PRIMA PAGINA
faq
Mappa del sito
Temi caldi
Temi caldi
Notizie
Attualitą
Politica
Economia
In Europa
Nel Mondo
Contrappunti
Intorno a noi
Cittą e Quartieri
La Regione
Religione
Notizie e commenti
Cattolici e politica
Documenti ecclesiali
Link utili
Cultura
Libri
Cinema
Musica
Fumetti e Cartoni
Teatro
Arte ed eventi
Storia
Scienze e natura
Rubriche
Focus TV
Sport
Mangiar bene
Salute
Amore e Psiche
Soldi
Diritti
Viaggi e motori
Tecnologia
Buonumore
Login Utente
Username

Password

Ricordami
Dimenticata la password?
Indicizzazione
Convenzioni


Temi caldi - Pace, terrorismo
Combattere il terrore Stampa E-mail
Agire concretamente per evitare che nuovi lutti colpiscano le nostre cittą.
      Scritto da Francesco Cassani
12/07/05
Ultimo Aggiornamento: 20/01/09
Gli attentati a Londra del 7 luglio 2005Nell’articolo La sfida del terrore abbiamo analizzato in dettaglio il fenomeno del terrorismo islamista, cercando di prendere coscienza delle sue vere e preoccupanti dimensioni, sforzandoci di capirne radici e obiettivi.

I punti fermi che abbiamo individuato sono: esiste una guerra che il terrorismo ha dichiarato da anni – molto prima dell’intervento in Iraq – all’Occidente; i metodi terroristi non ammettono giustificazioni; il terrorismo che abbiamo di fronte è un nemico irriducibile, che si ispira all’integralismo islamista e ha come obiettivo quello di piegare l'Occidente e i suoi valori di democrazia e libertà; siamo tutti obiettivi potenziali, e serve un grande sforzo di unità - interna e internazionale - per affrontare il pericolo.

Non è un discorso che va fatto sull'onda dell'emotività. Se riusciamo a ripartire con lucidità dai punti fermi che abbiamo tratteggiato, possiamo cominciare a disegnare la strada – lunga, faticosa – per affrontare il problema. Non è facile. Perché si tratta di ammettere che si è in guerra, sia pure una "guerra" particolare, meno disastrosa - speriamo - di altre guerre del passato e del presente. Si tratta di capire che ci sono sacrifici da affrontare.

"Siamo tutti Americani", fu detto (con sincerità?) dopo l'attentato alle Torri gemelle. "Siamo tutti Londinesi", si è sentito ripetere dopo quello alla metro di Londra. Ma per quanto? Quanti mesi (giorni, ore) sono stati sufficienti perché la maggior parte di noi scivolasse nell'indifferenza?

In questi casi è forte la tentazione di cercare comode scorciatoie o fumose fughe in avanti: per cui bisognerebbe “potenziare l’intelligence”, “cercare il dialogo”, “affrontare le ingiustizie che sono alla base del problema”, “evitare che il terrorismo diventi un pretesto (pretesto?!) per indebolire i diritti civili”. Tutti auspici belli, utili; ma anche astratti, e insufficienti se non accompagnati da misure concrete per combattere la minaccia che ci assedia. A meno che tali auspici non siano – essi sì – pretesti per non affrontare il problema. Magari perché non derivano solo dalla paura, ma anche da una tiepidezza intenzionale nel considerare il fenomeno, dal timore che una ferma presa di posizione contro il terrorismo possa essere usata da avversari politici per sconfessare lo schema - a cui molti sono affezionati - secondo cui l'Occidente cattivo e imperialista sfrutta il resto del mondo. Insomma, c'è il rischio che un miope - e un po' meschino - calcolo di piccola politica domestica, oppure i paraocchi del pacifismo ideologico, ci spingano a sottovalutare il problema.

Alcuni esempi?

La sera dell’attentato a Londra, una giornalista de La 7 incredibilmente commentava: “cresce la paura che questo attentato possa diventare l’occasione per misure più restrittive nei confronti dei sospetti di terrorismo”. Ma cresce in chi? Queste “paure” delle misure restrittive ce l’avrà lei, e i benpensanti come lei abituati a viaggiare in taxi! Noi che usiamo la metropolitana abbiamo piuttosto paura delle bombe…

Abbiamo visto alcuni giudici di Milano scarcerare incredibilmente i reclutatori di kamikaze, trincerandosi dietro la distinzione tra "terroristi" e "resistenti" (distinzione che, oltretutto, è più "politica" che giuridica). Si sono poi aggiunti i mandati di arresto (sempre da Milano…) per gli agenti della Cia che hanno catturato e consegnato alle autorità egiziane un capo terrorista. E, infine, l'arresto di due alti funzionari dei servizi segreti italiani accusati di aver collaborato con la Cia a quella cattura. Senza entrare nel merito giuridico, non è certo una scelta che rafforza le azioni di intelligence...

