Raffaello, La scuola di Atene (particolare)
Si dice che la gente è stanca dei grandi discorsi, vuole risposte concrete ai suoi problemi.
Questa considerazione è giusta se mette in guardia dall’astrattezza di ideologie lontane dalla realtà, o dalle chiacchiere vuote di quei politici che mirano solo al proprio potere personale.
Non è più giusta se ritiene che la soluzione ai problemi sia puramente tecnica, se si illude che la concretezza possa essere slegata da ideali (ovvero princìpî, o ancora - con una connotazione positiva - valori) che esprimono una visione chiara della realtà.
I princìpî sono i criterî che orientano le scelte concrete: ogni scelta esprime anche una scala di ideali (difendere il ladro o il derubato? L’innocenza del bambino o il piacere del pedofilo?). Chi sostiene il contrario ha una visione superficiale dei problemi, oppure è mosso da opportunismo e dall’ambizione di scavalcare la volontà democratica, spacciando per scelte tecniche la propria visione personale (o i propri interessi). I valori, in senso più forte, sono quei princìpî che orientano una scelta in modo non arbitrario, assicurando l'espressione piena della realtà umana in cui si opera: la professione, lo sport, l'economia, la famiglia, ecc.
Queste realtà hanno sì "leggi" di funzionamento, da conoscere e applicare mediante le competenze tecniche. Ma hanno anche "valori" proprî, i quali sono espressione del ‘dover essere’ di quelle realtà, assicurandone la rispondenza al fine che è loro proprio.
L'esigenza di concretezza, evidentemente, non può essere soddisfatta invocando in modo generico un “recupero dei valori”... Dobbiamo identificare i valori in cui crediamo, spiegare cosa esprimono, in che modo incidono nelle scelte sociali e personali, perché sono utili e necessari..
Si aggiunga però che un semplice 'catalogo' di valori e ideali non avrebbe senso, se fosse una sorta di “supermarket” dai cui scaffali attingere di volta in volta ciò che le mode e i poteri forti cercano di farci apparire più giusto. O se si sgegliessero alcuni valori come specchietto per le allodole, al fine di ottenere consensi utili a rafforzare interessi di parte occulti.
Serve piuttosto una cultura dei valori, una visione complessiva che dia ordine e significato ad ognuno di essi; che sappia perseguire il "bene comune".
Le "sinistre", con la caduta del muro di Berlino e il fallimento del comunismo, si sono ritrovate prive di identità, orfane delle loro illusioni, costrette a ripiegare su slogan demagogici. Ma anche le "destre" nazionaliste e liberiste hanno sperimentato l’insufficienza delle loro risposte alle esigenze di crescita della società. La cultura che si è invece dimostrata vincente alla prova della storia, capace di affrontare le sfide della modernità, è quella dell’umanesimo cristiano.
Umanesimo "cristiano" e cultura "cattolica". Quando parliamo di umanesimo cristiano, e di valori liberaldemocratici di ispirazione cristiana, ci ispiriamo ad un filone culturale che è comunemente definito cattolico-liberale, non tanto per distinguerlo dal Magistero della Chiesa (cui si ispira), quanto per distinguerlo dal pensiero cosiddetto cattolico-democratico o progressista.
Parliamo di "cattolicesimo" non in senso confessionale, naturalmente, visto che vogliamo sottolineare la valenza razionalmente condivisibile di questa cultura, di questi valori cristiani (anzi - vedremo - di ispirazione cristiana), naturali, umani, con dignità laica.
Parliamo di cattolicesimo in senso culturale, anche perché non possiamo negare che - in Italia e non solo - la Chiesa cattolica (con la sua dottrina sociale, soprattutto negli ultimi centoventi anni) e i pensatori cattolici hanno saputo elaborare in maniera organica la cultura dei valori, dando un contributo imprescindibile all'umanesimo cristiano e a una più generale cultura dei diritti della persona.
Parliamo di cattolicesimo "liberale", poi, non nel senso di un filone che cerchi improbabili commistioni con la dottrina del liberalismo filosofico puro, secondo la quale non esisterebbe nessuna verità cui attenersi (aspirazione che, vedremo, risulta irrealistica).
Intendiamo "liberale", piuttosto, nel senso che al libero arbitrio e alla creatività dell'individuo - nell'abbracciare la fede e nel contribuire con la loro inventiva alla costruzione della società - vengono riconosciuti un ruolo centrale. In questa prospettiva viene abbracciato il liberalismo inteso quale teoria dell’ordine politico e delle istituzioni (teoria che postula il limite del potere politico - "Stato di diritto" - e promuove la massima espressione delle libertà individuali e sociali), integrato - per non restare nei limiti di un formalismo giuridico - con la sensibilità solidale della cultura cattolica.
E' una prospettiva di sviluppo, che vuole calare la Tradizione nei tempi nuovi e che si distingue nettamente da ogni cattolicesimo angustamente tradizionalista e reazionario.
