"Un tempo i filosofi usavano partire dall’evidenza, che ormai è fuggita fra gli unicorni. Resta l’opinione: dominatrice di tutti i regimi, senza profilo, in ogni luogo e in nessuno, l’eccesso della sua presenza è tale da consentire soltanto una teologia negativa. Caduto il reggimento divino e svilito il vicariato della metafisica, l’opinione è rimasta allo scoperto, come ultima pietra di fondazione, a coprire folle di vermi, qualche iguana e pochi, antichi serpenti".
(Roberto Calasso, I quarantanove gradini, Adelphi 1991)
Goya, Il sogno (più che il sonno...) della ragione genera mostri
Che cos’è questo “relativismo” di cui tanto si parla? La panacea per una società più libera e tollerante? O un pericoloso virus che mina le basi della convivenza democratica?
La dottrina del cosiddetto relativismo è molto seducente: non esistono verità, ogni ideale si equivale, ognuno ha il diritto di seguirlo senza alcun vincolo. Dal che deriverebbe automaticamente il rispetto assoluto per le idee degli altri, la rinuncia ad ogni tentazione di imporre le proprie con la forza: dialogo e concordia assicurati. Tutto facile, no? La mentalità “relativista” emerge anche nelle discussioni quotidiane: può capitare che chi sostiene con convinzione una tesi, chi parla di “verità”, si senta etichettare pregiudizialmente come "dogmatico" (termine che invece, più propriamente, dovrebbe indicare chi rifiuta di discutere le proprie tesi); o come "intollerante" (termine che dovrebbe, piuttosto, indicare chi pretende di imporre la propria visione, anziché proporla al dibattito comune). Emerge allora una certa carica aggressiva del relativismo, che vuole coprire la sua banalità e superficialità.
Il fatto è che il relativismo è una costruzione astratta, che non dà risposta ai problemi concreti della vita e della convivenza civile.
La tesi per cui unica bussola dell'agire umano - nella sua sfera personale - dovrebbe essere "fa' ciò che desideri", senza nessuna riflessione seria sul bene oggettivo della persona, è una tesi che sembra salvaguardare la libertà individuale, ma non dà risposta al naturale desiderio di felicità e di infinito dell'uomo.
Inoltre, le verità di cui si discute (e che il relativismo mette in discussione) sono anche gli ideali e i valori della sfera sociale e civile. Non si tratta di decidere se preferiamo andare a vedere un film comico o drammatico, se è più piacevole la vacanza al mare o quella in montagna. Non si tratta di questioni destinate a rimanere confinate tra le poltrone di un qualsiasi circolo culturale. Materia del contendere, piuttosto, diventa la misura in cui valori sociali, civili e politici possano diventare fondamento comune della convivenza, evitare i conflitti, favorire la crescita sociale.
L'ipocrisia del relativismo
Le tesi sostenute dai relativisti sono spesso espressione di una certa dose di ipocrisia, in quanto mirano a mascherare secondi fini.
Dovremmo infatti porci una semplice domanda: è possibile sostenere che esistono persone - anche tra coloro che tendenzialmente agiscono e fanno scelte sulla semplice base degli istinti - le quali non fanno mai riferimento ad una - almeno personale - idea di "vero", di "giusto"?
Ed è possibile, in una qualsiasi società, una convivenza serena priva di princìpî (ovvero ideali, o - con una connotazione positiva - valori) comuni, reciprocamente riconosciuti, posti alla base delle convenzioni e delle norme?
E' praticabile, insomma, il cosiddetto relativismo?
Un sano realismo ci dimostra di no.
In tutte le attività umane (insegnare, lavorare, legiferare, amministrare, giudicare) è necessario continuamente scegliere tra diversi interessi quelli meritevoli di tutela, in base ad un criterio di selezione. Tale criterio non richiede semplicemente una competenza "tecnica", ma è anche un criterio "valutativo": non esistono soluzioni “tecniche” o “neutrali”. Si sceglie, dunque, in base a principî, o valori. Valori che possono a loro volta entrare in conflitto, e richiedere una scelta in base ad una gerarchia, un ordine d'importanza.
Sostenere che si possa fare a meno di discutere dei valori comuni (o che i valori siano tutti uguali) è un grande imbroglio, serve a imporre alcuni princìpî (funzionali a interessi forti) spacciandoli come inevitabili, tecnici, neutrali, e sottraendoli al libero confronto culturale e democratico.
La trappola logica del relativismo
L'ipocrisia del relativismo può mascherarsi anche perché si inserisce in una prospettiva culturale più complessa, in una 'deriva' di pensiero prigioniera di trappole logiche a volte inconsapevoli.
La questione dell'individuazione di valori comuni si lega alla questione se esista una verità (e non ci riferiamo principalmente alla Verità di Fede), e se questa sia conoscibile: sono quelli che i filosofi chiamerebbero "problema ontologico" e "problema gnoseologico".