Amnesty International ha condotto una campagna contro le condizioni dei detenuti di Guantanamo (la prigione dove gli Americani hanno rinchiuso i terroristi catturati), salvo dover chiedere scusa dopo la verifica che gran parte delle accuse erano infondate. La Corte Suprema americana, sia detto per inciso, ha di recente contestato la legittimità delle commissioni militari speciali che dovrebbero giudicare i terroristi: non ha richiesto la chiusura di Guantanamo. (Anche se, aggiungiamo noi, appare necessaria maggiore trasparenza sui criterî di funzionamento dei quel carcere, al fine di evitare che la "ragion di guerra" giustifichi abusi).

Una citazione va concessa pure ai giovani imbecilli che inviarono ad MTV messaggini di compiacimento per la strage di Londra...

Da una sottovalutazione del fenomeno consegue l'incapacità di affrontarlo, la mancanza di unità. Quando bisogna pensare al "che fare?" per combattere il terrorismo, c’è chi crea contrapposizione tra le diverse strategie da scegliere, come se percorrerne una significasse escludere l’altra: o prevenzione o repressione; o dialogo con i moderati o intransigenza con gli estremisti, o azione culturale-politica-economica o azione militare; o ammissione delle colpe o difesa dei diritti dell’Occidente. Ebbene: l’alternativa tra queste strategie è falsa, e ha creato un pericolosissimo immobilismo, soprattutto in Europa: divisa, immobile, velleitaria, priva di una linea comune.

Sono emerse persino scelte un po’ vigliacche, che cercano di blandire i terroristi; come quella della Spagna di Zapatero che ha incredibilmente obbedito agli ordini degli attentatori. Oppure si è voluto cambiare il simbolo della Croce rossa in un... rombo rosso! (Bisogna ridere o piangere? fate un po' voi...) Dimenticando peraltro che i Paesi islamici hanno già la mezzaluna rossa. Gli "zapateristi" non capiscono che il particolare tipo di terrorismo che abbiamo di fronte disprezza la nostra debolezza. Non capiscono che, cedendo, si lancia il messaggio che gli atti di terrorismo sono utili e produttivi, si incoraggiano le cellule criminali ad alzare il tiro, si aumenta il loro prestigio nel mondo arabo, li si rafforza. Si indeboliscono le voci - già flebili e intimidite - di quanti, nel mondo arabo o nelle comunità di immigrati che vivono tra noi, suggeriscono la necessità del dialogo e della collaborazione con l'Occidente. Si ottiene sì il risultato di dirottare provvisoriamente l'azione degli estremisti su altri Paesi occidentali, ma solo per ritardare il momento in cui torneranno a colpire chi cercava di cavarsela a buon mercato. Perché – dobbiamo ripeterlo – il loro non è un obiettivo di difesa, ma di dominio.

Prima di disegnare linee d’azione concrete, dunque, è bene acquisire la lucidità necessaria, aprire gli occhi di fronte alla realtà, capire che abbiamo un nemico, avere il coraggio di guardarlo in faccia.

Se si è in guerra bisogna accettare di utilizzare gli strumenti proprî di una situazione di emergenza. Questo non significa rinuncia alle garanzie democratiche (anche perché la portata del conflitto che viviamo non richiede la proclamazione formale dello "stato di guerra", con le implicazioni costituzionali che ciò comporterebbe). Significa però capire che un conto è combattere il delinquente isolato (ladro, truffatore, stupratore, assassino) con gli strumenti del codice di procedura penale; altro conto è combattere criminali che sono sostenuti, nascosti, protetti da una rete criminale vasta. Un nemico collettivo richiede strumenti giuridici e di sicurezza appropriati. E’ quello che succede con la mafia, o è successo in passato col terrorismo politico interno: fenomeni rispetto ai quali la nostra coscienza democratica ha acquisito la necessità di ricorrere a misure straordinarie (maxi-processi, utilizzo dei pentiti, blocco e confisca di beni, art. 41 bis sulla carcerazione dura, strutture centralizzate per il coordinamento delle indagini, ecc.).