Questa impostazione, accolta dal Magistero con qualche iniziale diffidenza nell'Ottocento, ha finito poi con l'identificarsi col pensiero sociale del Magistero stesso, soprattuto nel momento in cui si è raccordata con le istanze del solidarismo e l'impostazione socio-filosofica del neotomismo. Un grande patrimonio, dunque, che non riduciamo ai "cattolici liberali" classici dell'Ottocento (Manzoni, Rosmini, Newman), ma che allarghiamo a pensatori con diverse sfumature e sensibilità (solo per fare qualche esempio): Tocqueville, Maritain, Del Noce, Novak e - nella storia politica italiana - Sturzo, De Gasperi.
Un patrimonio che ha importanti punti di contatto col cosiddetto pensiero "laico" (nel senso di non cristiano) liberaldemocratico, in cui l'aggettivo democratico sta appunto a stemperare la matrice liberista, a sottolineare l'importanza di una politica pubblica per la riduzione delle disuguaglianze.
Il cattolicesimo "democratico" e "progressista", invece, volendo porsi come 'avanguardia' del pensiero cattolico, come coscienza critica del Magistero, ha finito per tirarsi fuori da quella tradizione. Non possiamo dilungarci in questa sede sulle sue caratteristiche e sulla sua vicenda storica: le sue istanze, parallelamente a quelle cattolico-liberali, sono anche state importanti per aprire la Chiesa alle istituzioni democratiche e offrire elementi di riflessione alla dottrina sociale. A misurarne l'importanza storica basti evidenziare che alcuni annoverano tra i suoi esponenti Maritain (soprattutto il 'primo' Maritain), che noi abbiamo appena citato come riferimento del moderno pensiero cattolico-liberale.
Ma il fatto è che il cattolicesimo progressista ha avuto un difetto di fondo, da cui solo pochi pensatori hanno saputo affrancarsi: quello di non immaginare un'evoluzione e un adattamento ai tempi del pensiero cattolico, bensì una rivoluzione. In esso si proclama (dal modernismo dell'inizio del ventesimo secolo, all'abbraccio col marxismo degli anni Sessanta) l'apertura alle esigenze e alle correnti di pensiero dei non credenti, soprattutto a quelle di "sinistra", che non hanno fiducia nella libertà e nella responsabilità della persona, immaginando che il rimedio alle ingiustizie stia nello statalismo, nella pianificazione, nell'uguaglianza forzata intesa come appiattimento (pensiero socialdemocratico, o quel che resta delle utopie socialiste). Questa "apertura" ad una presunta "modernità" si traduce in un venire "assorbiti", in rinuncia ad elaborare un pensiero cattolico e una cultura dei valori originali, con l'idea che alla Chiesa spetti essenzialmente farsi ente socioassistenziale. Sennonché la resa incondizionata al pensiero moderno porta il cattolicesimo progressista in crisi, nel momento in cui quella che si autodefinisce "modernità" rinuncia alla ricerca dei valori, o si rivela illusoria e contingente (vedi il fallimento del positivismo prima, del marxismo poi).
Valori e pregiudizi Rilanciare una cultura dei valori richiede il superamento di una serie di pregiudizi e luoghi comuni che si sono stratificati negli ultimi anni.
Innanzitutto, bisogna sottolineare che la cultura dei valori non è una cultura del negativo, dei divieti; al contrario, è una cultura positiva, che nei valori vede la base solida di una società più giusta e pronta ad affrontare le sfide dello sviluppo. Un atteggiamento onesto e realista, in ogni caso, impone di ricordare che ad ogni diritto corrisponde un dovere, che dalla libertà consegue anche la responsabilità. La mancanza di un sano realismo la troviamo nel “radicalismo” postmoderno, che vuole radicalmente mutare l’uomo e le strutture sociali senza guardare alla conseguenza delle sue azioni. Questo radicalismo vuole trasformare in “diritto” qualunque desiderio di alcune categorie sociali, ignorando il fatto che ciò può portare a calpestare i corrispondenti, veri diritti di soggetti deboli (embrioni, bambini, anziani, malati). Tale “espansione del desiderio”, per superare la resistenza dell’altro, vede nello Stato l’entità che deve garantire il soddisfacimento di ogni capriccio, e che deve quindi essere potenziata, senza accorgersi che la vera conseguenza non è dunque un’espansione ma una compressione delle libertà.
In secondo luogo, c’è chi sostiene che una società libera non ha bisogno di essere animata da valori particolari: qualsiasi scelta pubblica è giusta e vincolante per il solo fatto di rispettare canoni di legalità o di ottenere il consenso democratico. Parlare di valori avrebbe senso solo nella sfera privata; e non manca chi nega addirittura, in un’ottica relativistica, l’esistenza stessa di valori universali, sostenendo che parlare di valori significhi voler imporre una logica di parte.
E' la logica che descriviamo nell'articolo Il pluralismo sociale è fondato sui valori comuni. In quell'articolo spieghiamo perché un insieme di valori comuni è necessario alla convivenza civile, anche in un ambito di pluralismo; la loro difesa non rappresenta l’esigenza di singoli o di gruppi, bensì un’esigenza della società tutta. I valori di cui parliamo sono plasmati dal consenso sociale, affondano le loro radici nella tradizione e nell’identità culturale propria di ogni comunità, e in molti casi sono desumibili, nei loro termini essenziali, dalla legge naturale.
