“La Turchia in marcia verso l’Unione Europea”
(Vignetta di Hassan Bleibel, pubblicata il 16-12-04 sul quotidiano libanese al-Mustaqbal)
Turchia nell’Unione Europea. È una questione che ci coinvolge da vicino? Le opinioni che ognuno di noi ha in merito sono sovente 'distaccate', poco appassionate: sia quelle positive (sulla base di un’astratta idea di “abbattimento delle frontiere”), sia quelle negative (sulla base di un generico sentimento di estraneità rispetto alla realtà turca).
Possiamo permetterci di avere opinioni ‘distaccate’ su questo tema?
Teniamo presente che le prossime decisioni di ingresso di nuovi Paesi nell’Unione Europea saranno probabilmente sottoposte a referendum popolari confermativi. Questo avverrà tra molti anni, ma le tappe intermedie – le trattative intergovernative - sono già in corso, e il “clima” politico - favorevole o contrario - comincia a costruirsi adesso.
Teniamo presente, soprattutto, che la decisione da prendere avrà un ricaduta enorme sugli assetti sociali ed economici anche del nostro Paese.
Non si sta parlando, infatti, di stabilire semplici accordi, intese, cooperazioni. Si sta parlando di vero e proprio ingresso a pieno titolo nell’Unione Europea, cioè in quell’istituzione sovranazionale che ha assunto in molti campi larghi poteri, i quali le consentono finanche di imporsi agli Stati nazionali: decidendo il tipo di servizi (bancarî, assicurativi, commerciali, professionali) che ci devono essere offerti; decidendo la qualità di quello che mangiamo; fissando i parametri della nostra politica economica (e, indirettamente, le tasse che dobbiamo pagare, gli investimenti che possiamo fare, ecc.). Un nuovo membro dell’Unione è un nuovo soggetto che concorre a pieno titolo alle decisioni, una nuova “persona che entra in casa da padrone”.
La Turchia, peraltro, non sarebbe un nuovo membro qualunque: avrebbe un peso decisionale notevole e determinante, visto che si tratta di un Paese con oltre settanta milioni di abitanti, e in rapida crescita demografica. Diventerebbe presto lo Stato più popoloso è più influente dell’Unione: quello che elegge più deputati al Parlamento, che ha più membri nella Commissione, che ha un voto più “pesante” nelle Conferenze intergovernative, ecc.
Tra Paesi che si vincolano reciprocamente in maniera così stretta, che vogliono costruire una realtà politica (non solo economica), è necessaria – ci sembra ovvio - una notevole comunanza di vedute, di valori e di interessi; altrimenti, la decisione del più forte (che potrebbe anche consistere nel potere di porre veti, o di annacquare iniziative sgradite), risulterebbe insopportabile ai più deboli.
Vediamo, dunque, quali sono i principali punti su cui deve essere verificata la possibilità di una piena integrazione della Turchia in Europa. Punti che, ce ne accorgeremo subito, si rivelano abbastanza problematici.
Il nazionalismo turco – In Turchia, sia a livello politico-istituzionale, sia a livello popolare, prevale ancora largamente un’idea nazionalista molto forte. Un nazionalismo che si fonda su un grande orgoglio e sul ricordo di un passato di potenza imperiale. Questo comporta atteggiamenti ormai inaccettabili – secondo i nostri parametri – sia in politica estera, sia in politica interna.
In politica estera si sono rasserenati negli ultimi anni i rapporti con la Grecia, ma resta in piedi la questione di Cipro. Alla Turchia risulta ancora intollerabile il fatto che uno Stato come Cipro, libero e membro dell’Unione Europea, possa liberamente governarsi, solo perché vi è presente una forte minoranza turca. Nel luglio 1974 la Turchia ha occupato militarmente la zona turca di Cipro, reagendo al tentativo della componente greco-cipriota di favorire - con un tentato golpe - l'unificazione con la Grecia. Ciò ha determinato la secessione di una “Repubblica turca di Cipro del Nord” mai riconosciuta né dall’ONU né da nessun altro Stato (a parte ovviamente la Turchia stessa). Il Governo turco continua a spalleggiare il governo cipriota separatista del nord, e ad attuare un ostracismo diplomatico e commerciale - contrario alle regole europee - contro il Governo cipriota legittimo, anche adesso che questo è entrato a far parte dell’Unione Europea.
(A fine ottobre 2009, il Ministro degli Esteri turco, Ahmet Davutoglu, in visita a Sarajevo ha affermato che lo scopo della politica turca è la nuova ascesa dell’impero ottomano nei Balcani: "I secoli ottomani sono la storia dei Balcani, e ora la dobbiamo rifare" (!) ).