L'utilizzo del concetto di 'verità' od 'oggettività', inoltre, fa temere molti che sia sottratto spazio alla libertà umana, che ci si affidi ad un cieco dogmatismo, che qualcuno voglia imporre con la forza la propria ideologia. La questione della verità, quindi, diventa anche "problema morale" e "problema politico".
I relativisti sovrappongono tutti questi piani con un ragionamento fallace (quello che potremmo definire un "paralogismo"), che recita in sostanza: "L'idea di verità è dogmatica e pericolosa per la libertà. Quindi, la verità non esiste".
Ebbene, questo ragionamento è innanzitutto basato su premesse false.
L'idea di verità è espressione di cieco dogmatismo?
Si tratta di un'asserzione che muove da un'interpretazione distorta del concetto di verità. Suppone erroneamente che la ricerca della verità debba essere sottratta al dialogo o al ragionamento.
Ancora: l'idea di verità è pericolosa per la libertà, allorché si traduce in valori che animano la convivenza civile?
I valori non devono certamente essere imposizione arbitraria di una parte, di una cultura; devono essere oggetto di un dibattito trasparente, che garantisca il massimo del consenso possibile; non devono comprimere libertà fondamentali; devono essere capaci di dare risposte efficaci alle esigenze delle realtà sociali nelle quali sono calati (risposte adeguate secondo i contesti storici e sociali, senza pericolose rigidità). Esistono quindi preoccupazioni di metodo legittime. Ma il relativismo fa esplodere queste preoccupazioni, arrivando a negare in radice - contro ogni realismo - l'utilità e la necessità dei valori nelle realtà sociali.
Alle preoccupazioni di metodo si aggiungono sovente preoccupazioni derivanti da esperienze storiche negative, nelle quali si sono imposti il fanatismo o l'ideologismo violento.
Ma, anche qui, il relativismo si rivela incapace di analizzare correttamente e comprendere le radici di questi fenomeni, pensando che, per evitare il pericolo che qualcuno strumentalizzi l'idea di verità a proprio vantaggio, se ne debba trarre la conseguenza che questa idea sia di per sé pericolosa o inesistente (come chi pensasse di abolire il linguaggio per evitare gli insulti, o vietare il sesso per evitare gli stupri).
Il relativismo, insomma, ignora completamente il contenuto della verità proclamata: esistono le verità, che liberano (il primato stesso riconosciuto alla libertà è una "verità"); ed esistono le asseverazioni - pretese verità - che schiavizzano.
Partendo da una premessa falsa, il ragionamento relativista abbandona ogni logica allorché opera un collegamento forzato e capovolto ("affermazione del conseguente"): se l'effetto mi preoccupa, debbo... ignorare la causa!
Ebbene: posso essere convinto che una determinata "verità" non esista, o che sia deformata, o che debba essere tenuta in considerazione insieme con altre verità. Posso - debbo - cercare di dimostrare razionalmente queste mie convinzioni.
Ma non posso fingere che qualcosa non esista solo per timore di un danno conseguente, o per trarne convenienza!
Il relativismo inquina il dialogo logico-razionale (come l'abbiamo conosciuto dai tempi di Aristotele), negando che dal confronto di tesi diverse si possa arrivare ad una tesi comune. Il suo approdo è il nichilismo, il non credere in niente.
Le aporie cui perviene il relativismo non sono altro che l'esito finale di una lenta deriva di una parte significativa del pensiero moderno. Un percorso che ha condotto dapprima a negare l'esistenza delle verità filosofiche e morali, togliendo dignità alla metafisica (la disciplina che si occupa appunto dell'Essere e dell'uomo nella sua complessità); e poi, in alcuni casi, addirittura a negare la possibilità di qualsiasi conoscenza, anche scientifica...
Vale la pena tratteggiare le linee di questa evoluzione (mirabilmente riassunta da Calasso nella citazione in epigrafe), anche perché alcune continuano ad avere influssi attuali.
Il percorso del pensiero moderno verso il relativismo.
Il relativismo non costituisce certo una novità: relativisti erano i sofisti (combattuti da Socrate), gli scettici ...
In età moderna, Bacone prima, Berkeley (seppure con successivi ripensamenti) poi, avevano decretato il primato della conoscenza materialista, misurabile, riducendo la razionalità a fisica e tecnica, ed indebolendo quindi la capacità della ragione di conoscere le realtà umane. Nell’empirismo inglese trova linfa il liberalismo utilitarista: esso individua nella soddisfazione delle preferenze personali l’unico criterio oggettivo per guidare i comportamenti umani, e nel "libero" accordo tra i consociati la maniera per realizzarlo. Più di recente il post-strutturalismo francese, il criticismo decostruzionista, il convenzionalismo, lo storicismo di Spengler, hanno affermato il primato sulla ragione di una libertà in termini assoluti, arrivando perfino a negare la possibilità di un discorso razionale (la ragione si ridurrebbe al linguaggio).
