Giorgio Paolucci e Camille Eid,
I cristiani venuti dall'islam
ed. Piemme, Casale Monferrato (AL) 2005
recensione pubblicata su Avvenire dell'8-11-2005
«Convertito» è un participio passato. Molto o poco passato, però, dipende dalla grammatica politically correct per cui passare da una corrente all'altra, da un partito a quello opposto, da una religione ad una differente si può definire ignominioso «voltagabbana» oppure salutifero cambiamento d'opinione. Oggi che la conversione non è più tabù (anzi diventa talvolta status symbol...) fanno dunque ancor più indignare le «storie di musulmani convertiti» che i giornalisti Giorgio Paolucci e Camille Eid - ambedue ben noti ai lettori di Avvenire e proprio per la loro competenza sull'islam - si sono decisi a mettere in pubblico nel libro d'imminente uscita I cristiani venuti dall'islam (Piemme, pp. 216, euro 12,90).
Infatti non ci sono soltanto gli italiani che passano al Corano e magari diventano leader con folto seguito di telecamere; esistono pure immigrati che nella Penisola compiono il cammino opposto, affascinati dal Vangelo, e chiedono il battesimo. Però costoro restano assai più nascosti, e non perché la loro vicenda faccia meno notizia (anzi...), né per ritrosia naturale: ma perché rischiano molto, spesso addirittura la vita. «L'islam ha solo una porta: quella d'ingresso», ripetono i testimoni; ed Eid e Paolucci riportano il caso recente di una ragazza pakistana che, scoperta dai genitori a Londra con un Vangelo in camera, è stata spedita in «vacanza» nel Paese d'origine e lì è misteriosamente «scivolata» in un fiume, affogando.
Il martirio per i neo-cristiani provenienti dall'islam non è dunque una metafora e il libro lo documenta; o, se fortunatamente la conversione non approda a tali esiti estremi, essa rimane sempre un drastico cambio di vita, uno strappo spesso definitivo dalla patria e sovente anche dalla famiglia. L'algerino Antonio, per esempio, convertitosi ascoltando Radio Maria, racconta della fatica nel farsi riaccettare dalla madre e dai fratelli. Il turco Antuan (oggi novizio gesuita) ha sentito il padre minacciarlo di morte se avesse continuato nei suoi propositi, narra delle persecuzioni telefoniche ricevute quando si era rifugiato in Italia e ha dovuto affrontare una vera battaglia legale per farsi cambiare sui documenti l'indicazione della religione professata. Sara, giovane tunisina, non ha potuto confidare nemmeno alla madre il suo nuovo credo, così come la marocchina Fatima, e Amina - figlia di un egiziano fondamentalista e di un'italiana... C'è chi va a messa solo in chiese lontane dal quartiere in cui è conosciuto, chi si rifiuta di narrare la propria storia ai giornalisti e chi chiede un ferreo anonimato...
Eppure - ecco il paradosso - come documenta in un impeccabile saggio introduttivo il gesuita Samir Khalil Samir (autorità indiscussa in islamologia), né il Corano né gli hadith (i «detti») del Profeta impongono una punizione per l'apostata, tanto meno la pena capitale. La convinzione che quanti «rinnegano la fede» musulmana meritino la morte deriva invece da due tardi hadith spesso sbandierati dai fondamentalisti, ma sulla cui derivazione da Maometto molti teologi islamici nutrono serissimi dubbi. «Né il Corano né la sunna del Profeta - conclude Samir - autorizzano l'interpretazione dei fondamentalisti»; anzi, lo stesso Maometto non solo non ha mai ucciso nessun apostata, ma è intervenuto due volte a salvarne. Del resto, sono ormai numerose nello stesso islam le voci che discutono l'illegittimità del cambiare religione. Ciò non toglie, purtroppo, che nei documenti internazionali gli Stati islamici sottopongano sempre il riconoscimento dei diritti fondamentali alla sharia, cioè alla legge islamica; persino la Dichiarazione universale dei Diritti dell'uomo, ad esempio, nella sua traduzione araba modifica l'articolo 14 (sulla «libertà di cambiare religione») in «diritto di invitare ad entrare nell'islam» e la libertà di «pensare o credere ciò che si vuole» è limitata a «che ciò avvenga entro i limiti stabiliti in proposito dalla Legge islamica»...
Non a caso, dunque, Paolucci ed Eid parlano di «tempi delle catacombe» per i convertiti dall'islam (tra l'altro, il loro libro tenta un primo arduo censimento in proposito e giunge a concludere che «è verosimile che attualmente in Italia vivano alcune centinaia di cristiani provenienti dall'islam e che il fenomeno sia destinato a crescere») e chiedono precisi interventi: alle comunità islamiche in Italia, perché denuncino «alle autorità competenti quanti vogliono ergersi a giustizieri privati in nome dell'islam» e prevengano «la formazione di un clima ostile nei confronti di chi decide di aderire a una diversa esperienza religiosa»; alle forze dell'ordine, «perché venga assicurata la tutela necessaria a quanti, dopo aver compiuto il fatidico passo, si sentono in pericolo»; ai cattolici italiani, perché aiutino i neoconvertiti «a sentirsi parte della comunità cristiana... La solitudine, alla quale in molti casi si accompagnano le accuse, le minacce e talvolta le violenze, è una delle insidie maggiori con la quale deve fare i conti chi si converte». «Noi ci sentiamo abbandonati - denuncia infatti Nora, maghrebina ex islamica -. Dopo la conversione non abbiamo nessuno che ci sostenga. Perché il cristiano che diventa musulmano può manifestare tranquillamente la propria fede, addirittura si fa della pubblicità senza rischiare nulla, mentre il musulmano che diventa cristiano vive nella paura? Chiediamo aiuto alla Chiesa e all'Italia: proteggeteci! Difendeteci!». È un appello che dovrebbe riguardare tutti, cristiani e «laici».
Peccato che monsignor Ruspi non sia d'accordo...