In politica interna, c’è il problema del mancato rispetto delle minoranze. Sono state abolite, negli ultimi anni, le discriminazioni più odiose (il divieto di portare nomi non turchi, il divieto di acquistare immobili, il divieto di utilizzare e insegnare le proprie lingue e i propri dialetti). Ma sono riforme timide, piene di limitazioni, e ostacolate nell’attuazione concreta: le emittenti radiofoniche delle minoranze possono trasmettere solo su un territorio ristretto; i programmi non possono superare una certa durata (!); le autorizzazioni per il rilascio di beni confiscati sono ostacolate o negate, ecc. Ai curdi – 15 milioni di persone - non è concesso nessun tipo di autonomia; i cristiani di diversa etnia (armeni, greci, caldei, siriani) non sono nemmeno riconosciuti come minoranze.
Chi cerca di difendere i diritti di queste popolazioni è sottoposto a discriminazioni e – talvolta - a violazioni della proprietà privata, arresti e torture: il ministro della Giustizia turco ha ammesso che, nei 392 processi giudiziari per tortura dibattuti davanti al Tribunale Europeo per i Diritti Umani, la Turchia è stata condannata ad un risarcimento danni alle vittime per complessivi 4,3 milioni di euro. Altre 149 denunce aspettano di essere dibattute dal Tribunale Europeo.
I libri di testo delle scuole descrivono le minoranze come barbare e sovversive.
Alle limitazioni delle libertà politiche, economiche, culturali e sociali si affiancano, ovviamente, le limitazioni alla libertà più elementare, quella religiosa. Ai cristiani – cattolici, caldei, ortodossi - viene impedito di costruire Chiese, aprire seminari, diffondere pubblicazioni religiose. Le Chiese non hanno personalità giuridica. Esiste un organo di Stato – la Direzione degli affari religiosi –, affidato a un Muftì musulmano sunnita, incaricato di sovraintendere al culto.
Per finire (ma non sarebbe finita…), a proposito di libertà di espressione, una legge dello Stato turco vieta anche solo di parlare del genocidio armeno (il massacro di quasi due milioni di armeni cristiani). E proprio quest’anno la Francia ha approvato una legge che – all’opposto – condanna chi neghi l’esistenza di tale genocidio! Un bel viatico all’integrazione…
L’identità islamica – Le fonte delle discriminazioni di cui abbiamo parlato non ha, in prevalenza, una radice religiosa (come accade in Paesi dove governa il fondamentalismo), ma – come detto – nazionalistica. Questo perché il “padre” della Turchia moderna, Ataturk, ne ha fatto uno Stato retto da principî di rigido laicismo (per lunghi anni è stato vietato anche alle donne islamiche di portare il velo), garantito dai militari. Però non ha combattuto apertamente l’Islam, ma ha cercato di inglobarlo nelle strutture pubbliche, garantendogli gli spazi necessarî e una posizione di privilegio. Ora che – proprio su richiesta europea – si sta cercando di ridimensionare gli eccessi di quel laicismo, di allargare gli spazi democratici ridimensionando il ruolo dei militari, si sta riaffermando un’identità islamica con tentazioni integraliste (anche se lontane dal fondamentalismo terrorista), proprio perché in questi decenni non ha fatto un cammino di modernizzazione, ma ha semplicemente sopito le proprie istanze “organicistiche”. L’Islam, infatti, neanche in Turchia conosce i concetti di pluralismo e di laicità (distinzione tra Stato e religione); ha una visione - appunto - organicistica (fusione tra potere religioso e politico), e conta semplicemente di ribaltare i rapporti di forza: sostituire la propria guida a quella dei militari laicisti.
Quindi i problemi dei diritti umani, delle libertà politiche e sociali, della tutela delle minoranze, del ruolo della donna, restano insoluti: i passi avanti sono pochi, intrapresi malvolentieri, su spinta europea (quando c’è), nella speranza di averne benefici economici.
I problemi esaminati, come si può facilmente capire, esprimono un’identità culturale – prima ancora che religiosa – al momento incompatibile con quella europea.