Queste tendenze sconfinano in un libertinismo disinteressato alla costruzione della convivenza, nel radicalismo, nell'irrazionalismo, nell'anarchismo: la propria libertà si scontra con la realtà dell' "altro da sé", producendo conflitti sociali continui ed esasperati, o componendosi in "liberi accordi" in cui - senza la mediazione di un valore oggettivo - chi si impone è il più forte (il più ricco, il più potente, il più preparato).
La ricerca di una libertà che non si riesce a realizzare pienamente, a causa dell'instabilità cronica del relativismo, ha portato paradossalmente molti liberalisti anche ad invocare uno Stato forte, capace di garantire la soddisfazione di piaceri quotidiani, in cambio della rinuncia a determinare gli indirizzi politici ed economici.
La capacità della ragione di conoscere le realtà umane - e rinvenire i valori della convivenza - veniva contemporaneamente indebolita anche da chi apparentemente la esaltava.
La cosiddetta “legge di Hume” separava l’essere (inteso limitativamente come aspetto esteriore delle cose, come insieme dei fenomeni scientificamente analizzabili) dal dover essere (fini, giudizi di valore, per i quali - non essendo possibile attingere alla "sostanza" dell'essere - non sarebbe possibile un’analisi razionale). La ragione veniva ridotta a scientismo e fisicismo, cioè ritenuta utilizzabile solo nel campo delle scienze fisico-matematiche. Emergeva il criterio dell’avalutatività: gli atti non sono più giudicabili come buoni o cattivi, la scelta dei valori diviene indifferente (Weber, Kelsen): in definitiva affidata solo al decisionismo e all’arbitrio dei singoli o dei gruppi di potere. Le drammatiche conseguenze sociali di questo postulato (che poi le stesse scienze hanno dimostrato arbitrario) le abbiamo ben conosciute...
Molti tra coloro che volevano espressamente utilizzare la ragione anche per indagare le scienze umane, hanno finito ugualmente con l'indebolirla. Cartesio aveva considerato il pensiero individuale fondamento della realtà ("Cogito ergo sum"). Con Kant, il compito della ragione soggettiva diveniva quello di dare ordine ad una realtà incoerente. Non vi è più un dato "naturale" oggettivo, evidente in sé.
L'illuminismo segna un passaggio fondamentale nella diffusione di una visione soggettiva della ragione. Nel rigettare tutte le religioni rivelate, l'illuminismo le rimpiazza con una nuova religione mondiale della ragione. Il dogma fondamentale è che l’uomo deve andare oltre i pregiudizi ereditati dalla tradizione; deve avere il coraggio di liberarsi da ogni autorità al fine di pensare autonomamente, usando null’altro che la ragione per attingere alla verità. Ma l’idea dell’onnipotenza della ragione si scontra inesorabilmente con i dati di un sano realismo.
L’illuminismo razionalista, sviluppatosi nell’Europa continentale, ha realizzato alcune importanti conquiste nel campo dei diritti civili partendo da una legittima critica alle ingiustizie sociali di un’epoca, soprattutto all'insufficiente realizzazione del principio di uguaglianza. Ma il suo apporto è stato mitizzato: invero, non ha saputo individuare correttamente le cause di quelle ingiustizie, traendo conclusioni storiche e filosofiche arbitrarie. Infatti, se in precedenza diritti e valori naturali erano stati spesso deformati da incrostazioni culturali e privilegi di ceto, era giusto invocare un uso più attento – anche, ma non solo - della ragione, per individuarli in maniera più nitida. Ma è stato falso sostenere che le epoche precedenti (soprattutto il "Medioevo") fossero "oscure", e che in esse la ragione fosse stata negletta; è stato superficiale vedere nella religione una "superstizione" nemica della ragione e fonte di arretratezza; ed è stato pericoloso sostenere il venir meno di un riferimento comune a valori assoluti. Cosicché le ideologie “razionaliste” hanno poi prodotto degenerazioni peggiori di quelle denunciate; il vento del cambiamento ha spazzato ma non costruito.
L’illuminismo inizia col sacrificare la libertà alla ragione: in nome di una libertà "più ampia", vuole eliminare i presidî di libertà conosciuti, garantiti dai corpi sociali (come la famiglia): solo un rapporto diretto ed esclusivo dell'individuo con lo Stato garantirebbe i diritti dell'individuo stesso (o almeno quelli che lo Stato ritiene meritevoli di tutela...). Una volta individuati i nemici della ragione, le forze “oscurantiste”, si ritiene possibile sacrificare la libertà di questi soggetti per difendere la propria, ovvero per affermare una sorta di più grande libertà “collettiva”. Alla fine, l'unica libertà residua è nell’adeguarsi alla logica della storia.
Le contraddizioni dei lumi emergono anche se guardiamo con un po' di attenzione il profilo di uno dei suoi esponenti più celebrati, Voltaire: parlava molto bene di tolleranza e progresso, ma era ferocemente antisemita, fortemente razzista (equiparava i neri a scimmie), investiva nel commercio degli schiavi...