Oltre ad attingere a questi strumenti, potrebbe essere necessario utilizzarne di ulteriori. Non dimentichiamo che il terrorismo nuoce alle nostre libertà molto di più delle misure repressive! Bisogna tener presente che è possibile cambiare alcune modalità di esercizio delle libertà, senza che ciò significhi sacrificarle. Solo a titolo di esempio: maggiori perquisizioni e controlli rallentano la nostra libertà di movimento, ma non la pregiudicano. Ancora: gli inglesi forse dovrebbero farsi una ragione della necessità di introdurre anche da loro la carta d’identità, che non è un attentato alla privacy! Bisognerà arrivare alle carte d’identità biometriche, contro il rischio di falsificazioni. Le espulsioni dei sospetti che non sono cittadini (soprattutto se clandestini) debbono essere celeri e sicure.

C'è il rischio di creare discriminazioni verso le comunità di immigrati, di far credere che siano tutti delinquenti? E' un rischio che nasce proprio se non si isolano gli elementi pericolosi. Sono gli stessi musulmani moderati - o almeno quelli che hanno il coraggio di pronunciarsi - a chiedere azioni forti contro gli estremisti.

Persino Bertinotti ha dichiarato (intervista al Corriere della Sera del 12-7-2005): "si possono usare anche politiche repressive, anche un po’ di legislazione di emergenza: purché ciò avvenga sostanzialmente nello stato di diritto" (!). Insomma, ci può essere un dibattito su quali provvedimenti adottare, ma certo parlare di misure emergenziali non è un tabù.

Altre strategie, in chiave soprattutto di prevenzione, dovranno essere elaborate in funzione della particolare natura del nemico che abbiamo di fronte.

Innanzitutto, serve una forte azione culturale. Il nuovo terrorismo ha una dimensione ideologico-religiosa molto forte: nei suoi protagonisti, nei fiancheggiatori, nei simpatizzanti che costituiscono la base di reclutamento. Ma alcuni di quegli elementi ideologici li ritroviamo nel vasto mondo che viene definito dell’Islam "moderato", e che però non ha il coraggio di prendere apertamente le distanze da queste violenze, venendo a costituire di fatto una fitta rete di omertà. In Gran Bretagna George Galloway, parlamentare laburista espulso dal partito per le sue posizioni filo-Saddam, è stato rieletto come indipendente in un collegio a forte densità islamica. Alle azioni terroristiche seguono sempre scene di giubilo di massa in tutti i Paesi arabi. Nelle comunità islamiche europee c’è reticenza ad affrontare l’argomento, si dice in sostanza: “sono atti sbagliati, però l’Occidente se li è cercati”. Oppure c’è paura di fronte alle intimidazioni degli estremisti. La svolta arriverà quando un ampio fronte di islamici 'moderati' - e non pochi, isolati - avranno la consapevolezza che spetta proprio a loro combattere in prima fila contro chi getta discredito sulla loro cultura.

Dobbiamo fare attenzione a non cadere nella spirale di una guerra di religione contro l’Islam in quanto tale. Ma non dobbiamo nasconderci che l’attuale espressione culturale e sociale di quella religione offre terreno fertile all'ideologia integralista (vedi l'articolo sulla questione islamica); e che una guerra di religione, in parte, ci è stata già dichiarata.

Bisogna, allora, al di là dell'emergenza terrorismo, affrontare i nodi di un confronto tra culture vero, non ipocrita, che cerchi punti d'incontro tra le comunità che si trovano a convivere nei diversi paesi. Un dialogo che cerchi valori comuni, senza cullarsi nell'illusione che il reciproco ignorarsi eviti i conflitti.

Sia detto per inciso: l'integrazione delle comunità di immigrati è un obiettivo importante non solo in chiave di prevenzione del terrorismo - per non offrire ad esso la copertura di comunità ostili - ma anche in chiave di una più serena convivenza ordinaria.

Non basta. Il nemico terrorista che abbiamo di fronte ha la peculiarità di avere una dimensione internazionale, per cui s'impone una strategia internazionale.

Anch'essa diplomatica e culturale, certamente, come evidenziamo sempre nell'articolo sul Confronto fra cultureL'azione politico-diplomatica dovrà poi concentrarsi, una buona volta, sul problema israelo-palestinese, pietra d'inciampo nel Medio Oriente, per spronare le parti - con grande energia - a trovare una soluzione.

