Si può costruire una convivenza pacifica e collaborativa all'interno degli Stati in cui le migrazioni hanno messo in contatto culture diverse?
Similmente: si può costruire una tale convivenza tra popoli confinanti, che sempre più si avvicinano a causa della globalizzazione economica e dei flussi migratorî?
Sono domande alle quali a volte vorremmo dare risposta con poche parole magiche: dialogo, tolleranza. È davvero così facile?
“Dialogo” vuol dire (ce lo ricorda l’etimologia greca) “scambio di ragioni profondo”, interazione reale e reciproca. Il dialogo richiede il parlare con franchezza, sapendo di aver di fronte una controparte disposta ad ascoltare anche eventuali critiche; ed essendo disposti, a propria volta, ad un simile ascolto. Un “dialogo” ridotto a scambio di convenevoli è solo una finzione, una recita.
“Rispetto” e “tolleranza” non richiedono ipocrisia e astensione da ogni giudizio (come vorrebbe il relativismo); altrimenti coincidono con l'indifferenza. Richiedono piuttosto giudizi equilibrati, meditati, uniti all’umiltà di ascoltare ed accogliere i giudizi altrui. Nella convinzione che la comune ragione, i comuni valori naturali, possano portare a punti d’incontro.
È quello che ha cercato di fare papa Benedetto XVI nel famoso discorso di Ratisbona; dileggiato da chi del dialogo ha paura.
Occidente a confronto con le altre culture: islam e non solo
Parlando dell'esigenza di un dialogo tra culture viene subito alla mente il problema emergente del confronto tra la cultura occidentale e l'islam.
Questo problema - posto non solo dallle relazioni internazionali, ma anche dalla convivenza con le sempre più numerose comunità di immigrati - non può essere confuso con (o ridotto a) quello del terrorismo (in altra parte del sito ci siamo interrogati sulle cause, su come affrontarlo). Per certi versi, perché il terrorismo è espressione di una minoranza islamista che non può essere confusa con la generalità del mondo islamico. Per altri versi, però, il terrorismo è la punta di un’iceberg: attecchisce nella chiusura di una parte del mondo islamico alla modernità, nella percezione che questo mondo ha dell’Occidente e del cristianesimo come nemici con i quali non sono possibili incontri e compromessi. Nell’articolo sulla questione islamica sono approfonditi questi aspetti.
I problemi che ci pone il dialogo con l’Islam emergono, in diversa misura, anche nel confronto con altre culture con le quali veniamo in contatto: o sul piano internazionale, o perché sono le culture portate dai nuovi immigrati.
Confrontarsi con altre culture significa interpellarle, stimolarle alla maturazione e all'elaborazione di valori condivisi. Ciò significa offenderle?
Ricordiamo che in Occidente si è svolta negli ultimi due secoli una critica serrata, da parte del fronte laico-illuminista, nei confronti del cristianesimo (una critica che purtroppo, in molti casi, è divenuta vera e propria guerra), il quale ha fondato le radici della cultura occidentale. Nonostante tutto, la fede cristiana sembra esserne uscita rafforzata, capace di parlare all’uomo moderno con la lingua della ragionevolezza. Non auspichiamo certo simili persecuzioni per i musulmani, o gli orientali, o chiunque altro; ma è possibile che sia considerato irrispettoso rivolgere ad altri una qualunque critica, sia pure pacata e costruttiva? Questo non sarebbe anche un modo per "liberare" l'Islam, ad esempio, dall'interpretazione strumentale, asfitticamente politica, che ne danno gli integralisti?
Serve un dibattito culturale che dimostri come molti vittimismi sono infondati. Serve un dibattito che faccia sorgere il concetto di laicità nelle altre culture, e in particolare in quella islamica, dove è attualmente assente (anche se la 'laicità' di cui parliamo non può essere il laicismo francese, una religione di Stato che vuole espropriare totalmente gli immigrati della loro fede e cultura, creando il rigetto, e che gli stessi francesi stanno rimettendo in discussione).
Dialogo, valori, identità
Più in generale, al di là del confronto con l'Islam, serve un dibattito in cui lo stesso Occidente ridefinisca la propria identità.