Gli ulteriori sviluppi del razionalismo illuminista conducono a ritenere che l’idea del bene e della realtà in sé è posta fuori dalla comprensione umana. L’unico punto di riferimento per ogni persona è ciò che può comprendere personalmente come buono o vero; ognuno produce la sua verità. Conseguentemente, la libertà non è più vista positivamente come una lotta per il bene che la ragione raggiunge con l’aiuto della comunità, della tradizione, della fede, ma è piuttosto definita come un’emancipazione dalle condizioni che impediscono ad ognuno di seguire la propria ragione. L’illuminismo, dunque, arriva ben presto a negare il potere della ragione di conoscere la verità oggettiva.
La ragione autoreferenziale, soggettiva, diviene strumentale agli interessi, si confonde col volontarismo, si limita all'opinione: la quale è sempre "legittima" e può essere abbracciata all'occorrenza.
La ragione soggettiva si traduce infine nel suo opposto, l'irrazionalismo, come preannunciò Nietzche, che gridò in maniera dirompente: "niente più metafisica!".
Questo soggettivismo invade anche il campo della scienza, quindi di quelle conoscenze che sembravano restare le uniche certe: secondo il costruttivismo e lo strumentalismo lo scienziato non conosce la natura fisica, ma formula ipotesi deformate dal suo punto di vista, crea semplici strumenti utili per applicazioni.
Questo percorso di trasformazione della ragione illuminista nella sua negazione è esemplarmente descritto da due celebri filosofi di scuola marxista, Adorno e Horckeimer, nel fondamentale Dialettica dell'illuminismo.
Quando il volontarismo della ragione soggettiva si manifesta come collettivo, e la ragione diviene "costruttivista", utopista, vuole plasmare il mondo a sua misura, distruggere tutto ciò che considera irrazionale, creare un “uomo nuovo”, allora abbiamo le pulsioni verso una società oppressiva ed uno Stato assolutistico. Un assolutismo che ha in sé anche una componente "relativista" (il relativismo non si sposa in alcun modo con la libertà), in quanto il volontarismo costruttivista non vuole imporre quell'idea di bene o di verità cui ha aderito intellettualmente; piuttosto, crea una mutevole verità dipendente da desiderî e interessi.
Per averne conferma, basta leggere queste poche righe: “Noi che abbiamo avuto il coraggio di mandare in frantumi tutte le categorie politiche tradizionali e dirci a volta a volta aristocratici e democratici, rivoluzionari e reazionari, proletari e antiproletari, pacifisti e antipacifisti, noi siamo veramente i relativisti per eccellenza”. L'autore? Benito Mussolini! (da "Nel solco delle grandi filosofie: relativismo e fascismo”, articolo pubblicato su Il Popolo d’Italia del 22 novembre 1921).
Il volontarismo può essere espressione anche di una ragione di tipo individualista, chiusa in sé stessa (la versione tornata oggi "di moda" in reazione ai totalitarismi), sposandosi col liberalismo utilitarista che abbiamo in precedenza descritto. Anche qui l'ideologia di fondo è unica, sebbene sia utilizzato con maggiore frequenza - per definirla - il termine "relativismo". Non assistiamo, infatti, all'incontro di ideologie diverse, ma allo scontro di interessi diversi, all'interno di un sistema di composizione - l'utilitarismo, sovente accompagnato dallo scientismo - che ha una (sia pur dissimulata) pretesa di "verità", offre una gerarchia e ne regola l'esito; un sistema che si impone in chiave economicistica e pragmatistica, prima ancora che di assolutismo politico.
In tutti i casi, l'abbattimento delle verità ritenute dogmatiche e opprimenti (anche se erano espressione della ricerca razionale) fa riemergere idoli e istinti già conosciuti, ora sottratti ad ogni controllo ed ancora più schiavizzanti: "folle di vermi, qualche iguana, antichi serpenti".
Il rifiuto dei valori nasce non solo da un'incapacità della ragione soggettiva di coglierli, ma anche da un più generale rifiuto di sé di una parte della moderna civiltà occidentale.
Ciò è in parte conseguenza del percorso che abbiamo appena descritto.
Per altra parte è dovuto al fallimento delle grandi utopie-illusioni (in particolare quella social-comunista), col carico di delusioni che ciò ha comportato.
Il fallimento dell'idea socialista non ha annullato completamente gli effetti e le scorie dell'imponente lavoro svolto nel secolo scorso dalla propaganda comunista, la quale aveva raccolto il testimone dell'illuminismo costruttivista. Essa per decenni è stata molto attiva (più di qualunque altra tendenza culturale), anche perché ben sovvenzionata, nella denigrazione della società occidentale (che doveva essere sostituita dall'utopia socialista di matrice sovietica).
