* in occasione dell'omaggio che del testo dell'enciclica la rivista Famiglia cristiana ha fatto ai suoi lettori
Sono lieto che Famiglia Cristiana vi invii a casa il testo della mia enciclica e dia a me la possibilità di accompagnarla con poche parole che vogliono facilitare l’accostamento alla lettura.
All’inizio, infatti, il testo può apparire un po’ difficile e teorico. Quando, però, ci si inoltra nella lettura risulta evidente che io ho solo voluto rispondere a un paio di domande molto concrete per la vita cristiana.
La prima domanda è la seguente: si può davvero amare Dio? E ancora: l’amore può essere imposto? Non è un sentimento che abbiamo o non abbiamo?
La risposta alla prima domanda è: sì, possiamo amare Dio, dato che Egli non è rimasto in una distanza irraggiungibile, ma è entrato ed entra nella nostra vita. Viene verso di noi, verso ciascuno di noi, nei sacramenti attraverso i quali opera nella nostra esistenza; con la fede della Chiesa, attraverso la quale si rivolge a noi; facendoci incontrare uomini, che sono da lui toccati, e trasmettono la sua luce; con le disposizioni attraverso le quali interviene nella nostra vita; con i segni della creazione, che ci ha donato. Egli non ci ha solo offerto l’amore, bensì lo ha vissuto per primo e bussa in tanti modi al nostro cuore per suscitare il nostro amore di risposta. L’amore non è solo un sentimento, vi appartengono anche la volontà e l’intelligenza. Con la sua parola, Dio si rivolge alla nostra intelligenza, alla nostra volontà e al nostro sentimento di modo che possiamo imparare ad amarlo “con tutto il cuore e tutta l’anima”. L’amore, infatti, non lo troviamo già bello e pronto, ma cresce; per così dire noi possiamo impararlo lentamente in modo che sempre più esso abbracci tutte le nostre forze e ci apra la strada per una vita retta.
La seconda domanda è la seguente: possiamo davvero amare il “prossimo”, che ci è estraneo o addirittura antipatico?
Sì, lo possiamo, se siamo amici di Dio. Se siamo amici di Cristo e in questo modo ci diventa sempre più chiaro che egli ci ha amato e ci ama, benché spesso noi distogliamo da lui il nostro sguardo e viviamo seguendo altri orientamenti. Se però la sua amicizia diventerà, a poco a poco, per noi importante e incisiva, allora cominceremo a voler bene a coloro ai quali lui vuole bene e che hanno bisogno del mio aiuto. Egli vuole che noi diventiamo amici dei suoi amici e noi lo possiamo se gli siamo interiormente vicini.
Da ultimo vi è la domanda: con i suoi comandamenti e i suoi divieti la Chiesa non ci rende amara la gioia dell’eros, dell’essere amati, che ci spinge all’altro e vuole diventare unione?
Nell’enciclica ho cercato di dimostrare che la promessa più profonda dell’eros può maturare solo quando non cerchiamo di afferrare la felicità repentina. Al contrario troviamo insieme la pazienza di scoprire sempre più l’altro nel profondo, nella totalità di corpo e anima, di modo che da ultimo la felicità dell’altro diventi più importante della mia. Allora non si vuole più solo prendere, ma donare e proprio in questa liberazione dall’io l’uomo trova sé stesso e diviene colmo di gioia. Nell’enciclica parlo di un percorso di purificazioni e maturazioni necessario perché la vera promessa dell’eros possa adempiersi. Il linguaggio della tradizione l’ha chiamato “educazione alla castità”, che, da ultimo, non significa altro che l’apprendimento dell’amore intero nella pazienza della crescita e della maturazione.
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Nella seconda parte si parla della carità, il servizio d’amore comunitario della Chiesa per tutti coloro che soffrono nel corpo o nell’anima e hanno bisogno del dono dell’amore.
Qui si presentano anzitutto due domande: la Chiesa non può lasciare questo servizio alle altre organizzazioni filantropiche che si formano in molti modi?
Ecco la risposta: no, la Chiesa non lo può fare. Essa deve praticare l’amore per il prossimo anche come comunità, altrimenti annuncia il Dio dell’amore in modo incompleto e insufficiente.
La seconda domanda: non bisognerebbe piuttosto tendere a un ordine della giustizia in cui non vi sono più i bisognosi e per questo la carità diventa superflua?
Ecco la risposta: indubbiamente il fine della politica è creare un giusto ordinamento della società, in cui a ciascuno viene riconosciuto il suo e nessuno soffre di miseria. In questo senso, la giustizia è il vero scopo della politica, così come lo è la pace che non può esistere senza giustizia. Di sua natura la Chiesa non fa politica in prima persona, bensì rispetta l’autonomia dello Stato e del suo ordinamento. La ricerca di questo ordinamento della giustizia spetta alla ragione comune, così come la politica è interesse di tutti i cittadini. Spesso, però, la ragione è accecata da interessi e dalla volontà di potere. La fede serve a purificare la ragione, perché possa vedere e decidere correttamente. È compito allora della Chiesa di guarire la ragione e di rafforzare la volontà di bene. In questo senso – senza fare essa stessa politica – la Chiesa partecipa appassionatamente alla battaglia per la giustizia. Ai cristiani impegnati nelle professioni pubbliche spetta nell’agire politico di aprire sempre nuove strade alla giustizia.
Questa, però, è solo la prima metà della risposta alla nostra domanda. La seconda metà, che a me sta particolarmente a cuore nell’enciclica, dice: la giustizia non può mai rendere superfluo l’amore. Al di là della giustizia, l’uomo avrà sempre bisogno di amore, che solo dà un’anima alla giustizia. In un mondo talmente ferito come lo sperimentiamo ai nostri giorni, non c’è davvero bisogno di dimostrare quanto detto. Il mondo si aspetta la testimonianza dell’amore cristiano che ci viene ispirato dalla fede. Nel nostro mondo, spesso così buio, con questo amore brilla la luce di Dio.
31-1-2006