Le politiche di sicurezza militare internazionale sono in ogni caso - quando ricorrano le condizioni di legittimità e necessità - una via da tenere sempre aperta. Il luogo dello scontro non può essere quello delle nostre metropolitane. La “prevenzione” non si effettua piantonando migliaia di obiettivi sensibili nei nostri Paesi – impresa insostenibile -, ma andando a colpire i criminali dove vengono individuati: il campo di battaglia dev'essere Zama... Ricordiamo che per i terroristi allontanarci dai teatri di intervento nel Medio Oriente è un obiettivo intermedio: serve ad isolare e indebolire gli attuali governi locali - considerati pavidi e compromessi con l'Occidente - per rovesciarli e creare le basi per una nuova e più aggressiva azione contro Israele (di cui si vuole semplicemente la cancellazione) e di nuovo contro di noi. Per le politiche di sicurezza servono unità e generosità soprattutto da parte dei Paesi europei, perché sappiano uscire dall’orticello della paura e degli interessi di parte, dagli ottusi atteggiamenti tipo “incrociamo le dita, facciamoci i fatti nostri, speriamo che tocchi a qualcun altro”.


Qual è stata la strategia degli Stati Uniti contro il terrorismo?

Chi pensa che il programma dell'amministrazione Bush sia sempre stato quello di espandere con le armi la propria sfera d'influenza ha cattiva memoria. I repubblicani avevano criticato l'interventismo estero dell'amministrazione Clinton, e Bush fu eletto con un programma più 'moderato' di quello di Gore. L'11 settembre ha cambiato tutto, inevitabilmente. L'America, come dopo Pearl Harbour, si è sentita trascinata in guerra, anche se da un nemico più insidioso è sfuggente. La ritorsione contro il regime dei Talebani in Afghanistan, che dava ospitalità alle basi di Al Qaeda, fu ovvia e sostenuta dall'intera comunità internazionale (a parte i soliti antiamerikani di complemento).

Ma poi? Come combattere efficacemente le cellule terroriste attive in tutto il mondo, anche nei Paesi occidentali, sostenute dai finanziamenti occulti di governi e finanzieri arabi? Si è imposta la linea dei cosiddetti "neocon" (neoconservatori), un gruppo di intellettuali provenienti dalle file della sinistra ed ora vicini all'amministrazione Bush: esportare la democrazia per responsabilizzare i popoli arabi, contando sul fatto che i popoli liberi tendono a rifiutare la guerra.

Da qui la decisione della guerra in Iraq: va detto che il motivo ufficiale, le armi di distruzione di massa, era più che altro un pretesto. E nemmeno c'entrava il presunto motivo occulto (e un po' semplicistico) del controllo dei pozzi petroliferi: il prezzo del petrolio è schizzato in alto arricchendo anzitutto i Paesi arabi e accrescendo l'inflazione in Occidente. Le società occidentali avrebbero guadagnato molto di più eliminando le sanzioni all'Iraq (diciamo piuttosto che i contratti già stipulati con Saddam contribuiscono a spiegare le opposizioni di Francia e Germania...). Il vero disegno degli Stati Uniti era quello di eliminare un dittatore feroce e destabilizzante per l'area, e costruire una democrazia che fosse di esempio per i popoli vicini.
elezioniiraq_filadonne.jpg
donne irachene in fila per votare

Il successo al di sopra di ogni aspettativa delle elezioni irachene ha testimoniato il desiderio di libertà di quel popolo, e ha dimostrato quanto fossero ipocrite e anche un po' razziste le osservazioni di chi sosteneva che gli iracheni erano con Saddam, che essi non accettavano democrazie "imposte", che la democrazia "non si può esportare", ecc. 
Ha votato oltre il 60% dei cittadini (una media superiore a quella di molti Paesi di tradizione democratica), nonostante la minaccia dei terroristi di uccidere chi si fosse recato alle urne. Un uomo con una gamba amputata da un attentato, a chi gli chiedeva come ha vinto la paura, ha dichiarato: "sarei stato disposto a strisciare fino al seggio, pur di votare!" Le elezioni hanno ribadito chi sono i cosiddetti "resistenti" (così li chiama Lilli Gruber): terroristi che sterminano bambini, che "resistono" ad un governo che - anche prima delle elezioni - aveva avuto l'investitura dell'ONU, che non vogliono costruire la libertà (come i veri patrioti) ma ripristinare il terrore, che rappresentano solo se stessi. Definirli "resistenti" significa solo essere accecati dall'odio antiamericano (rimarchiamo l'onestà intellettuale dell'ex direttore de Il Manifesto, Barenghi, che ha detto di preferire pur sempre il governo degli americani a quello di quei "resistenti").
E' ancora da verificare quali ricadute positive ci saranno sugli altri Paesi arabi: alcuni fermenti democratici si sono avuti in Libano, in Palestina, in Qatar.

