Giovanni Donigaglia, 63 anni, sposato, tre figli: ha mantenuto la presidenza della Coopcostruttori dal 1974 fino al 14 aprile 2003
intervista pubblicata su Panorama del 23/4/2004
L'ascesa e il declino di una supercoop. Era il quarto gruppo edilizio italiano, legato al Pci e ai Ds. Oggi è in liquidazione, dopo aver rovinato centinaia di dipendenti e di risparmiatori. L'uomo che per quasi trent'anni ha guidato l'azienda racconta per la prima volta i motivi che l'hanno affondata. Facendo nomi e cognomi di chi, all'interno della Quercia, dopo aver preteso aiuto e favori lo ha abbandonato.
«Cria cuervos y te sacaran los ojos» dicono gli spagnoli: alleva corvi e ti caveranno gli occhi. Al ragionier Giovanni Donigaglia, 63 anni, l'ultimo imperatore rosso, assiso dal 1960 sul trono della Coopcostruttori di Argenta per volontà del Pci-Pds-Ds, hanno spedito da Bologna una copia del libro giallo Nido di corvi di Dorothy Eden, imbottita di polvere da sparo e pallini calibro 12. Il tentativo di cavargli gli occhi lo pone, nella graduatoria degli attentati postali in Emilia- Romagna, subito dopo Romano Prodi.
In passato gli avevano recapitato due proiettili 7,65 parabellum avvolti in fogli di giornale. Un'escalation d'intimidazioni proporzionata alla stazza del personaggio, cinque arresti e un anno di galera durante Tangentopoli, 32 processi coronati da 32 assoluzioni: con i suoi 433 milioni di euro di fatturato, la cooperativa ferrarese era il quarto gruppo di costruzioni italiano, alle spalle di Impregilo, Astaldi e Condotte.
Era. Oggi non è più. Dei 2.500 dipendenti, 1.100 languono in cassa integrazione, 500 lavorano a scartamento ridotto, 900 sono stati indotti a licenziarsi. Il ministro per le Attività produttive ha nominato tre commissari straordinari, che alla fine dovranno cucinare uno «spezzatino», unico modo per liquidare un colosso nato nel 1922 sull'esempio dei kolchoz sovietici e dall'edilizia allargatosi via via agli elettroutensili, ai laterizi, alle ceramiche, inglobando nove società sparse tra Milano e Agrigento e cinque stabilimenti.
La Lega delle cooperative accusa Donigaglia d'aver precipitato la Coopcostruttori in una «crisi senza fondo». Donigaglia accusa la Lega delle cooperative d'averla lasciata morire senza muovere un dito. Sullo sfondo, volteggiano i corvi. Compagni. Quelli che Donigaglia ha assunto, fatto votare, foraggiato. Quelli che la moglie Marilena ha visto crescere sui banchi della scuola media dov'è stata applicata di segreteria per 30 anni. Gente che adesso, quando li incontra per strada, grugnisce: «Cosa aspettate a suicidarvi?».
Credono che i Donigaglia abbiano svuotato la cassa. A giudicare dalla dimessa cucina dove mangiano, dal letto dove dormono, dal bagno dove si lavano la faccia, non si direbbe. E neppure dal tinello gozzaniano con i centrini a uncinetto, la collezione di coppe sportive vinte da uno dei tre figli, il cesto ricolmo di confetti nuziali ancora sigillati nei sacchettini come reliquie. La villetta l'hanno tirata su nel '68 con i 45 milioni di indennizzo ricevuti dall'Unipol dopo che un'auto investì il capofamiglia lasciandolo zoppo per sempre. «Mai avuta la colf. Ho dovuto chiedere a mia figlia 1.600 euro per saldare la bolletta del gas. Non posso neppure permettermi la parrucchiera: i capelli me li paciugo da sola»: ha gli occhi fieramente lucidi la moglie dell'ex padre-padrone della Coopcostruttori, mentre misura il perimetro domestico di una catastrofe economica che ha travolto tutta Argenta. Perché qui non c'è famiglia che, investendo nelle Apc (azioni di partecipazione cooperativa) inventate da Donigaglia, non abbia affidato i risparmi alle casse del gruppo.
È la fine di un'epoca, segnata dalla lottizzazione selvaggia e dallo scambio di favori tra coop rosse e Partito comunista. Donigaglia assumeva e s'ingrandiva, s'ingrandiva e assumeva, fino a pretendere di mettere becco nella scelta dei sindaci. I diessini gli facevano vincere gli appalti, certi della sua concreta riconoscenza al momento opportuno. Un intreccio perverso tra affari e politica. Ma poi qualcosa s'è inceppato definitivamente nella macchina del consenso (a Filo d'Argenta il Pci era arrivato al 78 per cento dei voti). È accaduto quando Piero Fassino ha insediato alla segreteria regionale del partito Roberto Montanari, silurando il dalemiano Mauro Zani, e ha chiamato a Roma nel proprio staff Silvia Barbieri. Entrambi di Argenta. I più irriducibili avversari di Donigaglia. A quel punto il destino dell'ingombrante ragioniere era segnato. Ma, per l'eterogenesi dei fini, anche quello della Coopcostruttori.