Le identità cambiano, si evolvono, anche per l'incontro con nuove culture? Verissimo. Dobbiamo però individuare con chiarezza i diritti umani – personali e politici - che consideriamo irrinunciabili, perché su di essi si fonda la convivenza; diritti ancorati a valori e principi che consideriamo universali, perché fondati sulla comune ragione e sul diritto naturale, e quindi capaci di emergere in diverse culture e religioni.
Molti pensano che l'affermazione dell'identità sia necessariamente causa di intolleranza e di scontro: come abbiamo illustrato nell'articolo su pluralismo sociale e valori comuni, si tratta di una fesseria enorme, del pregiudizio di chi non si è mai interrogato seriamente sui contenuti che deve avere un dialogo serio e costruttivo, che non sia comunicazione tra muti e sordi.
Il lavoro culturale, dunque, dobbiamo farlo innanzitutto su noi stessi, perché se ci facciamo risucchiare dal gorgo del relativismo non avremo più nessun valore che sia la base del dialogo e della convivenza civile. Possiamo difendere la nostra cultura - che contiene valori irrinunciabili per tutti, anche per Pannella o per Bertinotti - solo se la amiamo, se non ci rifugiamo in una cultura della morte (che non è solo quella del martirio omicida). Ci vuole coraggio persino per difendere il nostro scetticismo e la nostra tolleranza.
La convivenza tra culture all'interno degli Stati: l'equivoco del "multiculturalismo"
Il relativismo - culturale e filosofico - di tipo radicale sostiene che non esistono valori.
Esiste però anche un relativismo più subdolo e pragmatico, che, al momento in cui si pone il problema del confronto (e soprattutto della convivenza) tra culture diverse, si appella al pluralismo, usando toni meno perentorî: viene riconosciuta sì l’esistenza di valori, ma ne viene negato il carattere di verità universale. Si ritiene che siano valori validi per le singole comunità, assolutamente equivalenti tra loro (indifferentismo), senza porsi il problema di cosa accade quando valori e comunità radicalmente diversi vengono in contatto.
Questo succede perché il relativismo confonde il pluralismo includente (l' "interculturalità", in cui diverse culture convivono, si confrontano, contribuendo a individuare valori comuni, e continuando a svilupparli anche in direzioni nuove) col separatismo escludente, definito eufemisticamente "multiculturalismo": si lascia che si creino mondi e comunità limitrofe e non comunicanti, in una sorta di apartheid di fatto.
Questo tipo di "rispetto" per la mancata accettazione dei diritti umani fondamentali in alcune comunità, peraltro, può celare un sottinteso razzismo: "non sono all'altezza di vivere quei valori universali". (Ne fa un esempio Luca Sofri a proposito del caso delle vignette sull'islam).
Giovanni Sartori, in Pluralismo, multiculturalismo e estranei: saggio sulla società multietnica (Rizzoli, 2000, II ed. ampliata 2002), si è soffermato a lungo sulle confusioni create in materia dal "politicamente corretto", spiegando che "il multiculturalismo non è una estensione e prosecuzione del pluralismo, ma invece la sua negazione. Perché il multiculturalismo non persegue una integrazione differenziata, ma una disintegrazione multietnica". Su questa premessa il libro si chiede "fino a che può la società pluralista può accogliere senza dissolversi "nemici culturali" che la rifiutano. Perché gli immigranti non sono tutti eguali. E l'immigrante di cultura teocratica pone problemi ben diversi dall'immigrante che accetta la separazione tra politica e religione".
Quando mondi non comunicanti vengono a contatto, ciò avviene inevitabilmente in maniera traumatica, perché la "tolleranza" non è di alcun aiuto: si può tollerare la violazione di diritti fondamentali? L'infibulazione delle bambine? La segregazione negli scantinati di bambini che vengono fatti lavorare sedici ore al giorno (come accade in alcune comunità orientali)?
Sono 'tollerabili', nell'ottica di altre culture, la nostra libertà di espressione e di critica?
Nascondendo la testa sotto la sabbia, si lascia che nello stesso Stato di diritto (?) sopravvivano situazioni di pesante discriminazione verso soggetti deboli, giustificate come "patrimonio culturale".
Non si può parlare con leggerezza di “società multietnica, multirazziale, multiculturale”, se non si ha l’avvertenza di precisare che, perché in questa società sia possibile la convivenza, l' “interculturalità” non può tradursi in "multiculturalismo", cioè - come abbiamo visto - in un'ideologia che ritiene possibile un'assoluta separazione culturale, che giustifica abusi e sopraffazioni considerati "tradizioni culturali".