Infatti, in un ulteriore articolo sull'attualità del diritto naturale, spieghiamo che esiste un nocciolo di valori universali, i quali, inseriti e sviluppati nel quadro dell’identità culturale di ogni comunità, devono avere anche rilevanza sociale e politica. La loro difesa e promozione, come sottolineò Tocqueville, non è solo garanzia di armonia sociale, ma costituisce la condicio sine qua non per la realizzazione di una società democratica; l’alternativa è il prevalere subdolo degli interessi forti.
Proporre pazientemente i valori che rispondano ai bisogni dell'intera collettività è il compito di una cultura del dialogo, della moderazione, di "centro": un centrismo che - come ricordava anche Sturzo - si basa su contenuti chiari e nulla ha a che vedere con equilibrismi ed opportunismi.
In terzo luogo, alcuni sostengono che parlare di valori, o ancor più di diritto naturale, sia qualcosa di vecchio, di sorpassato; il "progresso" e la modernità richiederebbero il superamento dei valori: "siamo nel duemila!" è una delle frasi più ripetute (e banali). Ma il concetto di diritto naturale, come lo intendiamo, non va inteso in modo rigido e sclerotico. I valori sono la risposta ai bisogni più profondi dell'uomo, e in quanto tali sono sempre moderni, sono sempre necessarî - sia pure calati nei diversi contesti sociali - per pensare e promuovere uno sviluppo vero in favore dell'uomo. Altrimenti può accadere che venga spacciato per "modernità" il ritorno ad antiche forme di idolatria e schiavitù.
Infine, c’è chi contesta la legittimità di parlare di valori “di ispirazione cristiana”, di richiamarsi alla radice religiosa di un progetto politico-culturale; ciò sarebbe in contrasto con la necessaria laicità dell’azione politica. A questo proposito, va sottolineato i valori di cui sottolineiamo la centralità sono valori liberaldemocratici, i quali nascono nella cultura europea da una chiara radice cristiana. Richiamare anche questa radice è necessario per evitare che tali valori si snaturino e si capovolgano, come è accaduto nella Rivoluzione francese. In questo senso, non parliamo di valori esclusivamente cristiani, condivisibili solo in nome della fede ‑ poiché ciò significherebbe cadere in tentazioni integraliste ‑, bensì di valori di ispirazione cristiana, i quali hanno dignità laica e sono condivisibili anche in nome della ragione e dei diritti naturali dell’uomo. L’aborto, per fare un esempio, non è solo il rifiuto della vita quale dono divino, ma è anche e soprattutto la lesione del più importante tra i diritti dell’uomo, base di ogni convivenza civile. La condanna dell’aborto (che non significa insensibilità verso quelle donne che abbiano problemi ad affrontare la gravidanza, come vedremo oltre), dunque, non può restare confinata al piano morale.
La 'laicità' da difendere è quella che rispetta l’autonomia e la razionalità delle realtà umane, senza però pretendere di troncare il fecondo legame con le realtà religiose; una laicità ben differente dal “laicismo”, pregiudizialmente ostile a tutto ciò che è religioso, intollerante verso la dimensione spirituale dell’uomo, la sua espressione culturale e sociale, i suoi simboli.
Quali valori? Dunque: quali sono i valori essenziali per la nostra società?
Il primo è evidentemente quello dell’eminente dignità dell’individuo. Tale dignità esige il rispetto e la promozione di tutto l’uomo ‑ nelle sue componenti materiale, morale, spirituale ‑ e di tutti gli uomini. Il cristiano fonda la dignità dell’uomo sul suo essere “a immagine e somiglianza” di Dio. Ma anche il non credente sente dentro di sé la dignità della persona umana come qualcosa di sacro. Si tratta di un valore fondamentale comune, perché comune è la natura umana: dunque appartiene all'uomo in quanto tale, in qualsiasi condizione si trovi, non dipende dal riconoscimento di altri.
Si tratta di un valore indisponibile anche da parte del suo titolare. Non sono ammissibili atti di rinuncia o sfregio della propria dignità (come "gli atti di disposizione del proprio corpo che cagionino una diminuzione permanente della integrità fisica", vietati dal codice civile in un articolo di rilievo costituzionale: uso di droghe, eutanasia, automutilazioni, ecc.; o come l'accettare di essere soggetti a schiavitù; o come la poligamia), perché - come vedremo fra poco - non si tratta di atti veramente liberi; ed anche nella convinzione che chi non sappia esercitare il rispetto della propria dignità, non possa poi esercitarlo nemmeno verso il prossimo.
Da questo valore primario discendono immediatamente gli altri, che si integrano vicendevolmente in una rete omogenea. L'equilibrio dei valori costituisce il bene comune, che - come ha spiegato San Tommaso d'Aquino - è lo scopo della politica, delle leggi, dell'azione dello Stato.
Si badi bene: le leggi sono "ordinate al bene comune", devono promuoverlo; ma non possono garantirne la completa realizzazione, in un mondo dove esiste un'insuperabile dato antropologico che è l'imperfezione umana (i cristiani parlerebbero di natura lapsa dal peccato originale).
