Riuscirà lo sviluppo italiano a correre più forte dell'orso della recessione?
La manovra "Finanziaria" per il 2007 varata dall'attuale Governo è un perfetto esempio di "eterogenesi dei fini": cioè il risultato dell'azione di governo rischia di essere ancora una volta diverso - o, addirittura, opposto - rispetto a quello che si voleva raggiungere. L'obiettivo che il Governo Prodi - al momento del suo insediamento - dichiarava di essersi prefissato era quello di rilanciare lo sviluppo dell'economia. Con la sicumera tipica di chi privilegia lo slogan all'analisi economica, si affermava che il Paese avesse bisogno di uno "shock positivo" (?) per dare impulso alla crescita. In effetti, lo shock c'è stato, ed anche abbastanza brusco: il risultato, però, è che in pochi mesi abbiamo visto già indebolita la capacità di agganciare la crescita internazionale in atto.
Al momento della prima stesura di questo articolo possedevamo i dati sulla crescita dell'economia italiana nel terzo trimestre del 2006, dati che evidenziavano un rallentamento sui primi due trimestri. I dati del quarto trimestre - che possediamo oggi, al momento dell'aggiornamento dell'articolo - sono più positivi, e prevedono una crescita del PIL su base annua, per il 2006, del 2%. Eravamo stati dunque precipitosi nel denunciare una frenata dell'economia dovuta alla politica del Governo Prodi?
In realtà, dovremmo ormai sapere che da almeno trent'anni la nostra economia non ha più la capacità di innescare autonomamente un processo di crescita autonomo. L'importanza delle politiche economiche nazionali sta nella capacità di agganciare il treno della crescita mondiale. Ebbene, da un anno circa l'economia mondiale ha ripreso la sua crescita: il PIL nel 2006 è aumentato del 5% su base mondiale, del 3,4% negli USA (+2,2 rispetto alla media 2000-2005), del 3,5% in Spagna (+2,4), del 2,7% in Gran Bretagna (+1,5), e - soprattutto - del 2,7% (+2,4) in Germania, l'economia con la quale i nostri scambi commerciali sono più intensi.
"Il traino della Germania c'è", ha ammesso il ministro Bersani, sia pure ipotizzando la nostra capacità di crescere sopra la media UE. In realtà, dal confronto con i dati che abbiamo vito il nostro 2% resta buon ultimo. Ed anche l'incremento del tasso di crescita (+1,7) rispetto alla media 2000-2005 resta inferiore a quello della maggior parte degli altri Paesi: il che significa che il nostro differenziale di sviluppo sta crescendo...
Perché non riusciamo ad agganciare il treno della crescita come dovremmo?
La ragione è semplice, e risiede nel fatto che con le finte "liberalizzazioni" del decreto Bersani-Visco, prima, e con i provvedimenti annunciati nella manovra Finanziaria, poi, si sono colpite le categorie più produttive, in particolare le piccole e medie imprese, che rappresentano la vera forza e ricchezza del nostro Paese. Appare abbastanza ovvio che se vuoi promuovere lo sviluppo non puoi colpire quelle categorie che sono il motore dello sviluppo (anche se allo sviluppo, è ovvio, contribuiscono anche le altre categorie sociali).
L'obiettivo dichiarato - e propagandistico - era quello di "fare liberalizzazioni e agevolare i cittadini"; ma lo strumento scelto - aumento di imposizione fiscale e vincoli burocratici - rivelava un altro obiettivo, reale: quello di limitare gli spazi delle categorie autonome. La conseguenza finale non poteva che essere un freno alla produzione.
A quasi vent'anni dal crollo delle utopie comuniste, non dovrebbe ormai sfuggire a nessuno che lo sviluppo non può essere attivato dallo Stato: ogni pianificazione centralizzata consente un'efficienza nella corretta allocazione delle risorse (tra cui la scelta degli investimenti) infinitamente più bassa di quella prodotta dal mercato, i cui operatori rischiano in proprio e hanno una percezione immediata dei risultati delle loro azioni. Insomma, lo Stato imprenditore o pianificatore può consentirsi di sperperare patrimoni immensi per sostenere aziende decotte e incapaci di ristrutturarsi, come Alitalia; un imprenditore no.