Non ha funzionato in Inghilterra, dove si parla di "Londonistan" per indicare la sfera di completa autonomia conquistata dalla grande comunità islamica della cosmopolita Londra: un'autonomia che non ha significato, purtroppo, capacità di emarginare gli estremisti.
Non ha funzionato in Olanda, patria della "tolleranza" trasformatasi in indifferenza, dove si è consentito che in molte grandi città (come Rotterdam) le comunità di immigrati islamici creassero quartieri in cui non vengono rispettati i più elementari diritti umani.
Non ha funzionato in molte metropoli americane (la società più multietnica e più "integrata" che esista), dove si è creato un apartheid di fatto tra quartieri bianchi, quelli neri, quelli ispanici, le diverse Chinatown. Il separatismo non può funzionare neanche per le comunità islamiche italiane, né - sia ben chiaro - per quelle di Albanesi, di Cinesi, o anche di... Italiani (in alcune zone del Sud ostaggio della malavita).
Si parte dall'indifferenza - già di per sé inammissibile - verso il mancato rispetto dei diritti umani nelle nostre città, e si prosegue rifugiandosi nella paura e nella menzogna, rinunciando persino ad offrire ai giovani una cultura completa e rispettosa della verità.
Nel 2007 il Teaching Emotive and Controversial History, uno studio commissionato dal Ministero dell'Istruzione inglese sull'applicazione dei programi di storia per il Gcse (il nostro esame di maturità), ha evidenziato che "in certi contesti particolari gli insegnanti di storia sono contrari a sfidare le interpretazioni storiche altamente controverse che vengono predicate ai ragazzi all'interno delle loro famiglie, nelle loro comunitá o nei luoghi di culto". In particolare, il timore delle reazioni di allievi musulmani porta a bandire lo studio delle Crociate e dell'Olocausto!
Il multiculturalismo come irreggimentazione sociale
Allorquando la semplice indifferenza verso le violazioni dei diritti non è sufficente ad evitare le esplosive tensioni sociali, il multiculturalismo si fa ideologia che pretende di disciplinare in maniera soffocante la convivenza tra le diverse "comunità".
La libertà e i diritti dell'individuo vengono subordinati a quelli del gruppo.
Tra i gruppi sociali vengono aprioristicamente individuate le "minoranze oppresse", meritevoli di particolari tutele. Queste "minoranze", in realtà, non sono le categorie più deboli (bambini, disabili, anziani, malati…), ma lobbies compatte e capaci di grande mobilitazione che hanno iniziato ad organizzarsi da qualche decennio soprattutto nei campus universitarî degli Stati Uniti, e si autoproclamano rappresentanti degli interessi di alcune categorie: gruppi etnici, sette religiose, femministe, gay (la cui lobby non va confusa con tutti gli omosessuali).
L'unica "maggioranza oppressiva", ovviamente, resta quella dei maschi, bianchi, cattolici...
Queste organizzazioni partono da una cultura del piagnisteo (come recita il titolo di un libro di Robert Hughes), che attribuisce ogni frustrazione delle persone a presunti traumi inflitti dalla società; una cultura che collega ogni insuccesso del singolo alle discriminazioni subite in quanto membro di una “minoranza”.
Ogni “minoranza”, quindi, ha preteso e pretende rendite di posizione e privilegi che colmino gli insuccessi dei propri membri. Sono quelle che negli USA chiamano "affermative actions", azioni "positive".
Un esempio esilarante è quello descritto da Evan Coyne Maloney nel documentario Indoctrinate U: in un campus USA il prezzo di vendita dei pasticcini era determinato in base al grado di discriminazione subita nei secoli da un gruppo: un nero li pagava $0.70, un ispanico $0.80, un bianco $0.90 e un asiatico $1.10.
Ma molto più invasiva - e aberrante - è la politica delle “quote”.
Ciò significa che nei concorsi, nelle assunzioni, nelle ammissioni alle Università, non debbono essere fatte selezioni in base al merito della persona, ma si deve rispettare una proporzione tra etnie, gruppi sociali, categorie presenti in quella regione (o nazione), sovrarappresentando a volte le categorie meno numerose.
Negli Stati Uniti, per dire: 4 bianchi, 2 afroamericani, 2 ispanici, 1 asiatico, mezzo “nativo-americano” e… ? Nei Paesi scandinavi: 50% uomini, 50% donne.
