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Economia - Notizie e Commenti
Pensioni: una riforma... contro i giovani Stampa E-mail
I danni dell'abolizione dello "scalone". Come funziona il sistema a "capitalizzazione"
      Scritto da Giovanni Martino
20/12/05
Ultimo Aggiornamento: 20/07/16

Con il voto di fiducia ottenuto sulla cosiddetta "riforma del welfare" il Governo Prodi ha approvato la nuova disciplina delle pensioni, che abolisce il cosiddetto "scalone" (l'innalzamento obbligatorio dell'età pensionabile a partire dal 1 gennaio 2008), voluto dalla precedente riforma Maroni.

Tutti in pensione prima, tutti più felici?
Neanche per sogno. Innanzitutto, vanno in pensione prima soltanto alcune decine di migliaia di lavoratori; per gli altri, l'età pensionabile resta più alta. C'è poi un grande aggravio di costi per il bilancio dello Stato, che significa più tasse, e meno risorse per investimenti e spese sociali davvero utili; ciò ha determinato le critiche di tutti gli organismi internazionali, che denunciano come questo provvedimento di abbassamento dell'età pensionabile sia un caso unico al mondo. Infine, si protrae una grande ingiustizia a danno dei giovani.

Ma spieghiamo bene il perché.

Il problema pensioni, in Italia, non riguarda tanto gli anziani quanto, purtroppo, i giovani.
Oggigiorno, infatti, un giovane non deve preoccuparsi solo del suo lavoro, ma anche della sua pensione. Il futuro non è affatto tranquillo per chi ha iniziato a lavorare da pochi anni, o deve ancora farlo: un giovane che versa regolarmente i suoi contributi, prenderà una pensione dall’ammontare più basso che in passato (se il sistema non sarà collassato nel frattempo...).

Sono gli effetti del sistema costruito dalla riforma Dini del 1995, approvata da tutto il Parlamento (compresa la sinistra) con il consenso dei sindacati, per mettere una prima toppa ad una situazione precedente economicamente insostenibile. La riforma era però incompleta: drastica con i giovani, fu molto timida verso i lavoratori di quel periodo e le loro aspettative pensionistiche.

La prima novità fondamentale introdotta era il cambiamento del criterio di calcolo delle pensioni, e quindi una riduzione dell'ammontare delle stesse. Questo cambiamento (vedremo più avanti in che cosa consiste) fu molto timido, perché conservò il vecchio sistema - considerato "diritto acquisito" - non solo per chi era già in pensione, ma anche per chi lavorava da più di diciotto anni. Per cui abbiamo ereditato un’iniqua disparità di trattamento tra cittadini: alcuni – quelli che hanno iniziato a lavorare prima del 1977 – percepiscono o percepiranno una pensione notevolmente più alta (perché calcolata con un criterio diverso) di quella che potranno percepire i giovani! 

La seconda novità fu l'innalzamento progressivo dell'età pensionabile: l'Italia era - è - il Paese in cui si va in pensione prima. Percepire pensioni in età ancora lavorativa (e quindi in misura spropositata rispetto ai contributi versati) è un privilegio che stava prosciugando le risorse necessarie a pagare in futuro la pensione alle attuali giovani generazioni. Andare in pensione più tardi serve a rendere più sostenibile il sistema. (Anche se - bisogna aggiungere - i gravi squilibri causati dall'invecchiamento demografico potranno essere tamponati solo se ci sarà un decisa ripresa delle nascite).
Ma anche questo innalzamento fu programmato in maniera così "progressiva" da durare.. venticinque anni! Per cui - di nuovo disparità di di trattamento - lo subiranno i giovani, ma non lo hanno subìto molti lavoratori dal 1995 ad oggi.

Sull'innalzamento dell'età pensionabile si poteva - si può - ancora intervenire: accelerare l'innalzamento, chiedere di lavorare a chi è in grado di farlo (come verrà chiesto ai suoi figli...) non è certo un sopruso sociale.

La nuova riforma del 2004 (la cosiddetta riforma Maroni), che doveva entrare in vigore nel 2008, era dunque necessaria e sacrosanta: possiamo dirlo senza ipocriti equilibrismi. Il rimprovero che si poteva fare a questa riforma, semmai, era di essere ancora un po’ “leggera”, di non aver cancellato tutte le iniquità ereditate. Altro rimprovero da rivolgere al Governo Berlusconi è quello di non aver avuto il coraggio di far partire subito la riforma, rinviandone l'applicazione - con il tacito accordo dei sindacati - a dopo le elezioni, al gennaio 2008, data in cui doveva scattare il cosiddetto "scalone" (cioè l'elevazione da 57 a 60 anni dell'età minima di pensionamento per chi non ha raggiunto il massimo dei contributi). Questo rinvio ha dato modo ai sindacati - soprattutto alla CGIL - e alla sinistra radicale di tentare il boicottaggio della riforma.