Il compito della Pubblica Amministrazione è piuttosto quello di fornire incentivi e servizi efficienti (pretendendo certo trasparenza e legalità); ma se il lavoratore autonomo è visto come un eversore da imbrigliare…
Il Governo ha poi compiuto un altro gravissimo errore: quello di colpire (tra imposte dirette e indirette, statali e - a breve - locali) anche il reddito delle famiglie e di larga parte del lavoro dipendente, con conseguente raffreddamento dei consumi.
I consumi - ancor più degli investimenti - sono fattore determinante per lo sviluppo. L'esperienza delle economie avanzate col tasso di sviluppo più elevato e più stabile - Stati Uniti in primis - ha dimostrato che la crescita economica è innescata, innanzi tutto, dalla qualità del capitale umano applicato a quello tecnologico-industriale, nonché dalla capacità delle imprese di reagire prontamente allo 'stress' della domanda dei consumatori.
Il 22 novembre 2006 è stato presentato il rapporto Censis-Confcommercio dal titolo "I consumi in Italia e in Europa nel 2006". Ebbene, il rapporto mette in evidenza come la ripresa dei consumi in Italia appaia ancora lontana, mentre sembra più viva la domanda interna in Francia, Spagna, Germania e Gran Bretagna. Nelle famiglie del nostro Paese, benché sia presente una certa voglia di futuro, prevale la sensazione di incertezza per l'immediato, e la conseguente moderazione nelle spese, anche a causa di segnali poco rassicuranti provenienti dal sistema politico ed economico.
In particolare, gli Italiani sono molto più pessimisti circa l'immediato futuro (il 34,2%) rispetto agli altri Paesi (il 5% degli Inglesi, il 10,4% dei Tedeschi, il 19,6% dei Francesi); gli ottimisti sono quasi il 45%, meno che in Gran Bretagna, Spagna e Germania. A settembre solo il 31% delle famiglie italiane ha incrementato i consumi rispetto al trimestre precedente (contro l'oltre 45% di francesi, spagnoli e inglesi). Ancora, solo il 30% degli italiani prevede di aumentare i consumi negli ultimi mesi dell'anno, contro il 55% della Spagna e il 53% della Germania. Infine, più che negli altri Paesi, in Italia pesa la percezione di una limitata disponibilità di reddito che per il 14,5% è addirittura critica. In realtà, la situazione attuale è forse anche peggiore, perché i dati si riferiscono al mese di settembre, quando gli Italiani non avevano contezza della manovra economica del Governo (e in parte ancora non la hanno).
Si tenga conto di un ultimo, fondamentale elemento: non è vero che abbassare la pressione fiscale presenta la sgradevole controindicazione di far diminuire le entrate e, quindi, danneggiare i conti pubblici. Infatti, lo stimolo allo sviluppo innescato dalla riduzione delle tasse fa crescere il Pil e la base imponibile. Aliquote più basse applicate ad un reddito nazionale molto più alto consentono un aumento - anziché - una diminuzione delle entrate! Non si tratta di ipotesi economiche, ma dell' esperienza concreta dei Paesi che hanno intrapreso questa strada (dall'America di Kennedy in poi).
In definitiva, il Governo Prodi ha inciso in maniera negativa sia sulla produzione di beni e servizi sia sulla domanda. Una miscela esplosiva che anche l'ultimo degli economisti sa che non deve mai essere innescata.
Qualcuno potrebbe obiettare: possibile che in pochi mesi di lavoro i provvedimenti del Governo abbiano già prodotto danni? Non sarà anche l'eredità del precedente Governo?
Bisogna allora distinguere, da un lato, gli effetti diretti delle politiche economiche dei Governi, che incidono innanzitutto su entrate fiscali, spesa pubblica e - quindi - sui dati di bilancio. Ebbene, da questo punto di vista l'ultima Finanziaria adottata dal precedente Governo ha dispiegato i suoi effetti in tutto l'anno di riferimento, il 2006; effetti che si sono rivelati positivi (non c'è stato il "buco" di bilancio a lungo denunciato).
Dall'altro lato le politiche economiche hanno anche effetti indiretti, sull'economia reale e sui comportamenti degli operatori economici: investimenti e consumi. In questo caso i provvedimenti - come si dice in gergo - "scontano" parte dei loro effetti già al momento dell'annuncio, perché i comportamenti dei soggetti economici si basano per lo più su previsioni ed aspettative.
Qualcuno però ha deciso di dare fuoco alle polveri, con il rischio di perdere (e in parte l'abbiamo già perso) il treno della ripresa economica in atto negli altri Paesi.