Inoltre, uno degli input lanciati in quel periodo (e ancora ripresi dall'illuminismo, Rousseau in particolare), e penetrati più a fondo nella mentalità corrente, è che il bene (e il male) della persona non dipendono dalla sua responsabilità personale, bensì dal "sistema", dalle strutture sociali. Per cui l'individuo (naturalmente incline a non accontentarsi) si è assuefatto a proiettare le proprie frustrazioni sulla società e sui valori tradizionali: abbatterli avrebbe significato "liberarsi" (e invece significa far crollare l'edificio che consente la ricerca della felicità); non riuscire a "realizzarsi" comporta un rifiuto del "sistema".
Il rifiuto dei valori, alla fine, si associa all’odio per l’idea di qualità. La società occidentale (ma è una legge universale dello sviluppo) è cresciuta – nell’arte, nella scienza, nelle conquiste sociali – facendo leva sullo spirito d’iniziativa e la creatività della persona, o di gruppi di persone, e riconoscendone i meriti. Al premio del più meritevole (colui che – evangelicamente – ha meglio investito i proprî talenti) ha sempre fatto da contrappeso l’idea – ugualmente cristiana - di uguale dignità delle persone e di sostegno al più debole.
Nel tempo, lo sviluppo economico ha consentito di immaginare la possibilità di offrire garanzie sociali prima impensabili. Sennonché le garanzie offerte come opportunità, cui i singoli sono chiamati a rispondere con la loro iniziativa, sono state recepite come pretese, diritti assoluti. L'uguaglianza dei punti di partenza pretende di diventare uguaglianza dei punti di arrivo. Nessuna competizione o comparazione può esservi tra individui, perché ciò causa frustrazione in chi non riesce a raggiungere i risultati agognati; o in chi pretende di raggiungerli senza impegno (l’odio per la qualità è figlio dell’odio del sacrificio necessario a raggiungere una meta). Nessun valore può esser proposto all'osservanza dei cittadini. Valore esclusivo diventa l’ “autostima” dell’individuo, che dev’essere protetta da un sistema di garanzie sui risultati (e non solo sulle opportunità): debbo garantirti titolo di studio, lavoro, denaro, riconoscimento sociale, a prescindere dalle tue capacità e dal tuo impegno.
E' una versione di volontarismo individualista, che però accampa diritti senza riconoscere doveri, richiede dallo Stato garanzie alla cui costruzione non si è disposti ad offrire alcun contributo.
Modernità "secolarista" e modernità "ontologista"
Ma quali sono le cause più profonde di questa deriva del razionalismo soggettivista?
Le cause vanno rinvenute - prima ancora che in mutamenti storici, economici, sociali - in un vizio di origine di questo razionalismo: il suo essersi posto come "secolarismo", cioè come tentativo di estromissione del sacro dall'orizzonte dell'uomo moderno.
Esiste una linea di sviluppo della modernità, individuata con grande lucidità da Augusto Del Noce, la quale è secolarista, perché si basa su un razionalismo "non ragionevole", che rinuncia a priori al discorso su Dio. Questo razionalismo non è ragionevole, perché non si limita a considerare la ragione un importante strumento di conoscenza, ma assume il postulato - non dimostrato - che la ragione sia l'unico strumento di conoscenza, e sia capace di offrire risposte a tutte le dimensioni dell'esistenza umana (o a tutte le dimensioni "rilevanti"; ciò che non può ottenere risposta razionale, non merita considerazione)
L'estromissione di Dio, quindi, non è un problema di fede, un problema dei credenti.
Diviene un problema storico e sociale, perché si concreta nel rifiuto aprioristico del trascendente e del senso di limite dell'uomo (che il credente rinviene nella natura lapsa, ma che è un dato di evidenza antropologica per chiunque).
Questa estromissione si fa esplicita nei punti terminali della modernità secolarista, che muove da Cartesio (o da un'interpretazione riduttiva del suo pensiero) e passa per Spinoza, Kant, Hegel, sino a Marx (in cui il razionalismo si riduce alla prassi, diviene non-filosofia) e Nietzsche (in cui le contraddizioni del razionalismo esplodono). Dio - sostenevano, pur da premesse diverse, sia Marx sia Nietzsche - non esiste perché non può esistere: la sua esistenza negherebbe la pretesa ideologica dell'uomo di trovare in se stesso la propria salvezza.
Del Noce evidenzia che questa modernità razionalista e secolarista accomuna ideologie apparentemente diverse ed opposte: comunismo, fascismo, nazismo, libertinismo. Tutte queste ideologie sono destinate ad una catastrofe - nel senso letterale: capovolgimento -, all'approdo alla società dell'irreligione occidentale in cui l'uomo si aliena nella ricerca del piacere, in cui delega alla tecnoscienza e all'economia il soddisfacimento dei suoi bisogni esclusivamente materiali.
In questa società la rinuncia al tema del trascendente si traduce in rinuncia al tema del vero, del bene, del giusto, del reale.