Chi pretende di realizzare una giustizia assoluta può farlo solo in nome di ideologie che operano una selezione di alcuni valori a discapito di altri. Nell'attesa utopica di quella società perfetta che dovrebbe veder realizzata la giustizia promessa, si calpestano concretamente diritti e valori concreti.
Dal valore della dignità dell'individuo discende innanzitutto quello della vita umana. Invocare regole a difesa della vita non significa obbedire ad una logica proibizionista, contrastare il progresso della scienza o le libertà individuali. Significa piuttosto obbedire ad una logica positiva, ad una cultura che sappia riconoscere la sacralità della vita; del concetto di sacralità bisogna recuperare anche una dimensione laica (come i costituenti hanno fatto, ad esempio, per la “difesa della Patria”), intesa come intangibilità ed indisponibilità di certi valori. Oggi si tende a parlare solo di ‘qualità’ della vita, proponendo un modello artificiale, irraggiungibile, incapace di affrontare le difficoltà del vivere; ciò sta conducendo ad una cultura preoccupante ed irrazionale, una cultura della morte, della paura del futuro, da cui derivano i nuovi mali della società moderna: il rifiuto di far figli, il dilagare di droga, depressione, suicidî, eutanasia, aborti, manipolazioni eugenetiche. Ribadiamo allora che la vita è sempre degna di essere vissuta.
Nessun uomo può disporre dell’altrui esistenza e salute. L’unica eccezione è quella della legittima difesa. Poiché la vita è un valore naturale, nessuno può arbitrariamente spostarne i confini: essa va difesa dal suo inizio ‑ che la scienza stessa identifica nel concepimento ‑ al suo termine naturale. Da qui il no ad aborto ed eutanasia, che non significa disconoscere i problemi, ma impegnarsi a cercare vere soluzioni. La legge sull’aborto, ad esempio, rinuncia a fare una decisa scelta a favore di modalità in grado di risolvere i problemi della madre nel rispetto del nascituro (prevenzione, sostegni economici e psicologici, adozioni). L’applicazione della legge, poi, ha esteso illecitamente gli spazi dell’aborto, ignorando persino le cautele previste dal testo legislativo, che enunciava la “tutela della vita umana sin dal suo inizio” o il fatto che “l’interruzione volontaria di gravidanza non è mezzo per il controllo delle nascite” (art.1, commi I e II, della L. 194/78). Similmente, l'eutanasia appare una comoda (ed economica) scorciatoia: il malato potrebbe affrontare con più speranza la malattia se fosse sostenuto da affetto e cure (anche palliative) appropriate.
Poste queste premesse, sono ben chiari i termini della questione bioetica. Invocare una coerente tutela delle persona, di quella non nata come di quella già nata, significa ricordare che l’uomo, in ogni stadio del suo sviluppo, non è un semplice oggetto (di ricerca, di desiderio di paternità e maternità, persino di commercializzazione); al contrario, è un soggetto, la cui dignità prevale su ogni altro interesse. Quando il rispetto della piena dignità e dei diritti fondamentali dell’uomo viene meno, soprattutto dell’uomo più debole, anche in ipotesi considerate eccezionali, sono minate le basi dello Stato di diritto e sono poste le premesse per nuove e più estese violazioni. Anche l’ingegneria genetica potrà sviluppare le sue potenzialità per la cura delle malattie se opererà al servizio della dignità umana, e non si riterrà svincolata da ogni morale (come non ricordare i tragici esperimenti degli scienziati dei lager o dei gulag?). In questa direzione è una conquista importantissima la legge 40/04 che regolamenta la materia della fecondazione artificiale (o “procreazione assistita”), per impedire manipolazioni eugenetiche, sperimentazioni sull’uomo, produzioni in eccesso, clonazioni, pericoli per la salute della donna. Dev’essere assecondato un desiderio di paternità e maternità che abbia a cuore innanzitutto il benessere e la crescita equilibrata, in una famiglia sana, del nascituro (si pensi all’esigenza che la procreazione assistita e l’adozione siano mantenute nell’ambito della famiglia legittima, evitando ogni ipotesi di uteri in affitto, inseminazione eterologa o post mortem, inseminazione di donne non sposate). La libertà di concepimento è cosa ben diversa dalla (pseudo-)‘libertà’ di produzione, di acquisto o di soppressione di esseri umani.
Anche verso la vita propria e l’incolumità del proprio corpo c’è un dovere di responsabilità: esse possono essere sacrificate solo per salvare un altro bene equivalente: la vita altrui, la libertà, la fede (ed abbiamo l’eroismo od il martirio). L’uso di droghe, ad esempio, qualunque sia il tipo, contrasta gravemente con questi principî, altera le capacità mentali e relazionali della persona, comprime anche ‑ a causa dell’assuefazione generata ‑ la libertà individuale. In quest’ottica emerge l’esigenza che la lotta alla droga non sia solo di facciata, ma sia condotta con convinzione, anche sostenendo adeguatamente quelle comunità terapeutiche che, proponendosi un recupero pieno della persona, sono in grado di risolvere davvero il problema.