Va anche detto che nelle grandi città turche – Istanbul, Ankara - esiste una consistente minoranza che guarda con simpatia allo stile di vita occidentale. Ma si tratta, appunto, di una minoranza: la stessa che esisteva in Iran, sotto lo Scià, prima della rivoluzione khomeinista…
Le risorse economiche da destinare alla Turchia – I principî di solidarietà europea hanno sin qui previsto (sempre con lunghe e faticose trattative) la destinazione di aiuti e fondi strutturali agli Stati membri e alle regioni meno sviluppate. Ciò ha prodotto notevoli benefici per chi questi fondi ha saputo far fruttare, soprattutto Irlanda, Finlandia, Spagna (ma anche, in parte, Abruzzo, Sardegna, Puglia, Lazio meridionale…). L’ingresso nell’Unione di un nuovo Stato di settanta milioni di abitanti, con un reddito pro-capite largamente inferiore alla media europea, richiederebbe una mole ingentissima di aiuti economici (che si aggiungono a quelli già richiesti dai Paesi dell’Est europeo di recente ingresso, anch’essi poveri). Non si scappa: Paesi come l’Italia dovrebbero rinunciare ad ogni tipo di aiuto per le proprie regioni meno sviluppate, ed anzi incrementare notevolmente i proprî contributi all’Unione. L’Unione, per noi, avrebbe l’unico vantaggio di essere un ampio mercato aperto, se sapremo essere competitivi; vantaggio che dovremo pagare con un prezzo molto salato come “contribuenti attivi”.
L’immigrazione – Turchia nell’Europa significa frontiere aperte e, finché quel Paese non avrà raggiunto un benessere economico di stampo occidentale (se riuscirà a crearne le condizioni), significa milioni di immigrati nei Paesi più “ricchi”. Al momento, sembra che facciamo fatica a gestire quelli già presenti…
La nuova politica estera e militare europea – L’ingresso della Turchia sposterebbe ad est i confini dell’Unione, a contatto con zone molto “calde”: Caucaso, Iran, Irak, Siria. La politica estera europea, già debole e timorosa a causa delle divisioni interne, sarebbe chiamata ad affrontare direttamente situazioni scottanti, con un nuovo membro che ne accresce le divisioni ideologiche… Anche dal punto militare, inoltre, l’integrazione sarebbe difficile. L’Europa non ha forze armate integrate, ma solo una Forza di intervento rapido, mentre la Turchia è dotata di un esercito numeroso, ben attrezzato, e spesso “operativo”… L’integrazione potrebbe avvenire solo nel contesto NATO – dove già avviene - , d’intesa con Stati Uniti, Canada ed altri Paesi non membri dell’UE. Ma ciò indebolirebbe definitivamente la prospettiva di un’Europa unita anche sul piano politico, oltre che su quello economico.
I nodi elencati sembrano rivelare una notevole lontananza dell’universo turco rispetto al nostro, rendendo allo stato impossibile ogni integrazione piena. L'identità europea verrebbe snaturata, né sembra (e probabilmente non sarebbe neanche giusto) che i Turchi abbiano volta di integrarsi in essa, come hanno saputo fare altri musulmani che si sentono pienamente cittadini europei.
Le obiezioni all’ingresso a pieno titolo della Turchia nell’Unione Europea non sono dovute, insomma, ad un superficiale sentimento di timore (“mamma li Turchi!”), ma si fondano su problemi molto serî, di cui è difficile intravedere la soluzione.
Però, per i fautori dell’ingresso della Turchia dell’Unione, proprio questi nodi presentano un rovescio della medaglia che induce a guardare favorevolmente a tale ingresso.
Si sostiene, infatti, che i progressi – pur faticosi - fatti da quel Paese sulla strada della democrazia e del rispetto dei diritti umani sono dovuti alla prospettiva di entrare nell’Unione (e di conseguire i vantaggi economici che ne deriverebbero). Ulteriori progressi sono possibili proseguendo su questa strada. Negando quella prospettiva, invece, si rischierebbe di rinfocolare nazionalismo e integralismo islamico, e magari di saldarli (anche se l’idea fondamentalista della umma - la grande comunità islamica sovranazionale, il califfato - è per sua natura antitetica al nazionalismo); si rischierebbe di spingere la Turchia ad Est, a cercare nuove e più pericolose alleanze, lasciando che venga meno al suo importante ruolo stabilizzatore in Medio Oriente.
Inoltre, si sottolineano i vantaggi economici che potrebbero venire all'Unione nel suo complesso (o ad alcuni gruppi finanziari?) dall'adesione turca: mercato più ampio, maggiore sicurezza sugli approvvigionamenti energetici che provengono dal Caucaso e dal Medio Oriente.