Questa politica si basa sulla pretesa che l’impreparazione degli appartenenti ad alcune categorie deriverebbe da condizioni di svantaggio della categoria stessa.
“Aiutiamo la categoria a superare queste condizioni di svantaggio, offriamo più servizi, formazione, borse di studio”, proporrebbe ingenuamente qualche persona di buon senso.
E invece no. Il rispetto delle “quote” richiede che siano ammesse agli studi a numero chiuso – o assunte in lavori qualificati - anche persone che non possiedono i requisiti, mentre restano fuori persone meritevoli. Il che non solo comporta una discriminazione reale verso queste ultime (mentre è solo presunta quella verso gli altri gruppi sociali); ma comporta anche un indebolimento della qualità dei laureati, dei lavoratori, della società tutta.
Il paradosso, poi, è che le discriminazioni non vengono subìte dai “maschi bianchi benestanti”. Nei test d’ammissione delle università americane dove sono state applicate le quote, il gruppo etnico più penalizzato è stato quello degli asiatici: giovani normalmente provenienti da famiglie che li hanno educati ad applicarsi e a sgobbare.
Anche in Italia abbiamo una politica delle quote, a favore di una minoranza linguistica. Una politica applicata però solo in una zona, l’Alto Adige, dove la minoranza è maggioranza; e non per colmare presunti svantaggi, ma per compensare con una serie di benefici economici il deficit di sentimento nazionale di quei cittadini. Pertanto: 73% cittadini di lingua tedesca, 22,5% di lingua italiana, 4,5% Ladini, Sloveni, ecc.; con la conseguenza che se ci sono un posto di lavoro o una casa liberi in quota tedesca, e nessun italo-tedesco li vuole occupare… i posti restano liberi, e i cittadini di lingua italiana o ladina disoccupati o senza casa si arrangiano!
L’ultima frontiera delle quote è quella relativa all’accesso in politica, di cui si parla anche in Italia, per proporre percentuali minime di donne elette (solo di donne?). Certo, un maggior numero di donne sarebbe probabilmente utile al Parlamento e ad altri organi istituzionali. Ma metterci chiunque, purché donna, rappresenta davvero la soluzione? La qualità dell’organo migliorerebbe o peggiorerebbe? I diritti democratici e politici dei cittadini a scegliere liberamente i loro rappresentanti, che fine farebbero? E’ possibile che non si ragioni sul fatto che la bassa percentuale di parlamentari elette corrisponde (anzi, è addirittura superiore) alla bassissima percentuale di donne che sono attivamente impegnate in politica?
L'irregimentazioni sociale produce anche, ovviamente, censura e bigottismo: con la "correttezza politica" diviene consentito un solo modo di parlare, vestirsi, guardare alla cultura e alla storia, comportarsi.
In questi casi, in cui diventa necessario abdicare ad ogni parvenza di rispetto per gli uomini e per la verità, la carica aggressiva del relativismo e del multiculturalismo si potenzia.
Chi prima veniva definito semplicemente “intollerante” (se suggeriva, all’interno di un contesto sociale, una verità), ora diviene “razzista” (se afferma che un valore sostenuto in una cultura è migliore di quello sostenuto in un’altra); quando il vero razzista, lo abbiamo appena visto, può essere proprio chi non ritiene alcune culture in grado di aprirsi.
In ambienti come le università USA, testimonia il citato documentario Indoctrinate U, si instaura un sistema repressivo delle opinioni "non corrette".
L'ideologia multiculturalista ripudia la qualità, il merito, l’impegno, la responsabilità, i diritti della persona, la metafisica e la logica, l’arte e la cultura tradizionali… ripudia, insomma, la società occidentale, ed esalta acriticamente tutto ciò che le si contrappone.
Cosicché si comprende ancor meglio l'importanza, enunciata inizialmente, che l'Occidente riscopra la sua identità.
Porre il problema della convivenza tra culture, però, non significa voler proporre graduatorie di civiltà, magari per affermare una presunta superiorità di quella occidentale.
Benché sia indubbio che i valori comuni su cui stiamo ragionando sono stati elaborati in larga parte dal pensiero occidentale, sarebbe sterile (almeno dal punto di vista politico e sociale) effettuare astratte contabilità tra pregi e difetti che indubbiamente esistono in tutte le diverse culture; o indugiare su meriti e crimini storici che possono essere dappertutto individuati.
