenza europea proprio nella degenerazione della sua energia morale in vago moralismo:
"Oggi esiste un nuovo moralismo le cui parole-chiave sono giustizia, pace, conservazione del creato, parole che richiamano dei valori morali essenziali di cui abbiamo davvero bisogno. Ma questo moralismo rimane vago e scivola così, quasi inevitabilmente, nella sfera politico-partitica. Esso è anzitutto una pretesa rivolta agli altri, e troppo poco un dovere personale della nostra vita quotidiana. Infatti, cosa significa giustizia? Chi lo definisce? Che cosa serve alla pace?"
Il moralista, vago nella definizione di principî cui dovrebbe attenersi, diventa spesso spregevolmente concreto quando sceglie alcune persone come obiettivo, le 'etichetta' senza appello, le ricopre di accuse senza prove, pretendendo che siano gli accusati a dover provare la propria innocenza.
Quando lo si guarda da vicino, sul moralista si scoprono tante cose. Il suo obiettivo non è la difesa dei valori morali, ma la distruzione di alcune persone concrete: la moralità è uno strumento. La persona da colpire slealmente è un avversario politico, un concorrente economico, un rivale nella professione. Altre volte il moralista è mosso da spirito vendicativo; o dall'invidia: critica un comportamento solo perché non ha avuto la possibilità di essere al posto del suo bersaglio, e di fare peggio.
Infine, non è raro scoprire che i moralisti più feroci sono quelli che hanno qualcosa da nascondere: denunciare i presunti vizi altrui è un modo per costruirsi una patina di onorabilità che distolga l'attenzione dai vizi proprî!
Si crea il capro espiatorio, volendo illudere gli altri (e forse anche se stessi) che basti sacrificarlo per purificare la società. C'è anche il moralismo dei "cavoli a merenda", o dello "sciacallo benpensante": quello che nelle tragedie naturali, ad esempio, trova solo lo spunto per attaccare l'avversario politico...
Abbiamo tratteggiato profili netti. Ma spesso in ognuno di noi, come narrava una celebre favola di Fedro (Le bisacce di Giove), emerge di volta in volta l'uno o l'altro aspetto: l'acquiesciente amoralità, o il severo moralismo...
Una distinzione per molti aspetti simile a quella che abbiamo delineata è quella tra rispetto (tolleranza) e ipocrisia; una distinzione che chiama in causa l’atteggiamento, lo spirito con cui si rispettano le norme morali (ma anche quelle, ad esempio, della “buona educazione”).
Chi tende a negare tale distinzione?
L' "anticonformista" (ovvero il maleducato, l’indifferente, il superficiale), pronto a ferire con nonchalance l’altrui sensibilità.
O, all’opposto, l’ipocrita, che vuole far passare la sua recita fastidiosa come esempio di buone maniere. Rispetto e tolleranza sono richiesti – e ci auguriamo di non doverci dilungare nell’argomentarlo – di fronte alle idee (politiche, culturali, religiose) e ai codici di comportamento diversi dai nostri: la critica violenta o il sarcasmo non sono ammissibili. Ciò non significa che non possano essere formulate - se la situazione lo richiede - critiche pacate, con le quali si esprimono le proprie idee: altrimenti entriamo nella dittatura del “politicamente corretto”, che pretende di imbrigliare il pensiero ritenendo offensiva e intollerante ogni osservazione critica.
Rispetto e buon senso significa anche, se le condizioni lo consentono e lo richiedono (di fronte a persone anziane, quando si è ospiti, ecc.), adattarsi a convenzioni che non si condividono pienamente: questi “compromessi” a favore degli altri, per trovare un punto di incontro, sono moralmente leciti se non ripugnano alla nostra coscienza. I compromessi da rifuggire sono invece quelli con i proprî principî fondamentali, per tornaconto.
Un nemico del rispetto e del buon senso, dunque, non è solo l'egoista violento e insofferente degli altri (troppo facile...), ma anche l'anticonformista, colui che è troppo superficiale per capire il senso delle norme morali o delle convenzioni, e taccia di conformismo chi si sforza - magari con coscienza - di seguirle. L'anticonformista ha come solo metro di giudizio quello di andare controcorrente, di fare il "bastian contrario"; senza domandarsi se la sua è una vera e coraggiosa ribellione ad una convenzione sclerotica (ce ne può essere occasionale bisogno), o solo un nuovo (seppur al rovescio) condizionamento, che egli subisce dai comportamenti altrui. Diviene, insomma, una persona che vive di riflesso, proprio con quella mancanza di autonomia di cui accusava i "conformisti" o gli "ipocriti": è un "conformista dell'anticonformismo".
Alleato - dal versante opposto - dell'anticonformista è l’ipocrita, colui che mina le convenzioni sociali appropriandosene e svuotandole. Come riconoscerlo?
Ipocrita è colui che limita i suoi impulsi non per realizzare ciò che ritiene giusto, ma per fare bella figura, trarre un profitto, indurre in inganno. L’ipocrita (in greco significa “attore”) non si accontenta di una dignitosa cortesia verso la persona che gli sta antipatica, ma ostenta un’esagerata cerimoniosità; l’ipocrita approfitta, non appena possibile, per sparlare alle spalle della persona che aveva lodato in sua presenza. Ipocrita è il moralista che abbiamo tratteggiato, abituato ad usare due pesi e due misure. Ipocrita è, a volte (altre volte è semplicemente poco intelligente), il bigotto (ne esistono di religiosi e di atei), cioè il conformista ottuso che applica rigorosamente regole di cui non comprende il significato. Ipocrita è il finto retorico, che si riempie la bocca di lodi sperticate, di Maiuscole, per Valori in cui non crede.
Ma rifiutare l’ipocrisia lo ripetiamo, non significa rinunciare al rispetto e ai valori. Rigettare la vuota apparenza, il mero formalismo, non può significare rinunciare anche alla sostanza, che pure - in una società in cui il linguaggio e i codici sono fondamentali - ha bisogno delle sue forme. Non si può gettar via il bambino con l'acqua sporca.
Per una serena convivenza, va detto infine, non bastano le norme (legali o morali): servono pazienza, comprensione, perdóno per chi non le rispetta. In effetti, non basta la "tolleranza" (che, in fondo, è un sentimento di estraneità): servono accoglienza e amore.
Ma questo è un altro discorso…