Il muro è un simbolo molto forte nell’immaginario di tutti noi. Rappresenta un ostacolo al movimento, alla comunicazione. Se è eretto da altri per allontanarci, può essere causa di angoscia e sofferenza. I Pink Floyd hanno dedicato un celeberrimo LP, The Wall, al muro – simbolico - dell’incomunicabilità tra persone e generazioni (il protagonista dell'album, di fronte al muro dell'incomprensione che lo circonda, innalza un proprio muro di solitudine per difendersi...).
Ancor più terribili sono stati i muri-prigione reali, eretti per tenere fisicamente prigionieri uomini che dovrebbero essere liberi. Il più famigerato è stato senz’altro quello in cemento che divideva Berlino, e impediva agli abitanti della Germania comunista ogni contatto con l’Occidente. Il suo abbattimento, nel 1989, è restato il simbolo della fine di un’epoca, quella del socialismo reale.
Ci sono altri muri-prigione che sopravvivono: quello che divide la Corea del Nord da quella del Sud; quello – non di mattoni, ma molto concreto e spietato – costituito dalle vedette della guardia costiera cubana, che affondano i canotti dei disperati che volessero fuggire da Cuba alla volta della Florida.
I muri-prigione sono un’infamia che non dovrebbe mai essere consentita.
Muri di tipo diverso – per così dire - sono i muri di protezione, quelli eretti per proteggersi, a volte anche legittimamente, da pericoli immediati o potenziali. Sono quelli delle nostre case, magari rinforzati da porte blindate e inferriate alle finestre; quelli delle cittadelle medievali; quello in costruzione tra Israele e Cisgiordania palestinese per bloccare le incursioni dei kamikaze; quello progettato al confine tra Stati Uniti e Messico per frenare un’ondata immigratoria che sembra oltrepassare le tradizionali capacità di accoglienza degli States.
I muri di protezione possono essere una necessità, o la materializzazione di una paura. Evidenziano in ogni caso una realtà triste, un mondo – o una comunità – in cui la convivenza pacifica non sembra possibile. Ma questi muri proteggono solo i privilegiati dagli emarginati, o anche i deboli dai prepotenti? Basta invocarne l’abbattimento per risolvere i problemi che hanno indotto ad erigerli, o si rischia di spianare la strada ad una violenza più concreta ed incontrollata?
Chissà quante di queste riflessioni hanno accompagnato – o avrebbero dovuto farlo – la costruzione di un nuovo muro: oggi, nel 2006; proprio in mezzo a noi, in Italia. Lo sapevate?
Parliamo del muro – una barriera di metallo spesso, lunga ottanta metri e alta tre – eretta in agosto a Padova, su iniziativa della Giunta comunale, per separare dagli isolati circostanti il comprensorio di via Anelli, divenuto rifugio di bande di immigrati clandestini (magrebini e nigeriani), spacciatori, prostitute, protettori, italiani sbandati e ricercati. Un muro che si allunga con ulteriori transenne, interrotto da veri e proprî check-point presidiati dalle forze dell’ordine giorno e notte. Una soluzione esagerata e scandalosa?
“Io non mi scandalizzo. Quello che so, perché qui ci ho abitato tre anni, è che non si vive. La vita in via Anelli è un inferno, fra spacciatori, prostitute, drogati che vanno e vengono, urla e rumori tutta la notte. E io al mattino mi alzo alle 6 per andare a lavorare". A parlare – in una dichiarazione resa a La Repubblica del 10-8-2006 - non è un leghista, bensì Michael, nigeriano, 35 anni e due figlie piccole, operaio. Gli abitanti delle palazzine vicine raccontano di giornate che trascorrono senza interruzione tra risse (anche a colpi d’ascia e di roncola), bottiglie lanciate contro le finestre del vicinato, prostituzione sfrontata, spaccio di ogni tipo di droga, bisogni fatti a cielo aperto. Non ritenendo sufficiente neanche il muro, molti di questi cittadini hanno recintato anche le loro abitazioni col filo spinato. Per sedare le violenze, a fine luglio, non sono bastate le volanti della polizia, ma sono dovuti intervenire i corpi speciali…
Non c’erano altre vie per impedire che si arrivasse a questa situazione di degrado? Quelle vie che – con un po’ di ingenuità e di semplicismo – passano per la “costruzione di ponti, anziché di muri”?