Piuttosto, il nostro scopo è quello - concreto e attuale - di individuare gli spazi di incontro e di convivenza; spazi in cui - mediante un "dialogo" vero, franco, che non resti fine a se stesso - alcuni possono magari portare maggiori argomenti persuasivi, valori più idonei a garantire la convivenza e l'integrazione.
Le vie dell'integrazione
Quando comunità diverse convivono nello stesso territorio, la necessità di un serio dialogo interculturale, capace di individuare diritti e valori fondamentali, diventa pressante. Questi diritti e valori devono essere il presupposto di una reale integrazione delle comunità di immigrati, rifiutando l’idea che nelle nostre città possano esistere “zone franche”.
In concreto: bisogna far capire che in Italia non sono ammesse pratiche inumane come la mutilazione dei genitali femminili; che le donne hanno diritti socialmente tutelabili; che l’istruzione obbligatoria per tutti i giovani non ammette deroghe (non possono essere reclusi in casa per paura che siano 'contaminati' dalla scuola italiana); che le espressioni culturali e artistiche possono essere contestate, ma non – salvi casi limite – impedite; che è compito di tutti l'isolamento degli integralisti (non possono esservi simpatie e coperture di nessun tipo). Ciò consentirebbe di supportare concretamente anche quelle minoranze che, all’interno delle comunità di immigrati, sono più aperte al dialogo. Non si risolvono i problemi di incomunicabilità con gli inviti alla "tolleranza" (che lasciano ognuno nel proprio recinto), né con i concerti di musica etnica.
L’integrazione è possibile non solo se passa per il rispetto dei diritti fondamentali, ma anche se trova un minimo denominatore culturale: bisogna che gli immigrati stabili conoscano la nostra lingua, le nostre leggi (in particolare la Costituzione, “carta dei valori”), i doveri sociali; che inizino ad avvicinarsi alla nostra storia e alla nostra cultura. Sapendo che accettare questo denominatore culturale, sentirsi "integrati", non significa rinunciare alla propria religione o rigettare le proprie tradizioni, come dimostra la sensibilità di un musulmano 'illuminato' come Khaled Fouad Allam.
Anche a noi, naturalmente, spetterebbe ascoltare con attenzione ciò che le diverse culture hanno da offrire. A noi spetterebbe distinguere ciò che è realmente intollerabile (come i fenomeni appena descritti) da ciò che invece è socialmente compatibile. Il velo femminile, per esempio, o la barba lunga, o il turbante dei Sikh, se sono libere scelte, non devono necessariamente essere visti come “attentati alla laicità” (una delle fesserie dell’intollerante laicismo alla francese).
Accanto al dialogo costruttivo, va detto, deve esserci un chiaro rifiuto dell’incentivazione all’odio e alla violenza. Esistono componenti integraliste, fanatiche e irriducibili a ogni compromesso, che possono essere solo isolate e combattute. In un Paese democratico la libertà di parola è sempre il bene più prezioso, anche quando si esprime in proclami folli e intolleranti; conculcarla è sempre un’extrema ratio, cui ricorrere solo in casi di propaganda apertamente criminale e terrorista. Le nostre leggi già autorizzano a farlo, purché si abbia il coraggio di applicarle sempre... Bisogna però affrontare – ad esempio - anche il fenomeno dei “centri di cultura islamica” che sono indirettamente fiancheggiatori del terrorismo, alimentando vittimismo, creando odio sociale e religioso, giustificando la violenza pur senza organizzarla direttamente. Non si può mettere il bavaglio alle idee che non condividiamo, ma se ci accorgiamo che tali centri sono parte di una strategia eversiva è possibile – ad esempio – bloccare gli ingenti finanziamenti che ricevono dall’estero.
I moderati che esistono nelle diverse comunità devono essere supportati con l’azione culturale, ma anche con l’ azione di pubblica sicurezza. Questa deve essere utilizzata non solo, in situazioni di emergenza, per reprimere i reati di terrorismo; ma anche, in chiave preventiva, per esigere il rispetto dei diritti fondamentali di cui parlavamo in precedenza, senza limitarsi a sensibilizzare su di essi con l’azione culturale. Bisogna evitare, lo ripetiamo, le “zone franche”; nelle comunità etniche così come nelle curve degli stadi. Non è un’ingerenza, ma la semplice difesa della sovranità del nostro Stato di diritto in tutto il territorio, l’irrinunciabile protezione dei singoli (uomini, donne, bambini) che vogliono levare una voce diversa da quella dell’estremismo.