Altrettanto importante è il valore della libertà. Libertà in tutte le dimensioni e le attività umane: libertà di pensiero, di credo religioso, di parola, di proselitismo, di associazione, di autodeterminazione personale, economica (proprietà privata, economia di mercato) e politica, di formare una famiglia, di educare i figli, ecc.
Chi ha a cuore queste libertà dovrebbe invocare la certezza del diritto che consente di realizzarle. Una certezza del diritto che garantisca la sicurezza dei cittadini: della propria incolumità personale, dei propri beni, delle proprie attività. Una certezza del diritto che, al tempo stesso, delimiti gli spazi dell'azione pubblica e ne eviti gli abusi.
A questo proposito, bisognerebbe inorridire di fronte all’uso politico della giustizia penale che si è fatto in Italia negli ultimi anni, un uso proprio dei regimi totalitarî: poiché non riesco a dimostrare che le tue idee sono peggiori delle mie, cerco di dimostrare che sei un disonesto e un criminale, e così tutti quelli che la pensano come te. Molti sono stati ingiustamente privati della libertà personale e della reputazione (mentre altri che si erano davvero macchiati di reati sono stati risparmiati), e si è anche attentato alla libertà democratica dei cittadini, che hanno visto private di rappresentanza le proprie idee. Resta inteso che la politica non può essere un velo per coprire i reati; ma devono essere perseguiti tutti i responsabili (senza protezioni politiche), e solo i veri responsabili. Resta altresì inteso che l’indipendenza della magistratura è un’esigenza fondamentale; ma dev’essere indipendenza anche dalle proprie idee e amicizie politiche, non può tradursi in irresponsabilità, non può prescindere dai principî altrettanto fondamentali di terzietà del giudice, parità tra accusa e difesa, oggettività della prova, riservatezza delle indagini, persecuzione di tutti i reati di impatto sociale (e non solo di quelli ritenuti più conformi ad un disegno politico), celerità dei processi (un principio, quest’ultimo, la cui assenza è ancor più drammatica nell’amministrazione della giustizia civile).
La libertà incontra, evidentemente, un vincolo esterno nell’espressione dell’altrui libertà e degli altrui diritti: non esiste una ‘libertà’ di uccidere, di calunniare, di calpestare i diritti degli altri (e, in particolare, quelli dei minori, che per esempio hanno diritto ad una crescita equilibrata e devono essere tutelati da spettacoli osceni o esageratamente violenti), ecc.
La propria libertà incontra un vincolo esterno anche nella necessità che siano rispettate le condizioni in cui questa stessa libertà può essere esercitata (la salute psicofisica, ad esempio); e nella necessità che sia rispettata la propria dignità. Da qui discende che l'individuo non può avere un arbitrio assoluto su di sè, in situazioni (droga, eutanasia) in cui compromette la propria libertà futura e svilisce la sua dignità. Senza contare che in tali situazioni le scelte e i comportamenti spesso non sono espressione di reale libertà, perché la volontà è condizionata da dipendenza (stupefacenti) o depressione (eutanasia).
L'indisponibilità di alcuni diritti e beni (vita, dignità personale) non è dunque una lesione, ma una protezione della sfera di libertà personale.
La libertà incontra anche un vincolo interno, morale, costituito dal senso di responsabilità: non può divenire arbitrio, libertinismo, mero sfogo di istinti, ma deve essere indirizzata a riconoscere tutti i valori naturali (anche quelli che non fondano immediatamente i diritti di convivenza civile), a costruire il bene proprio e altrui. Si tratta di un vincolo ‘interno’ perché non può essere imposto dalla legge, ma deve essere promosso dalla cultura e attuato nelle coscienze.
La responsabilità non è solo un vincolo, ma anche uno stimolo: significa che l’uomo non ha solo il diritto, ma anche il dovere di utilizzare al massimo il suo impegno e le sue doti per costruire il proprio e altrui benessere, senza sentirsi soggetto passivo e assistito.
Conseguenza della libertà sono la tolleranza e l’ammissione del pluralismo, che non debbono essere però confusi con il relativismo, la pretesa di negare l’esistenza della verità (che secondo qualcuno sarebbe fonte di integralismo e intolleranza) e di impedirne l’asserzione (come vorrebbero i censori che sostengono la “correttezza politica”, nuova gabbia ideologica che ci giunge dal mondo anglosassone): la vera tolleranza ammette che gli altri abbiano idee diverse (idee che sono la propria visione della verità), che le possano esprimere liberamente e che dal libero incontro (non dall’imposizione) di queste idee nasca il patrimonio di valori comune su cui si regge una comunità. Chi è consapevole del valore delle idee e delle identità può meglio comprendere l’importanza di rispettare idee ed identità altrui.
La libertà politica è anche - soprattutto - libertà effettiva di concorrere a determinare gli indirizzi della comunità politica, perché vi trovino cittadinanza gli interessi di tutti i cittadini (e non solo di poteri "forti"), mediati secondo valori condivisi per conseguire il bene comune. Ciò significa difendere una vera democrazia. E, quindi, i presìdî della democrazia: partiti liberi e moralmente integri come strumento della democrazia rappresentativa (che - integrata da strumenti di democrazia diretta - sola garantisce un reale protagonismo dei cittadini); il pluralismo e la correttezza dell'informazione (solo un consenso formato con consapevolezza è davvero libero); la separazione tra poteri politico-istituzionali e poteri economico-sociali (contro i "conflitti d'interesse").