Resta il fatto che il prezzo di questo importante risultato politico è stato una guerra, con il suo carico di lutti e sofferenze. Era l'unica via percorribile? Il legame con l'aggressione subita l'11 settembre giustificava l'invocazione della legittima difesa, o è una forzatura?

Probabilmente si è trattato di una forzatura. Per cui, pur non volendo cadere in un pacifismo banale, pur analizzando senza pregiudizi i risultati positivi che si sono raggiunti e che si stanno perseguendo, ci ostiniamo a pensare che bisogna sempre cercare con ogni energia altre strade. Un forte dubbio sulla via intrapresa dall'amministrazione Bush lo suscitano le memorie dell'ex primo ministro spagnolo Aznar, il quale rivela che sembrava raggiunto l'accordo con Saddam perché accettasse l'esilio (seppur 'dorato').
Non ce la sentiamo in ogni caso di dare un giudizio netto: dovremmo prima immaginare come avremmo reagito se i nostri cari, i nostri amici, fossero restati uccisi in un attentato nel centro di Roma o di Milano. E dovremmo riuscire a individuare una strada alternativa all'altezza della gravità della situazione; una strada che non significhi arrendevolezza o cedevolezza, ma abbia il coraggio di snidare e sconfiggere i criminali folli.

Due precisazioni. La prima rivolta a chi contesta all'amministrazione americana di essersi mossa senza mandato ONU, forzando il diritto internazionale. Il rilievo è giusto, anche se apre la questione di come rendere credibile ed efficace un'istituzione - le Nazioni Unite - sommersa dagli scandali. Però questo stesso rilievo sarebbe ipocrita se venisse da chi ha appoggiato - come la sinistra italiana sotto il governo D'Alema - i bombardamenti sulla Serbia di Milosevic: anche quelli avvennero senza mandato ONU!
La seconda precisazione riguarda l'intervento militare italiano in Iraq. Le nostre truppe non hanno attaccato l'Iraq. Sono intervenute a cose fatte, in missione di pace, per garantire in sicurezza il passaggio di poteri ad un governo democratico iracheno, nel rispetto di un nuovo mandato dell'ONU (risoluzione n.1511 del 16-10-2003).


Concludendo: serve ripetere che le nostre armi sono di tipo diverso da quelle di un nemico senza scrupoli? Che si possono applicare misure restrittive senza sacrificare le nostre libertà? Che dobbiamo sempre rimetterci in discussione, riflettere sui nostri errori? Se necessario, lo ripetiamo. Ma ribadendo altresì che il doveroso rispetto delle regole di una società aperta non contrasta il diritto di questa società a difendersi. Le pulsioni suicide non ci appartengono.

E ribadiamo anche che ci pare inaccettabile lo sforzo di garantire e giustificare gli integralisti, accompagnato dall'indifferenza verso i soggetti deboli (esponenti moderati, donne, minoranze religiose) che dai quegli integralisti sono oppressi! In Italia si deve senz'altro elogiare, almeno finora, l'efficacia dell'azione preventiva del nostro Governo. Ma serve il contributo e la vigilanza di tutti. Ci vuole unità, la stessa trovata alla fine degli anni Settanta contro il terrorismo politico; possibilmente un'unità preventiva, non suscitata da nuovi lutti.

Il nostro invito ad una presa di coscienza non è retorico, ma concreto. Le elezioni vinte da Zapatero sull'onda emozionale degli attentati di Madrid ci ricordano che tutti abbiamo una grande responsabilità: da spendere, se possibile, in maniera più avveduta e coraggiosa.



Giudizio Utente: / 4

ScarsoOttimo 




Ricerca Avanzata
Aggiungi questo sito ai tuoi preferitiPreferiti
Imposta questa pagina come la tua home pageHomepage
Agorą
Lettere e Forum
Segnalazioni
Associazionismo
Comunicati
Formazione
Dagli Atenei
Orientamento
Lavoro
Concorsi
Orientamento
Impresa oggi
Link utili
Informazione
Associazionismo
Tempo libero
Utilitą varie
Link consigliati
Zenit.org
La nuova Bussola
   Quotidiana
Storia libera
Scienza e fede
Il Timone
Google
Bing
YouTube
meteo
mappe e itinerari
Google Maps e
  Street View
TuttoCittà Street
  View



Questo sito utilizza Mambo, un software libero rilasciato su licenza Gnu/Gpl.
© Miro International Pty Ltd 2000 - 2005