La fiction (è proprio il caso di dirlo) Il padre delle spose, andata in onda su RAI Uno per la prima volta nel 2006, è stata riprogrammata nel 2009 e ancora giovedì 6 giugno 2013: non capita quasi mai che una replica venga riproposta in prima serata, sulla rete "ammiraglia", nel palinsesto dei mesi non estivi; eppure in questo caso abbiamo assistito a ben due repliche di questo tipo!
Collocazione di prestigio, insomma, per un prodotto che – stringi stringi – non voleva offrire un momento di intrattenimento, bensì fare propaganda al matrimonio omosessuale.
Prima di spiegare il perché, vogliamo rammentare – ne parleremo in fondo all’articolo - che la prima programmazione era stata accompagnata da un’inquietante azione di censura e boicottaggio verso chi aveva criticato il telefilm.
Innanzitutto, possiamo dire con tranquillità – perché la fiction ce la siamo sorbita tutta – che il prodotto è qualitativamente scadente: per soggetto, sceneggiatura, recitazione.
Soggetto scialbo e semplicistico. Un capofamiglia pugliese (Banfi) va a trovare dopo molti anni la figlia in Spagna, e scopre che si è sposata (come lì consentono le nuove leggi volute da Zapatero) con una bellissima ballerina di flamenco. Torna al suo paese scandalizzato e incapace di raccontare a chicchessia la verità. Ma viene raggiunto da figlia, sposa-compagna e figlia di primo letto di lei, le quali sono perseguitate dall'ex marito della ballerina. Le nuove arrivate trovano un alloggio, e la solidarietà diffidente del padre, timoroso che la cosa si venga a sapere.
Ma, naturalmente, due spose lesbiche non sono persone qualunque: sono persone speciali, ricche di umanità più di chiunque altro; capaci con un corso di ballo di ridare orgoglio a tutte le donne del paese; capaci di mettere d’accordo olivicoltori diffidenti, organizzando un consorzio che faccia fronte al “cattivo” di turno, un imprenditore locale sfruttatore, ricattatore e pure un po’ mafioso. Alla fine le nostre eroine, acclamate da tutti, hanno: ricomposto la famiglia, fatto superare diffidenze e pregiudizi, vinto la criminalità e rilanciato l’economia locale! E tutto il paese – parroco compreso – si può lanciare in un vorticoso ballo.
Il soggetto, peraltro, è poco originale, visto che emerge chiaramente l’ispirazione al film francese Chocolat: si ripete il filo conduttore per cui, in un paese "retrogrado" (religione e valori tradizionali sono dipinti negativamente), arrivano le persone "libere da pregiudizi", le quali, con un bel ballo (o un po' di cioccolata al peperoncino), risolvono tutti i problemi e regalano progresso e tolleranza.
La sceneggiatura è mediocre come il soggetto, incapace di ogni introspezione dei personaggi. In questo la fiction italiana fa molto peggio del film francese, che cercava almeno di problematizzare un po’ il personaggio interpretato dalla Binoche, i traumi che trasmetteva alla figlia. Ne Il padre delle spose abbiamo solo macchiette: positive le due “spose”; negative le persone “prigioniere dei pregiudizi”, con i tratti tipici del “terrone” meridionale. Le macchiette negative si distinguono però in due categorie: quelle che in fondo sono “buone” (e quindi capaci di redimersi), e quelle irrimediabilmente “cattive”, anche perché il "pregiudizio omofobo" si sposa – e ti pareva - con l’indole delinquenziale (il produttore di olio e il sindaco corrotto).
La recitazione: dignitosa quella dei caratteristi di contorno (chiamati appunto a dipingere macchiette di paese), inespressiva quella delle due protagoniste femminili. Delle 'doti' di recitazione della figlia di Banfi (Rosanna) già si sa. L’altra (Mapi Galan) è una modella, e nient’altro: quanto basta per appagare l’occhio del pubblico maschile e lanciare il messaggio: lesbo non è una scelta per chi ha poco successo con gli uomini.
Il tutto si regge sul grande mestiere e sulla simpatia di Lino Banfi, capace da solo di risollevare l’Auditel: dispiace che questo attore si presti, negli ultimi anni, a queste operazioni …
Un prodotto tanto mediocre non meriterebbe, probabilmente, alcuna attenzione.
L’analisi che abbiamo sin qui condotto, però, dimostra che non si è trattato di un mero prodotto di intrattenimento, più o meno riuscito. Si è trattato di un’operazione con fini propagandistici e politici: nel 2006, preparare il terreno alla battaglia per i PACS e i matrimoni omosessuali; con le repliche successive, rilanciare quella battaglia perduta?
Ma, quel che è peggio, si è trattato di un'operazione squallidamente moralistica. Che non solo sponsorizza sfacciatamente (cosa ben diversa dall'affrontare problematicamente), in un orario in cui guardano la tv anche i bambini, stili di vita in gran parte non condivisi dai cittadini (e genitori) che pagano il canone; ma addirittura bacchetta questi stessi cittadini come intolleranti (e un po’ mafiosi)!
Insomma, chi teme lo “Stato etico” può averne ben presente, come manifestazione esemplare, questa forma di moralismo antifamiliare di Stato finanziata col denaro pubblico…
Se poi consideriamo che gli autori di questo 'capolavoro', i dirigenti di struttura che lo hanno autorizzato e finanziato, le lobbies che lo hanno suggerito, rivoltano su altri l'accusa di moralismo... non sappiamo se ridere o piangere.
Alcuni movimenti cattolici avevano chiesto almeno lo spostamento in seconda serata, ed erano stati additati come censori – in particolare il sito internet www.culturacattolica.it -, in un articolo apparso su La Repubblica. Insomma: se un cittadino scopre che con i suoi soldi viene ridicolizzato in prima serata come bigotto e retrogrado… non può lamentarsene.
E veniamo, allora, all’inquietante episodio di censura e boicottaggio: di quelli veri, non enfatizzati nelle accuse e negli sproloqui. Ebbene, l’anatema di La Repubblica fece centro: subito dopo la pubblicazione di quell’articolo, si scatenò un gigantesco attacco di hackers che oscurarono il sito www.culturacattolica.it per due settimane!
Insomma, esistono numerosi paladini della “lotta di liberazione per i diritti degli omosessuali”, ben organizzati e coordinati, i quali, al dibattito culturale e politico, preferiscono i mezzi violenti. Si ripete il meccanismo psicologico - vittimistico e autoassolutorio – di molti crimini: ogni mio desiderio è un “diritto fondamentale”, chiunque l’ostacoli è un intollerante che mi fa violenza, per cui posso combatterlo con ogni mezzo violento. Dalla violenza-censura-intolleranza insinuate, ed attribuite agli altri, si passa a quelle reali, di cui si è direttamente protagonisti.
Non pensiamo, naturalmente, che tutti i simpatizzanti del movimento gay approvino tali sistemi. Ma ci piacerebbe che la campagna per i “diritti” (quelli reali e quelli presunti) degli omosessuali seguisse percorsi più prudenti, problematici, dialoganti, senza alimentare un clima favorevole ai veri intolleranti (che albergano anche da quelle parti, e verso cui ci piacerebbe sentire qualche autorevole condanna…).
Se poi un giorno anche il nostro sito sparisce dalla rete…