Nell'ottobre 2006 il presidente del Consiglio Prodi annunciava che si sarebbe dovuto modificare ancora la riforma per aumentare i risparmi. Salvo rimangiarsi la parola sotto la pressione di sindacati ed estrema sinistra: ed ecco la controriforma del 2007, venuta dall'accordo con le "parti sociali" per l'abolizione dello "scalone", sostituito da tanti "scalini" che significano concretamente abbassamento dell'età pensionabile (caso unico al mondo, come ha rilevato il commissario europeo Almunia) per alcune decine migliaia di lavoratori e costo aggiuntivo di 7,5 miliardi di Euro. Pagano i giovani lavoratori, naturalmente.

Il calcolo di questo costo aggiuntivo viene da una fonte 'insospettabile', il rapporto 2007 del Nucleo di valutazione sulla spesa previdenziale del Ministero del Lavoro. Il quale ha evidenziato altresì che l'incidenza della spesa pensionistica sul PIL, dal 13,65% di quest'anno (già la spesa più elevata d'Europa) salirà al 15,3% nel 2038, per ridiscendere al 13,9% nel 2050: un onere che peserà sulle future generazioni per oltre quarant'anni!

C’è chi aveva parlato dell'innalzamento dell'età pensionabile come di un attentato ai diritti dei pensionati (!?) Rispettiamo la libertà di opinione, ma ci sembra davvero che questo tipo di critiche possano venire solo da chi non sa di cosa parla, o da chi difende in maniera miope ed egoista i suoi piccoli interessi.

Se qualche lettore ha un po’ di pazienza, proveremo a far parlare i fatti, a scovare dove stava (con il sistema precedente la Riforma Dini del 1995) la “fregatura” per i nuovi lavoratori. E cosa si può ancora fare per ristabilire un minimo di equità e di sostenibilità del sistema.

Per capire meglio, dobbiamo innanzitutto esaminare come si ottiene una pensione.

Ogni lavoratore versa obbligatoriamente (o gli vengono trattenuti in busta paga se è dipendente) i “contributi”, cioè una percentuale del reddito lavorato che viene accantonata sino al termine della vita lavorativa. A quel punto l’ex lavoratore inizierà a percepire una pensione, ovvero un reddito mensile per il resto della sua vita.

Ma come si calcola la pensione?

Bisogna anzitutto distinguere il metodo di finanziamento dal metodo di calcolo.

Il metodo di finanziamento di un sistema pensionistico è a "capitalizzazione" quando i contributi sono accantonati in un fondo,  privato o pubblico. L'insieme di questi contributi viene impiegato sui mercati finanziari e costituisce il "capitale" da cui attingere le risorse per finanziare le pensioni di chi ha versato i contributi.
Si ha invece un sistema a "ripartizione" se i contributi versati dai lavoratori attivi sono utilizzati per finanziare i trattamenti di chi è già in pensione (i contributi versati dai lavoratori vengono “ripartiti” tra i pensionati nello stesso periodo).
I sistemi previdenziali pubblici sono generalmente a ripartizione, per evitare che i capitali accantonati siano soggetti ai rischi finanziari degli investimenti o ai picchi inflazionistici
. 

Quanto al metodo di calcolo, quello più semplice, più logico, è quello “contributivo”. Ciò vuol dire che al termine della vita lavorativa il calcolo del trattamento sarà effettuato in base all'ammontare dei contributi" versati dal lavoratore, ossia si farà la loro somma (rivalutata per gli anni trascorsi dal momento del versamento a quello della pensione). In base all’età in cui si va in pensione, si calcolerà di quanti anni (e quanti mesi) è l’aspettativa di vita del pensionato, e quindi quanti “ratei pensionistici” (la somma mensile della pensione) presumibilmente gli spetteranno. Quindi, dividendo (approssimativamente: anche qui c’è da fare una complicata serie di calcoli sulle rivalutazioni) il capitale per il numero di ratei da erogare, si otterrà l’ammontare della pensione. Se il pensionato vive più a lungo di quanto dice l’aspettativa di vita media, continuerà a percepire la sua pensione, e ci “guadagnerà”: avrà percepito, al termine della sua vita, più soldi di quelli versati con i contributi quando lavorava. Se invece vive di meno, ci guadagnerà l’ente pensionistico (o l’assicurazione privata a cui si sono versate le rate di una polizza previdenziale: il meccanismo è simile). In questo sistema c’è un elemento di equità (la pensione di ognuno dipende da contributi da lui versati), ma anche un elemento di solidarietà: i soldi per i pensionati che vivono di più verranno dai contributi versati dai pensionati vissuti di meno. Il sistema nel suo insieme raggiunge un equilibrio, e garantisce una solidarietà tra soggetti diversi; se invece ognuno dovesse semplicemente risparmiare da sé e poi spendere i soldi risparmiati, molti anziani – perché non hanno risparmiato abbastanza, o perché vivono a lungo ‑ si troverebbero ad aver speso tutti i proprî risparmi e a non saper più come tirare avanti. Con questo sistema, l’ammontare della pensione ricavata dai contributi obbligatorî corrisponde ad una percentuale che va dal 50 al 70% dell’ultimo reddito; chi ne vuole una più alta dovrà costruirsi una previdenza integrativa: contributi volontarî, fondi pensione, polizze previdenziali private.