Il razionalismo ha un esito necessario nel nichilismo, nel relativismo (non a caso Del Noce seppe prevedere che il comunismo si sarebbe trasformato in una componente della società borghese secolarizzata).
Ma la denuncia della modernità secolarista non significa denuncia della modernità in toto, vagheggiamento di un ritorno ad una mitica età aurea, contrapposizione insanabile tra credenti e non credenti.
Del Noce individua una diversa linea della modernità, che muovendo ancora da Cartesio (e soprattutto dalle sue Meditationes) passa per Malebranche, Pascal, Vico, Rosmini; una modernità espressione di un "nuovo" che sia l'esplicitazione e l'attualizzazione di virtualità già presenti nella tradizione; una modernità che usa la ragione senza porle limiti aprioristici; una modernità aperta alla realtà e alla verità dell'essere nella sua interezza (anche trascendente), e che quindi Del Noce definisce "ontologista".
Nella linea di questa modernità sono chiamati a inserirsi i credenti che non rinunciano a porsi con atteggiamento critico rispetto alla mentalità del "mondo" (materialista, strumentalizzante).
Ma anche i non credenti che sappiano porsi i problemi della trascendenza, della componente spirituale dell'uomo, dei suoi limiti, della risposta a domande di senso, dei fondamenti ai valori morali. I non credenti espressione di una cultura liberale umanistica e non ideologica.
Realismo, verità, libertà.
Abbiamo visto i guasti prodotti dalla linea di pensiero che, al problema dell'esistenza e conoscibilità della verità, dà una risposta negativa.
Esiste però, come accennato, anche una linea di pensiero che dà una risposta positiva, cerca di risolvere i dubbi e le preoccupazioni posti dal relativismo senza giungere ad esiti distruttivi.
Alla ragione soggettiva dell'illuminismo si è storicamente contrapposta la visione di una ragione realista, ovvero della "sana ragione" (recta ratio), del lógos quale principio interpretativo dell'universo (visione su cui si sono incontrati civiltà greco-romana e civiltà cristiana, come ricordato da Papa Benedetto XVI nel suo discorso di Ratisbona).
Si tratta di una ragione ancorata al principio di realtà, che non nega ciò che non riesce a misurare o spiegare, che non è chiusa alla dimensione spirituale dell'uomo: "l'ultimo passo della ragione è riconoscere che c'è un'infinità di cose che la sorpassano" (Pascal). Una ragione non "costruttivista", ma "cognitivista" (non vuole creare la realtà, ma conoscerla).
La ragione realista riconosce che esistono valori, verità oggettive. Il concetto di "verità" identifica non un'idea astratta, ma proprio la corrispondenza tra conoscenza ed essere, realtà (adaequatio intellectus rei). La difficoltà a definire la verità evidenzia un limite della nostra capacità di conoscenza, ma non può condurre a negarne la stessa esistenza (altrimenti si confonde, come ricordavamo in precedenza, il piano ontologico con quello gnoseologico).
Nemmeno si può negare in radice la possibilità di attingere alla verità, di conoscerla, perché ciò comporta una contraddizione insanabile. Infatti, chi pretende che le cose non sono conoscibili per come sono, ma soltanto per come appaiono, per accorgersi della differenza tra le cose come sono e le cose come appaiono dovrebbe conoscere le cose come sono realmente, e non soltanto come gli appaiono...
Anche senza inoltrarci nel percorso logico-filosofico (che dovrebbe essere già abbastanza chiaro), possiamo constatare che l'esistenza della verità - nei diversi campi - emerge dalla nostra esperienza comune e dall'evidenza della ragione.
Ciò vale innanzitutto nel campo della verità dei fatti, degli eventi. Può essere difficile ricostruirli esattamente; ma la menzogna, la calunnia, sono sempre strumento per sottomettere, non per conoscere e liberare.
Abbiamo visto, inoltre, che la furia iconoclasta del relativismo è arrivata persino (mediante le teorie costruttiviste e strumentaliste) a mettere in dubbio l'esistenza di realtà oggettive nel campo delle scienze fisiche e naturali.
Ebbene, Popper, padre dell'epistemologia moderna, spiega che la scienza - nonostante abbia scoperto di non poter affermare certezze definitive - progredisce verso le verità della natura per approssimazioni sempre maggiori. Se non ho gli strumenti per definire esattamente forma e natura di una stella, non posso dedurne che... non esiste! Altrimenti si cade nel paradosso di un Don Ferrante ‑ il personaggio dei Promessi Sposi - che, non riuscendo a individuare la natura della peste, ne dedusse l’inesistenza, non prese precauzioni e, ovviamente, morì di pestilenza.
Per fare un esempio attinente alla nostra vita quotidiana: quando ci rechiamo da un medico, ci aspettiamo da lui una diagnosi "vera" (pur consapevoli dei limiti e dei continui progressi della scienza medica). Sappiamo che ci sono medici più bravi di altri. E se un medico sbaglia clamorosamente diagnosi, ci arrabbiamo molto, e non lo giustifichiamo pensando che "ha espresso un suo punto di vista condizionato dai suoi riferimenti culturali"...