Ci fosse stato Massimo D'Alema al posto di Fassino, cambiava qualcosa?
(Risponde Donigaglia, ndr) Non c'è più il partito di una volta, questa è la verità. D'Alema venne ad Argenta per assicurarmi che non saremmo stati abbandonati. L'azienda poteva essere salvata. Non lo dico io: lo afferma Alfredo Santini, presidente della Cassa di risparmio di Ferrara, che con Antonveneta e Cofiri era pronta a metterci a disposizione 150 milioni di euro. Bastava un sì dalla Lega coop. Ma quel sì non è mai arrivato.
Si parla di un buco di 2 mila miliardi di lire, con la speranza, per chi ci è finito dentro, di recuperare al massimo il 5 per cento.
Una barzelletta. Quando ho lasciato, i debiti verso le banche ammontavano a 327 milioni di euro. Però c'erano in portafoglio ordini per 1.086,5 milioni. I numeri esposti all'albo del tribunale di Ferrara danno una differenza tra massa attiva e massa passiva di 300 milioni. Valutazione dei commissari, non mia.
La paragonano a Calisto Tanzi.
Dalla Coopcostruttori io ho portato via solo il mio stipendio di presidente: 1.500 euro al mese. La paga di un capomastro.
Una miseria. Stento a crederci.
Che muoia qui! Prendo di più da pensionato: 2 mila euro. I risparmi di una vita di lavoro, 54.118 euro, li ho messi nella coop. Quindi il primo dei buggerati sono io. E devo ancora ricevere il Tfr: 68.813 euro. Ma non mi aspetto nulla. Ero io l'amministratore. Ho sbagliato, è giusto che paghi.
La accusano d'aver occultato la vera entità del disastro.
I bilanci consolidati sono stati regolarmente inviati ai soci, ai creditori, alle banche, alla Lega coop. E a pagina 14 c'era sempre la nota integrativa che elencava gli importi delle riserve tecniche iscritte nei registri della contabilità dei lavori presso i committenti.
Traduca.
Chi costruisce opere pubbliche va incontro a imprevisti geologici, spostamenti di servizi, ritrovamenti archeologici. Ne nascono dei contenziosi. Prima di Tangentopoli, potevamo transare con accordi bonari. Ora tutto è rinviato ai tribunali. I tempi di incasso dei crediti si sono triplicati: fino a sei anni. Di qui le riserve tecniche. Che nel 2002, per un fenomeno imprevedibile, sono raddoppiate, passando di colpo da 441 a 834 milioni di euro.
E come mai?
Per l'aumento dei costi petroliferi, che ha inciso su trasporti, bitumi, plastiche, tubazioni. Le guerre in Afghanistan e in Iraq ci hanno dato il colpo di grazia.
Guerre e rincari li hanno subiti tutte le imprese. Perché è saltata proprio la sua?
Una coop non è in grado di finanziarsi chiamando i soci a ripianare il deficit. Anzi, qui è accaduto che nei primi mesi del 2003 gli azionisti, presi dal panico, hanno preteso di ritorno dai 15 ai 20 milioni di euro. Poi noi lavoravamo solo con gli enti pubblici, quindi non potevamo chiedere la revisione dei prezzi. Inoltre non subappaltavamo mai i lavori, per paura di infiltrazioni mafiose, il che significa che tutto il peso della congiuntura s'è scaricato sulle nostre spalle.
Avrà ben chiesto aiuto a qualcuno.
Eccome. Io ho sempre aiutato il partito, ma nel momento del bisogno il partito non ha aiutato me. Mi convocavano in federazione e mi ordinavano di rilevare le aziende in difficoltà. Dal '75 in avanti ho salvato la Cercom di Porto Garibaldi; la Copma, la Felisatti e la Cei di Ferrara; la Cmr di Filo. Dovetti prendermi pure la Cir Costruzioni di Rovigo, cassaforte dei dorotei, che era in mano a un prestanome di Antonio Bisaglia. Nell'occasione mi fu chiesto di girare una tranche della transazione, 350 milioni di lire, al tesoriere nazionale della Dc. Io gliene consegnai solo 250, che peraltro iscrissi regolarmente nel bilancio come contributo elettorale senza dirlo ai democristiani. Portai personalmente il malloppo a Roma, nella sede di piazza del Gesù. Occorsero due viaggi. Non ha idea di quanto pesano 250 milioni in contanti... Per riconoscenza, i dorotei mi coinvolsero in tutte le grandi opere del Veneto, a cominciare dalla terza corsia della Serenissima, facendo infuriare il doge dei socialisti, Gianni De Michelis, che mi chiamava sprezzantemente «lo zoppo rosso». A un certo punto sono dovuto intervenire negli affari di famiglia.