L'integrazione delle comunità di immigrati, infine, passa anche per una più attenta gestione delle politiche migratorie. Il rifiuto ideologico di affrontare il problema, l'idea di affidarsi al caso, servono solo a creare sacche di disperazione che alimentano la criminalità comune e organizzata. Non bisogna aspettare che, per carenza dell'azione di pubblica sicurezza e delle politche immigratorie, si rendano necessarie soluzioni estreme - cui è ricorsa anche la sinistra - come il "muro di Padova".
Il dialogo e la convivenza tra i popoli
I diritti e valori che riteniamo universali devono essere il presupposto del dialogo anche con i governi e con i popoli. Con i governi stranieri va innanzitutto preteso il rispetto del principio di reciprocità, che è un principio cardine del diritto internazionale. Ricordiamo un passaggio del discorso tenuto da Giovanni Paolo II il 19 agosto 1985 ai giovani di Casablanca, in Marocco: "il rispetto e il dialogo richiedono la reciprocità in tutti i campi, soprattutto per quanto concerne le libertà fondamentali e più particolarmente la libertà religiosa. Essi favoriscono la pace e l'intesa tra i popoli".
Quindi: non potremmo certo negare agli immigrati i diritti umani fondamentali; ma i diritti di cittadinanza possono essere graduati sul riconoscimento che i nostri connazionali ricevono nei Paesi di provenienza dell'immigrazione.
Un altro esempio: gli immigrati hanno senz'altro il diritto alla libertà religiosa e a costruire luoghi di culto. Ma si può accettare che, per questi, ricevano finanziamenti ingenti da Paesi - come l'Arabia Saudita - dove è vietato costruire chiese, non è consentito celebrare messe neanche in luoghi privati, non si possono portare croci al collo, non possono entrare sacerdoti o suore, esiste la pena di morte per chi abbandona la fede musulmana?
E proprio la reciprocità del diritto alla libertà religiosa è stata posta all'Arabia Saudita, dal Governo norvegese, come condizione per accettare finanziamenti esteri a nuove moschee.
La libertà religiosa conosce forti limitazioni persino in Paesi islamici più 'avanzati' come la Turchia. Eppure il Parlamento europeo, quando il 15 dicembre 2004 ha approvato l'avvio delle trattative per l'ingresso della Turchia nell'Unione, ha bocciato un emendamento che chiedeva ai Turchi il rispetto delle minoranze religiose (sollecitando Ankara a conferire al più presto personalità giuridica alle Chiese cristiane e a sopprimere la Direzione degli affari religiosi, l’organo di Stato che controlla il culto e impedisce la costruzione di nuove chiese). Se non siamo capaci di chiedere rispetto, questo non verrà dato a noi né alle minoranze oppresse di quei Paesi.
Serve anche un’azione politico-culturale che promuova i diritti umani e la democrazia, nei Paesi dove queste conquiste rischiano di essere soffocate da regimi che non concedono libertà di espressione né di educazione. Con radio, televisioni satellitari, sostegno a movimenti politici democratici, scambi culturali e diplomatici, internet, eventi sportivi.
Serve infine una maggiore coerenza, da parte dei Paesi occidentali, con i valori che si stanno riscoprendo e proclamando (e che forse appartengono ancora al dibattito culturale, più che alla sensibilità delle élites di governo).
Non vogliamo qui scadere nella retorica terzomondista che attribuisce al presunto sfruttamento dell'Occidente tutti i guasti del pianeta. Anche perché tale retorica alimenta un vittimismo che ostacola lo sviluppo e giustifica perfino la violenza.
Ma non possiamo nemmeno dimenticare che troppo spesso si sceglie la via più rapida del raggiro, del sopruso, anche - in determinate situazioni - dello sfruttamento, da cui traggono vantaggo pochi potentati. Bisogna piuttosto privilegiare la via paziente ma sicura dell'impresa e del mercato (questa sì una tradizione genuina dell'Occidente), che - correttamente intese - consentono la crescita paritaria di tutti gli attori economici e sociali.
Insomma: il dialogo richiede coraggio, preparazione, impegno. Chi è pronto, si faccia avanti.