La consapevolezza che una democrazia perfetta è difficilmente raggiungibile non significa rinunciare allo sforzo di renderla sempre più piena...
Senza dimenticare - lo abbiamo ricordato nell'introduzione e lo approfondiamo nell'articolo sull'attualità del diritto naturale - che il sistema democratico, per sopravvivere, ha bisogno dei valori; e il consenso contingente, che regola gli interessi, non può giungere a comprimere i diritti fondamentali della persona.
Sul piano economico, il rispetto della libertà e della sussidiarietà, oltre che l'esigenza di garantire una migliore allocazione delle risorse (e quindi sviluppo e crescita del benessere), richiedono il rispetto - come detto - del libero mercato e della proprietà privata. Va però ricordato che libero mercato non significa assenza di regole: è necessario far rispettare quelle regole che non imbrigliano la libertà, ma la rendono possibile, preservando le condizioni in cui questa può realizzarsi; quelle regole che assicurano il corretto funzionamento del mercato.
Nella definizione del rapporto tra individuo e società, dal principio di libertà deriva direttamente quello di sussidiarietà. Tale principio sottolinea che ogni comunità non è fine a se stessa, ma ha una funzione di aiuto e sostegno ‑ subsidium ‑ all’individuo e alle comunità minori; perché la società non è il fine dell’uomo (come vorrebbero statalismi e collettivismi), bensì l’uomo è il fine della società. Ne consegue la valorizzazione e il riconoscimento dell’autonomia delle cosiddette comunità intermedie tra individuo e Stato: famiglia, comunità locale, Chiesa, associazioni, scuola, impresa, ecc. Il ruolo delle comunità superiori, dello Stato in particolare (nel fissare regole, imporre tasse, limitare le libertà personali, ecc.), dev’essere limitato alla misura strettamente necessaria a realizzare quei compiti che gli individui o le comunità inferiori non sono in grado di assolvere. Il federalismo, ad esempio, è l’applicazione del principio di sussidiarietà ai rapporti tra comunità locale e Stato; la scuola libera, l’accesso alla quale non dev’essere artificiosamente ostacolato con discriminazioni economiche rispetto a quella statale, svolge una funzione pubblica poiché assicura la sussidiarietà della funzione educativa, i cui titolari primarî sono le famiglie (al riguardo, lo strumento più rispondente a tale esigenza appare quello del buono-scuola); il principio di sussidiarietà, ancora, è il cardine su cui si sta edificando l’Unione Europea, per regolare i rapporti tra Unione, Stati nazionali, regioni.
Le diverse comunità non sono solo veicoli d’interessi, ma realtà che custodiscono i valori e completano l’identità culturale dell’uomo, il quale ha una vocazione sociale. Tocqueville aveva messo in guardia sul fatto che la democrazia funziona solo se funzionano quegli organismi (identificati nei corpi intermedî) che sono depositari dei valori che la fondano. Di tutte le comunità ‑ senza contrapposizioni ‑ dovrà allora essere salvaguardata la coesione e l’originalità culturale. Oltre allo Stato, ad esempio, si dovrà valorizzare anche il concetto di patria.
La più importante delle comunità intermedie è la famiglia, cellula fondamentale di stabilità e continuità sociale, centro primario degli affetti, dell’educazione, della collaborazione anche economica, spazio insostituibile di libertà (non a caso le dittature aggrediscono anzitutto le famiglie). L’esperienza mondiale ci insegna come le situazioni di massimo degrado metropolitano siano legate proprio al disfacimento della famiglia regolare. Una società sana dovrà innanzitutto evitare che la famiglia subisca discriminazioni; questo accade, ad esempio, nei regimi fiscali (come quello italiano) che tassano i percettori di reddito senza tener conto dei carichi familiari, ignorando la reale capacità contributiva dei singoli (richiamata dall’art. 531 della nostra Costituzione) e la funzione sociale svolta dalla famiglia, scoraggiando il fondamentale diritto alla procreazione (col conseguente calo demografico e le gravi ripercussioni sociali). Per ovviare a queste discriminazioni, bisogna introdurre un sistema di imposizione basato sul “quoziente familiare”, che riduca l’imposizione al crescere del numero dei componenti del nucleo familiare. Riconoscere la funzione sociale della famiglia significa non solo evitarle discriminazioni, ma anche assicurarle quelle tutele che le consentano di svolgere i suoi compiti. Le famiglie, ad esempio, se aiutate con sussidî e servizî possono svolgere meglio dello Stato e a costi minori numerosi compiti di assistenza. Delle esigenze familiari debbono tener conto anche le condizioni lavorative (riposo festivo, maternità, compatibilità degli orarî, ecc.).
