La riforma dell'Università voluta dal ministro Letizia Moratti ha creato un incredibile paradosso: i beneficiari della riforma - gli studenti, o meglio: una minoranza politicizzata di essi - l'hanno contestata (ricordate l'assedio a Montecitorio?), difendendo i privilegi di altre categorie che vanno contro i propri interessi!
Questo si spiega, in parte, con l'inesperienza di alcuni giovani, che si lasciano facilmente strumentalizzare: dagli interessi di altri, come anche dai pregiudizi politici.
Ma vediamo rapidamente quali sono i contenuti della riforma, e se hanno fondamento le critiche rivolte.
CAMBIA IL RECLUTAMENTO - Stop ai concorsi banditi dalle singole università (che consentivano più facilmente preferenze e raccomandazioni): per i docenti viene introdotta l'«idoneità nazionale» quale presupposto per la successiva chiamata da parte degli atenei, «sulla base di trasparenti procedure di valutazione comparativa».
Un po' di potere in meno per i "baroni"...
ARRIVA IL RICERCATORE A TEMPO - Nasce una nuova figura, quella del ricercatore a tempo determinato. Stando a quanto assicura il Miur, il risultato sarà un «massiccio ingresso» di giovani nel sistema universitario.
Questo è stato un punto molto contestato dagli attuali ricercatori (i quali hanno avuto in ogni caso - come vedremo oltre - un 'paracadute'): sostengono che il loro lavoro diventerebbe "precario". Il bello è che queste critiche sono condite con la solita demagogia: "In questo modo si abbassa la qualità e si incentiva la 'fuga dei cervelli' all'estero!" Noi però ci domandiamo: dove fuggono questi cervelli? La risposta la sappiamo bene: in America, nel regno del lavoro 'precario'!
La questione è molto semplice: il lavoro del ricercatore è di importanza strategica per un Paese, deve garantire l'innovazione e lo sviluppo che sono la vera ricchezza delle società moderne. Non può essere considerato un 'impiego', un 'posto fisso'. In questo settore, più che in altri, c'è l'assoluta necessità di premiare gli elementi migliori e capaci di aggiornarsi.
Ciò non significa che nella società non sia un valore importante il lavoro a tempo indeterminato, che dà tranquillità e consente di progettare il futuro. Ma non può essere il caso delle professioni in cui sono centrali la qualità e l'eccellenza: chi non ha queste doti, troverà altri impieghi.
In tutti i Paesi avanzati, scienziati, manager, ricercatori hanno contratti a tempo determinato (ben pagati); questo non li preoccupa, anzi: cambiano spesso università o azienda per trovare nuovi stimoli e progredire.
La nuova disciplina per i ricercatori garantisce meno quelli che già lo sono, ma apre più porte ai giovani (che non hanno dunque motivo di protestare). Questo è importante perché si tratta di un lavoro tipicamente destinato ai giovani, non a chi si avvia alla pensione (attualmente esistono numerosi "ricercatori" sessantenni...): dopo una certa età bisogna favorire altri sbocchi.
QUOTE RISERVATE - A favore dei ricercatori storici sono previste «riserve e maggiorazioni» nell'ambito dei giudizi di idoneità ad associato (altri sbocchi, appunto). Chi non intende partecipare o non supera il giudizio potrà comunque fregiarsi del titolo di professore aggregato.
LARGO AL VISITING PROFESSOR - L'università, per chiamata diretta, può assegnare posti di ordinario e associato a studiosi stranieri o italiani che all'estero abbiano conseguito idoneità accademica di pari livello.
DOCENTI STIPENDIATI DA AZIENDE - Negli atenei, con incarichi temporanei, potranno insegnare (sulla base di convenzioni) professori straordinari stipendiati interamente da imprese o enti esterni.
Altro punto preso di mira dalla retorica del "non dobbiamo privatizzare la cultura!". Anche qui un po' di ragionevolezza non guasterebbe. L'Università non ha solo il compito di promuovere la ricerca pura, lo studio erudito; ha anche il compito di promuovere la ricerca applicata, di preparare i giovani al mondo del lavoro. In questa direzione è preziosa la collaborazione con le imprese, che resta in ogni caso un "di più", un momento non centrale.
Un ultimo pregiudizio che bisogna sfatare è quello secondo il quale, per migliorare la formazione, basta "investire più soldi nell'istruzione pubblica". Se guardassimo appena i fatti, ci accorgeremmo che si tratta di una ricetta superficiale e ideologica. Infatti, tra i Paesi OCSE (l'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico che riunisce i Paesi sviluppati), l'Italia è ai primi posti quanto a soldi investiti per ogni studente, ma agli ultimi per preparazione degli stessi!
La verità è che la strada della qualità della formazione (il diritto più importante per un giovane, per evitare che la laurea resti un "pezzo di carta") passa per la qualità dell'insegnamento. Questo è possibile solo se lo studente può scegliere l'istituzione (pubblica o privata) che gli dà le migliori garanzie; e se ogni istituzione può scegliere i professori migliori.
Insomma: molte critiche sembrano dettate da pregiudizi politici (quello che fa il centro-destra è da rifiutare per principio), più che dalla sincera attenzione alle esigenze dei giovani e della società. Ma, per fortuna, la maggioranza dei giovani non è così ingenua come qualcuno crede.