Cioè?
Il Molino Moretti di Argenta aveva bisogno di nuovi investimenti. Fui costretto a versare alla Lega coop i quattrini necessari a comprarne le azioni. Si dà il caso che fra i proprietari vi fosse il marito di Silvia Barbieri, sindaco diessino di Argenta.
La stessa che oggi lavora con Fassino a via Nazionale?
Lei. Poi diventata senatrice e sottosegretario. E parlano tanto di conflitto d'interessi... Un giorno arriva la Guardia di finanza e s'insedia nei nostri uffici, dov'è rimasta quattro anni. Venivano persino a misurare lo spessore dei vetri alle finestre di questa casa. Esasperato, chiedo al partito di presentare un'interpellanza. Dopo qualche giorno mi telefona Barbieri: «Non se ne fa nulla, non ci conviene». E ti credo!
Che altro faceva per i compagni?
Persino la squadra di calcio, la Spal, mi fu ordinato di comprare, per dare una mano al Comune di Ferrara. Mi costava 4-5 miliardi di lire l'anno. Se non altro posso dire d'averla portata dalla C2 alla serie B. Ero diventato il refugium peccatorum. Mi facevano scucire quattrini a tutti, compresi organi d'informazione e parrocchie.
Tranne che al partito, ovviamente...
Se lei allude a tangenti, è fuori strada. Su questo sfidai il procuratore capo di Verona, Guido Papalia, che mi tenne in galera 78 giorni per farmi confessare l'inconfessabile. Gli dissi: «Non ce la farà a condannarmi, sa? Perché io sono innocente». La miglior arringa in mia difesa fu pronunciata da Gianni Pandolfo, presidente dc della A4: «Chiedere dei soldi a Donigaglia sarebbe stato come chiedere la grazia alla statua di Stalin».
Abbia pazienza, ma fu proprio lei che a San Vittore, il 5 ottobre '93, fece mettere a verbale dal pm Antonio Di Pietro: «Non voglio nascondere la realtà, e cioè che il partito io l'ho finanziato».
Ricordo perfettamente. Raggio 2/B riservato. Nella cella di sinistra c'era Primo Greganti, responsabile amministrativo del Pds, in quella di destra Marco Fredda, tuttora tesoriere, e io in mezzo. Mi riferivo alle sottoscrizioni elettorali, alle sponsorizzazioni, alle pagine di pubblicità sull'Unità, alla partecipazione ai festival. C'era il congresso di Torino? La Coopcostruttori doveva affittare uno stand all'ingresso, 100-200 milioni di lire. Son soldi...
E il partito come ricambiava?
Vigeva il consociativismo. La Lega coop otteneva la sua bella quota di lavori in ciascuna opera pubblica. Ma per costruire c'è bisogno che la pratica segua un iter regolare, che gli espropri siano tempestivi, che le concessioni edilizie arrivino. Serve la politica per questo. E l'amicizia.
Di recente ha voluto reincontrare Di Pietro. Che cosa vi siete detti?
È stato due giorni prima che mi recapitassero il pacco bomba. Anche lui ritiene che la Lega coop non abbia fatto nulla per salvarci. «Tanti politici di sinistra non dovrebbero sputare nel piatto in cui hanno mangiato» ha aggiunto.
Lei in che rapporti è con Fassino?
Ci siamo incontrati una sola volta nel '93 al casello di Ferrara sud. Io uscivo dal carcere veronese del Campone... Eh, sapesse quanti compagni sono venuti a trovarmi in cella per accertarsi che non mi lasciassi sfuggire mezza parola. Ma sono pronto a scommettere che in campagna elettorale Fassino verrà ad Argenta a parlar male di me.
Ha paura?
Al contrario. Lo sfido a un dibattito pubblico.
È ancora iscritto ai Ds?
Da quest'anno no.
Prova più rabbia o più rimorso quando passa davanti alla Coopcostruttori?
Solo dolore. Era tutta la mia vita. Era mia madre. Sono orfano, adesso.
P.S. Infine, nell'ottobre 2005, la Coopcostruttori ha dichiarato fallimento. Ne hanno fatto le spese non solo soci e lavoratori, ma anche 9.000 creditori e risparmiatori che avevano investito nei libretti di deposito emessi dalla coop.