La famiglia di cui parliamo, evidentemente, è il modello di famiglia quale società naturale (cui si riferisce anche l’art.29 della Costituzione: lo Stato “riconosce” la famiglia, dunque riconosce un modello di realtà che lo precede), nella quale un uomo e una donna si uniscono in un vincolo stabile e ufficiale ‑ il matrimonio ‑ per sostenersi e crescere in maniera sana i futuri cittadini. Ferma restando la libertà di ognuno di scegliere altre forme di convivenza, queste non possono pretendere di ottenere la medesima tutela della famiglia legittima, non essendo in grado di assicurare la stessa funzione sociale, ed anche perché non sono tenute agli stessi doveri che gravano sui componenti della famiglia. Nel caso delle famiglie di fatto, naturalmente, deve essere salvaguardata la piena tutela di eventuali figli; in altri casi estremi ‑ quello delle coppie omosessuali, o delle cosiddette “famiglie unipersonali” ‑ non è neanche possibile parlare di ‘famiglia’, e queste persone potranno utilizzare gli strumenti di autotutela offerti dal diritto privato.
Riconoscere la natura umana significa riconoscere che l’uomo non è un essere con una vocazione individualistica, atomistica, bensì con una vocazione comunitaria. Questo riconoscimento, unito alla volontà di assicurare la promozione di tutti gli uomini, fa sì che nella definizione dei rapporti tra individuo e società, accanto al principio di sussidiarietà, si ponga quello di solidarietà, nazionale ed internazionale.
Non esiste solo il bene individuale, ma anche il bene comune, che anzi - come visto - San Tommaso ha posto come obiettivo dell'azione politica. La concezione libertaria per cui lo Stato sarebbe frutto solo di un patto sociale stipulato al fine di difendere le libertà individuali è espressione di una visione riduttiva - introdotta da Spinoza - dell'azione politica, come finalizzata primariamente a realizzare la libertà (“finis rei publicae libertas est”).
La solidarietà, quindi, non può essere solo l’espressione di un moto di generosità o di carità individuale, ma deve essere anche un criterio di regolazione sociale; da qui l’importanza che esista uno Stato sociale, anche se sarebbe meglio parlare di comunità solidale: soggetto di solidarietà non può essere solo lo Stato, ma anche i corpi intermedî e ‑ verso l’alto ‑ la comunità internazionale.
La solidarietà si compone di due elementi. Un elemento di garanzia, che assicuri a tutti i cittadini l’uguaglianza dei diritti fondamentali (civili, politici, sanitarî, culturali, ecc.) ed in particolare, ai soggetti deboli (bambini, anziani, disabili, ecc.), un’esistenza dignitosa. Un secondo elemento è quello dell’offerta di opportunità di inserimento nel tessuto sociale ed economico, per un’uguaglianza delle opportunità di miglioramento sociale. L’uguale dignità di tutti gli uomini non può tradursi in una necessaria uguaglianza di risultati, di condizioni di vita, realizzata con l’assistenzialismo e l’imposizione della legge; ciò appiattisce le diversità (che pure fanno parte della natura umana e devono essere rispettate), umilia l’esercizio della libera responsabilità individuale, viola le leggi di funzionamento delle realtà sociali, finendo per impoverire la società ed ottenere risultati contrarî a quelli desiderati.
Lo Stato assistenziale è una degenerazione di quello sociale. La solidarietà, richiedendo l’armonia e la collaborazione (solidum), non può ammettere forme di ‘sostegno’ che compromettano il bene comune: non può essere confusa con demagogiche contrapposizioni tra ricchi e poveri, lotte di classe più o meno dichiarate, pauperismi irrazionali; non può giustificare indulgenze verso chi non rispetta la legge (si pensi a certa debolezza verso la microcriminalità: chi merita maggiore solidarietà, il piccolo criminale o la vecchietta scippata?); non può estendere indebitamente la sfera d'intervento dello Stato e l'individuazione di beni e servizî pubblici; non può promuovere politiche insostenibili, senza preoccuparsi della disponibilità di risorse o delle esigenze di sicurezza (si pensi alla necessità che il fenomeno dell’immigrazione, al quale bisogna essere generosamente aperti, sia ben regolato; senza dimenticare che, in ogni caso, non può sostituire l’esigenza che gli abitanti del Terzo Mondo siano aiutati a risollevare le sorti dei proprî Paesi di provenienza); la solidarietà non può nemmeno contraddire le regole del mercato, ma deve piuttosto assicurarne il miglior funzionamento, correggerne le distorsioni, assicurare la tutela di valori che non sono monetizzabili.
Il principio di uguaglianza richiede che siano trattati in maniera uguale i soggetti che si trovano nella stessa situazione. Trattare in maniera uguale soggetti che si trovano in situazioni diseguali (dare la pensione al sessantenne come al quarantenne; pagare chi lavora con coscienza e fatica nella stessa misura chi lo fa con superficialità; riconoscere sussidi al ricco come al povero; equiparare il trattamento dovuto alla famiglia con quello riconosciuto ad altre unioni che non hanno la medesima funzione sociale; ecc.) significa fare ingiustizie e riconoscere privilegi. Dunque, non può essere spacciata per applicazione dell'uguaglianza una politica di favore verso alcune categorie ritenute deboli - anche grazie alla loro capacità di lobbying -, categorie “politicamente corrette” (femministe, immigrati, omosessuali, ecc.), che si finisce per dotare di privilegi ingiustificati (si pensi all’assurda politica delle “quote garantite”), mentre vengono trascurate categorie davvero deboli che hanno minore capacità di pressione politica (bambini, anziani, disabili).