Riconoscere la possibilità di una conoscenza "vera" o "oggettiva", perché aderente con una certa approssimazione alla realtà, non significa affermare l'esistenza di una conoscenza "completa" e "perfetta".
Una simile capacità di attingere alla verità dell'uomo con metodi razionali la ritroviamo nella metafisica e nelle scienze umane (anche se bisogna prestare attenzione ad indebite sovrapposizioni con le scienze naturali), in cui individuiamo le verità morali, che sono la componente costante, universale, naturale, dei valori. La "legge di Hume", ovvero la pretesa fisicista che esista un unico pensiero razionale - quello scientifico - capace di raggiungere conoscenze oggettive, è stata smentita dalla crisi del pensiero scientifico tradizionale, che ha condotto la scienza ad aprirsi - pur sempre con rigore: riproducibilità, falsificabilità, ecc. - ad una pluralità di metodi (fuzzy logic, teorie dei giochi e delle catastrofi, stocastica, ecc.), nonché a ricercare una sempre maggiore interdisciplinarietà. Senza entrare in dettagli, non possibili in questo contesto, ci limitiamo a ricordare che gli stessi epistemologi, come Lakatos, hanno chiesto di superare ogni preclusione contro la metafisica; che la sintonia tra conoscenza scientifica e altre forme di conoscenza è auspicata dagli stessi scienziati di tutto il mondo che il 7 marzo 1986 hanno redatto la celebre "Dichiarazione di Venezia".
Anche nell'ambito delle scienze umane, la difficoltà a definire una verità, l'elemento oggettivo di un valore, non significa negarla. L'individuazione di una verità, inoltre, non è principalmente determinata dal consenso, non può divenire puramente convenzionale, come accade per la regolamentazione degli interessi. Infatti, se gli interessi sono disponibili, così non è per le verità, che sono oggetto di conoscenza, non di contrattazione. Se ho difficoltà a definire i contorni dei diritti umani, non posso per questo calpestarli, o 'aggiustarli' secondo il mio comodo!
L’idea di verità, però, non esclude il dubbio, anzi lo richiede, quale strumento necessario per cercarla e riconoscerla, senza fermarsi a verità apparenti. Ma diverso dal dubbio è il rifiuto aprioristico.
Inoltre, l’idea di verità non preclude la libertà, anzi la rende possibile, perché nessuna scelta può essere davvero libera se non è consapevole: “la Verità vi farà liberi”.
L'uomo, posto di fronte ai suoi limiti, si trova continuamente di fronte all'esigenza di scegliere, dunque di rinunciare a qualcosa. Bisogna difendere la libertà umana di scegliere (sperabilmente per il meglio); ma è un inganno la libertà di non scegliere, cioè di veder soddisfatta ogni pretesa.
La moralità degli atti, inoltre, è definita dal rapporto tra libertà dell'uomo e il suo bene autentico. La libertà più profonda, infatti, non risiede semplicemente nello "scegliere tra questo e quello" in maniera superficiale. La libertà più profonda è nel determinare se stessi, la propria vita; ma perché ciò sia possibile, bisogna conoscere la verità della propria vita. La 'scelta' tra drogarmi e non drogarmi, ad esempio, si potrebbe definire una scelta di libertà solo se avessi ben chiare le cause (sociali, psicologiche) della mia azione, le sue conseguenze sulla mia vita futura, la possibilità reale di tornare indietro, ecc.
Il relativismo, negando alla ragione la capacità di conoscere la verità dell'uomo, ne annulla la libertà. “La distinzione tra sì e no, vero e falso, buono e cattivo ‑ ha scritto Walter Kasper ‑ non può essere accantonata a meno che l’uomo non voglia accantonare l’essere uomo”.
Un attacco alla libertà, piuttosto, viene dalla negazione della possibilità di evocare la verità, addirittura di attribuirle un nome, come pretenderebbe la nuova dittatura del linguaggio della "correttezza politica" ("political correctness"), che assegna natura "discriminatoria" ad ogni giudizio di valore (la società totalitaria predetta da Orwell, nel suo romanzo 1984, si caratterizzava innanzitutto per l’imposizione della “neolingua”: le idee divenute innominabili sono anche inconoscibili).
La natura dei "valori"
Tutte le realtà naturali (scuola, lavoro, politica, scienza, arte, ecc.) hanno leggi e valori propri. "Leggi" di funzionamento, da conoscere e applicare mediante le competenze tecniche. Ma anche "valori" (termine cui diamo una connotazione positiva, ancor più che "principio" o "ideale"), i quali sono espressione del ‘dover essere’ di quelle realtà, assicurandone la rispondenza al fine che è loro proprio. Così ogni professione deve avere il suo codice deontologico, lo sport ha senso proprio in quanto rispecchi correttezza e 'sportività', l'economia non può ridursi ad abili speculazioni finanziarie, ecc.