Concordiamo sul fatto che la politica non deve limitarsi a fotografare la realtà: deve essere capace anche di slanci, di scommesse. Ma non di salti nel buio: il coraggio va distinto dall’incoscienza.
Può essere guardato positivamente, dunque, un processo di avvicinamento paziente, che cerchi di monitorare seriamente i progressi turchi nelle materie che abbiamo esaminato. Ma questo monitoraggio non può essere eluso con l’alibi che “non si possono umiliare i Turchi sottoponendoli ad esami continui”. Per cui è inaccettabile – per fare solo un esempio - che il Parlamento europeo, quando il 15 dicembre 2004 ha votato il via libera all’apertura dei negoziati con la Turchia, abbia bocciato un emendamento che chiedeva la soppressione in Turchia della Direzione degli affari religiosi e il ripristino della libertà religiosa…
Quando sono in gioco valori e interessi fondamentali – che potrebbero essere compromessi in casa nostra – non ci si può fare accecare dall’ingenuo ottimismo o dalla smania di far realizzare ai soliti noti affari profittevoli. Insomma, non possiamo capovolgere la successione logica delle cose: prima lo scioglimento dei nodi sul tappeto, mediante un paziente dialogo e facendo i possibili passi in avanti; poi l’integrazione vera e propria.
Saremo ben contenti se un cammino di avvicinamento rendesse la Turchia il laboratorio di un islam che fa i conti con la modernità, la libertà e la democrazia. Ma, a nostro modestissimo avviso, ci sembra che i problemi esaminati abbiano cause profonde (identità radicalmente diverse), di difficile superamento nel volgere di pochi decenni.
Di questi problemi, a dire il vero, sono ben consapevoli alcuni fautori dell'ingresso della Turchia nell'UE, come i radicali e le correnti del laicismo più intransigente. Nella loro ottica, infatti, le differenze di cultura e valori non sono un ostacolo da superare, ma un'opportunità da utilizzare per indebolire il profilo identitario dell'Europa. L'auspicato ingresso della Turchia (ma anche di Israele o del Marocco!), insomma, sarebbe lo strumento perché la si finisca una buona volta di parlare di radici cristiane dell'Europa, come ha ammesso esplicitamente Emma Bonino. Se l'obiettivo principale è la lotta alla religione, i problemi sociali derivanti dalle difficoltà d'integrazione diventano secondari...
Concludendo: l’approdo più ragionevole, a medio termine, non ci sembra un ingresso della Turchia nell’Unione, bensì un “partenariato privilegiato”, formula che garantirebbe in ogni caso ad Ankara numerosi vantaggi economici, e consentirebbe di tenere le porte aperte a futuri positivi sviluppi.
P.S. Il cardinal Ratzinger, prima di diventare Papa – e non pensando mai che questo sarebbe potuto avvenire –, espresse schiettamente il suo disaccordo sull’ingresso della Turchia in nell’Unione Europea, sottolineando che si tratterebbe di sovrapporre identità per molti versi incompatibili: la Turchia – l’Impero Ottomano - ha una storia di opposizione all’Europa.
Ora, eletto Papa, la responsabilità del ruolo richiede toni diplomatici più attenti. Qualcuno ha sostenuto che, nel suo viaggio in Turchia, abbia cambiato completamente idea.
In realtà, Benedetto XVI si è espresso al riguardo solo in un incontro riservato col premier turco Erdogan (tenuto dopo che si erano chiariti gli equivoci generati da una cattiva interpretazione del discorso tenuto dal Papa a Ratisbona). I contenuti di tale incontro sono stati riferiti da Erdogan probabilmente in maniera un po’ forzata, tanto da spingere il portavoce vaticano – padre Federico Lombardi – alla seguente precisazione: “La Santa Sede non ha né il potere né il compito politico di intervenire sul punto preciso riguardante l’ingresso della Turchia nell’Ue. Tuttavia vede positivamente e incoraggia il cammino di dialogo, di avvicinamento e inserimento della Turchia in Europa, sulla base di valori e di principî comuni”. Quindi, porte aperte a diverse forme di “inserimento in Europa”, non necessariamente all’ “ingresso nell’Ue”; un assenso peraltro condizionato: al se e quando si concretizzeranno “valori e principî comuni”.
Questa dichiarazione era stata preceduta – prima dell’incontro tra Benedetto XVI ed Erdogan – da una del Segretario di Stato vaticano, cardinale Bertone, il quale aveva “auspicato” che la Turchia “possa realizzare le condizioni poste dalla Comunità europea per l’integrazione in essa”. Le “condizioni”.