Bisogna sottolineare che l’offerta di pari opportunità dev’essere reale ed accessibile, e dev’essere oggetto anche di interventi ed incentivi pubblici; non si può restare indifferenti di fronte alla povertà e all’emarginazione, considerandole inevitabili o attribuendole semplicisticamente alla cattiva volontà di chi le vive: in molti casi siamo di fronte a vere e proprie ingiustizie. Le ingiustizie, peraltro, non danneggiano solo chi le subisce, ma anche la vivibilità complessiva di una società. La solidarietà è la via necessaria per la giustizia sociale.
La solidarietà, inoltre, deve essere anche tra generazioni, per superare la crisi di valori che porta a vivere freneticamente solo il presente. Questa società ha doveri di memoria e di gratitudine verso i nostri padri, il dovere di non gettare il patrimonio culturale ed economico che abbiamo ereditato. Ma soprattutto bisogna pensare ai doveri verso le nuove generazioni: si pensi ai problemi del debito pubblico, della denatalità, del sistema pensionistico, che hanno gravi conseguenze sulla stabilità sociale e sul futuro dei giovani; conseguenze che stiamo già cominciando a subire e che si aggraveranno tragicamente nei prossimi anni.
La solidarietà, infine, non può avere solo una dimensione nazionale, ma anche internazionale: deve riguardare tutti gli uomini, sostenendo in maniera concreta ‑ e non simbolica, come purtroppo avviene ora ‑ la crescita di tutte le comunità che appartengono al consesso mondiale. Una solidarietà che, anche a quel livello, non può tradursi in un assistenzialismo che si è rivelato fallimentare, ma deve saper innescare la crescita innanzitutto culturale dei Paesi del Terzo Mondo.
La giustizia internazionale (intesa come rispetto della libertà e dei diritti umani, oltre che come giustizia sociale prodotta dalla solidarietà) è necessaria per consentire una pace vera e duratura: “la pace è opera della giustizia”.
La principale opportunità che spetta all’uomo è quella del lavoro ‑ salariato, autonomo, imprenditoriale ‑ nel quale ciascuno esprime la sua personalità e col quale sostiene la sua famiglia e contribuisce alla crescita della comunità. Il singolo ‘posto’ di lavoro non può essere considerato un diritto in senso stretto, meritevole di garanzia assoluta, poiché è il risultato delle libere e mutevoli esigenze di una società flessibile e in sviluppo; d’altronde, le rigidità fanno diminuire la quantità di lavoro disponibile, e i lavori fittizî, non richiesti dal mercato o non diretti al soddisfacimento di beni pubblici essenziali, non forniscono quel contributo di utilità sociale che fonda la moralità del lavoro. Ma se è vero che il lavoro, nella sua dimensione più completa, non è solo uno strumento di produzione, allora bisogna affermare che deve essere perseguita una certa stabilità del lavoro; e che meritevoli di garanzia sono condizioni dignitose di lavoro (orarî, ambiente salubre, riposo festivo), di salario, di previdenza. Inoltre, il diritto alle opportunità di lavoro dev’essere considerato un diritto fondamentale della persona: dovere di ogni società è quello di offrire a tutti la formazione culturale e professionale necessaria, nonché di favorire la creazione di numerose opportunità lavorative, soprattutto per i giovani, con l’obiettivo della piena occupazione.
Anche la possibilità di ottenere una casa dignitosa in cui vivere (da pagare con i frutti del proprio lavoro) dev'essere considerata un diritto fondamentale.
La promozione dell’uomo e della società umana richiede la capacità di costruire lo sviluppo. Preferiamo parlare di sviluppo, piuttosto che di "progresso", perché non gli assegniamo il compito di cancellare le radici culturali delle nostre società, all’inseguimento di utopie astratte e pericolose, come ha cercato di fare un certo ‘progressismo’; il vero sviluppo persegue il miglioramento delle condizioni materiali nel rispetto dei valori naturali, culturali e spirituali, sapendo valorizzare e arricchire quanto di positivo l’umanità ha saputo costruire. Ciò premesso, non si può avere paura dello sviluppo, della tecnologia, ma bisogna saper cogliere le sfide del futuro.
Infine, conseguenza logica di una società fondata sui valori sin qui esposti sarà un’attenzione particolare alla tutela dell’ambiente ecologico, culla dell’umanità e delle future generazioni. La capacità di avere una prospettiva complessiva dei valori umani impedisce però di assolutizzare e idolatrare questa necessità, vagheggiando magari fughe nel passato; anche l’ambiente cresce e si modifica. Bisogna allora salvaguardare l’integrità e l’equilibrio globali dell’ambiente, ferma restando la centralità della persona umana, e quindi la sua possibilità di servirsi delle risorse necessarie alla sua salute e al suo sviluppo.
(quest’articolo è una stesura riveduta ed ampliata di parte del documento predisposto per il meeting di Vallombrosa del 27-29 giugno 1997)