Ci hanno provato, pare. Sono stati costruiti edifici per uffici, che hanno ospitato anche enti importanti. E’ stato realizzato il canonico parco. Il Comune ha costruito una fontana illuminata, che – essendo posta alla periferia orientale di Padova - voleva significare “Benvenuti in città”. Ma tutto è divenuto rifugio dei criminali.
Allora la Giunta comunale non ha trovato altra soluzione che la costruzione del muro, programmando un successivo sgombero forzato e scaglionato degli edifici occupati. “Ovvio, la destra e la Lega non sono capaci di elaborare soluzioni sociali, conoscono solo questi metodi rozzi”, starà pensando a questo punto qualche lettore. Sennonché la Giunta che ha adottato tali soluzioni è… una Giunta di sinistra, quella del sindaco Zanonato!
Forse proprio per questo la costruzione del muro non ha poi fatto tanto rumore. Immaginate cosa sarebbe successo se la scelta fosse stata di una giunta di centro-destra: titoloni sui quotidiani, manifestazioni di piazza, Santoro che finalmente trova una ragion d'essere al suo ritorno in tv... (p.s.: Santoro, il 9 novembre, la sua trasmissione su Padova l'ha fatta: con il Ministro della Solidarietà Sociale di Rifondazione Comunista Ferrero - in studio - e gli esponenti della Giunta padovana - lungamente intervistati - a spiegare che le cause sono "a monte", che la strada scelta era inevitabile, che la soluzione è a portata di mano, ecc. ec. ecc. E il resto della trasmissione a dimostrare che il vero problema sono le paure e le intolleranze religiose degli Italiani...).
O forse di questo muro si è parlato poco perché, come ha precisato l'assessore alla sicurezza Marco Carrai con splendido esempio di linguaggio politicamente corretto, “non è un muro, ma una recinzione, che si frappone fra due luoghi” (?!).
Il fatto che questa soluzione sia stata scelta proprio da quella parte politica, sempre pronta ad affrontare i temi della sicurezza e della convivenza tra culture con slogan demagogici, ha un alto valore simbolico. Ma non ci sembra che neanche da altre parti si sia culturalmente attrezzati e consapevoli della strada da percorrere.
Noi insistiamo: la vera prevenzione non passa attraverso le generiche parole d’ordine “ospitalità e tolleranza”, né attraverso qualche albero piantato in più, né attraverso iniezioni di soldi pubblici a fondo perduto. La “società multietnica, multirazziale, multiculturale” non è una bellissima realtà che cresce in maniera spontanea e indolore, al solo invocarne le virtù taumaturgiche. Ma bisogna guardarsi anche dalle semplificazioni opposte: una seria e costante (non episodica) azione di controlli, di difesa dell'ordine pubblico, è condizione necessaria, ma non sufficiente.
La via della convivenza è quella dell’integrazione, costruita attraverso un dialogo paziente, regole certe e fatte rispettare, valori comuni. Una convivenza che tuteli anche gli immigrati come Michael.
Non riuscendo ad affrontare questi nodi, la sinistra italiana – ma non solo – oscilla tra il “porte aperte a tutti” e la costruzione di muri inquietanti (anzi no, pardon: "recinzioni") e progetti di sgomberi.
A sgombero ultimato (se si farà), il sindaco ha promesso che il muro e gli edifici del comprensorio verranno abbattuti: gli edifici da abbattere saranno sottopagati ai proprietari (a spese del Comune); gli sgomberati saranno ospitati in altri alloggi (a spese del Comune); su quei terreni i costruttori faranno nuove speculazioni edilizie con ricchi guadagni (a vantaggio proprio. E di nessun altro?).
E intanto i cittadini degli altri quartieri di Padova telefonano ai giornali locali per sapere dove verranno destinati “quelli di via Anelli”. Per sapere se arriverà il proprio turno di dover scegliere tra una vita d’inferno e l'abbandonare (svendere) casa.