I valori delle realtà naturali sono composti da alcuni elementi costanti, universali (naturali, appunto: ne parliamo più a fondo nell'articolo sul diritto naturale). Tali elementi, universali, ci consentono di parlare di una 'verità' morale, componenete oggettiva del valore sociale, non "contrattabile" (benché destinata nel tempo ad essere compresa con sempre maggiore nitidezza). Di fronte alla necessità di compiere scelte, il criterio valutativo di selezione dei principî che viene utilizzato, se non ha una dimensione oggettiva, potrebbe essere casuale, arbitrario, un mero compromesso, o addirittura il frutto di una prevaricazione; così si condannerebbe la realtà in cui si opera all'impoverimento o al fallimento. Se invece c'è la capacità di identificare il "valore" proprio di quella realtà, se ne favorisce la piena espressione.
Agli elementi costanti (nei valori delle realtà naturali e sociali) si aggiungono elementi mutevoli, a seconda del contesto (storico, geografico, sociale, culturale). Questi elementi - in cui l'aspetto del consenso è prevalente - si raccordano in una tradizione, che esprime la cultura e l'identità collettiva di una comunità. L’esperienza esistenziale di ogni generazione continuamente verifica (o falsifica) quelle acquisizioni, le anima e le fa rivivere.
I valori fondano - secondo un'articolazione propria di ognuna - le diverse dimensioni delle realtà naturali:
la
dimensione individuale (che analizziamo nell'articolo sul
significato della libertà), in cui l'uomo si rapporta innanzitutto alla propria libertà, alla morale personale (nella misura in cui la morale può essere esclusivamente individuale), alla coscienza che le mette in relazione;
la
dimensione socio-culturale (che analizziamo nell'articolo su
valori comuni e pluralismo sociale), in cui emergono i valori della convivenza, che fondano l'etica sociale e civile;
la
dimensione politico-giuridica, in cui alcuni valori che hanno particolare rilevanza per la convivenza ed il bene comune possono fondare norme giuridiche, dotate del massimo grado di "coattività": un patto può divenire un contratto, tutelato dall'ordinamento statale. Il furto non è più solo un'offesa privata, ma un reato pubblico.
Ce ne occupiamo nell’articolo sull'
attualità del diritto naturale, in cui approfondiamo altresì il concetto di natura umana, i diritti fondamentali della persona, le gravi conseguenze che si corrono quando il relativismo - inteso come negazione dei valori - trasferisce le sue istanze dal piano culturale e sociale a quello civile-politico, col positivismo giuridico. Possiamo qui accennare, però, che nell'ambito politico esiste un "relativismo" apprezzabile, quello che riconosce la precarietà e la contingenza storica delle realtà politiche, contro ogni ideologia di Stato assoluto.
Nel nostro articolo Quali "valori"?, inoltre, abbiamo tratteggiato una cultura dei valori (in particolare sociali e politici), in grado di offrire le risposte migliori ai bisogni della società di oggi. Abbiamo cercato di capire quali siano - concretamente - i "valori" da più parti invocati.
Valori e fede.
Abbiamo sin qui cercato il fondamento dei valori in un metodo - la ragione - e in un fondamento - la natura umana - che sono patrimonio di tutti gli uomini. I valori comuni, pertanto, che non si identificano con la Verità di Fede, possono emergere non solo come oggettivamente validi, ma anche come condivisibili da tutti, credenti e non credenti.
Ciò non significa che la fede religiosa non possa avere un ruolo anche nel dibattito pubblico e nella scoperta dei valori che investono la dimensione socio-culturale e quella politico-giuridica. Una corretta visione della laicità ci insegna che l'apertura al piano soprannaturale fonda la dignità della persona, sostiene la ragione nell'individuazione dei valori, impedisce che la società politica trovi in se stessa l'unico fondamento (esponendosi al rischio del totalitarismo).
Non sempre la ragione ha trovato in sé le risorse per guardare al bene dell’uomo. I limiti dell'illuminismo (enfasi sulla ragione soggettiva) sono dovuti principalmente, abbiamo visto, al suo essersi posto come "secolarismo", cioè come tentativo di estromissione del sacro dall'orizzonte dell'uomo moderno.
Se a questi limiti può porre rimedio un pensiero umanista sinceramente aperto al trascendente e al senso del limite dell'uomo, ancor più illuminante può essere il contributo della fede e del pensiero che la elabora.
Sul tema specifico del rapporto tra conoscenza e verità, e dei rischi del relativismo, un insostituibile contributo è stato fornito da un'enciclica come la Veritatis splendor di Giovanni Paolo II.
Queste constatazioni devono indurre ad un nuovo dialogo, tra credenti e non credenti, che sia razionale ma non escluda l’orizzonte religioso; un dialogo, come ha detto Papa Benedetto XVI (capovolgendo la formula di Grozio), “veluti si Deus daretur”: “come se Dio esistesse”.