Il sistema a capitalizzazione è quello in parte introdotto dalla cosiddetta “Riforma Dini”, approvata nel 1995. Come funzionavano le cose prima?

Il sistema precedente (ma per alcuni lavoratori ancora in vigore), disegnato nel secondo dopoguerra, è quello “retributivo”. Ogni pensionato ha versato – durante la sua vita lavorativa ‑ i contributi, ma l’ammontare della sua pensione non viene calcolato sull’insieme dei contributi versati, bensì sulle ultime retribuzioni. Esiste una serie di parametri da rispettare (un numero minimo di anni di contributi versati, ecc.), resi col tempo più rigidi. Ma, lo ripetiamo, l’importo della pensione non è calcolato sui contributi effettivamente versati, bensì come percentuale (100% o 80%) sugli ultimi redditi. Il che significa che la somma di tutte le pensioni percepite da un pensionato è ben maggiore (in media il doppio!) della somma di tutti i contributi dallo stesso versati quando lavorava. Non stiamo parlando, si badi bene, di pochi privilegiati, ma del pensionato “medio”.

Altra particolarità: sino ad oggi bastavano 35 anni di contributi e 57 anni d'età (c’è stato un periodo in cui bastavano anche 20 anni di contributi senza limite minimo d'età…) per andare in pensione col massimo dell’importo (cosiddetta pensione di anzianità), se non si voleva attendere l’età massima di pensionamento (alla quale si ha diritto alla pensione di vecchiaia). Per cui abbiamo baldi pensionati poco più che cinquantenni, magari intenti a fare un lavoro nero per “arrotondare”… Attenzione: questo delle pensioni di anzianità è un istituto che esiste solo in Italia: all’estero bisogna per forza aspettare l’età di 60 o 65 anni (e si parla di aumentarla). Così come solo in Italia abbiamo un meccanismo di calcolo delle pensioni tanto favorevole (100% o 80% dell’ultima retribuzione); all’estero esistono trattamenti del 55-65%, e stanno cercando di ridurli perché non vogliono attendere che la situazione precipiti come da noi.

Un sistema come questo, in cui quasi tutti (tranne qualche poveretto che muoia precocemente) prendono in pensione più soldi di quelli che hanno versato durante la vita lavorativa, come ha potuto reggersi in piedi? Semplice. Quando è stato pensato, la durata della vita era meno lunga: si moriva prima, per cui era più breve il periodo in cui si percepiva la pensione. Inoltre, eravamo in un periodo di alta natalità, con una bassa età media della popolazione. Per ogni pensionato esistevano cinque lavoratori. Materialmente, come abbiamo detto, il sistema paga le pensioni di pochi attingendo ai contributi dei molti che lavoravano in quello stesso momento (finanziamento a ripartizione). Per cui la pensione di chi lavorava avrebbe dovuto essere garantita con i contributi che, trent’anni dopo, sarebbero stati versati dai futuri lavoratori. Ma il numero di questi futuri lavoratori avrebbe dovuto continuare a moltiplicarsi, per tenere in piedi il sistema, se il metodo di calcolo è retributivo. E invece ci siamo ritrovati col calo delle nascite, l’invecchiamento della popolazione, un rapporto tra pensionati e lavoratori che è ormai prossimo alla parità (un pensionato per ogni lavoratore). Quello che era equo e sostenibile allora, è diventato iniquo e insostenibile negli ultimi anni.

Pertanto, bisognava di corsa passare al sistema contributivo, per garantire l’equilibrio. Ma che cosa ha fatto nel 1995 la Riforma Dini? Ha optato per un passaggio graduale, che si sarebbe completato solo nel 2020. Per cui sono attualmente in vigore tre sistemi: quello retributivo, garantito tuttora ai lavoratori che nel 1995 avevano già versato 18 anni di contributi; un sistema misto (“pro rata”), per chi aveva già iniziato a lavorare, ma da meno di 18 anni; e quello contributivo, per chi ha cominciato a lavorare dopo il 1995. Questo pasticcio ha impedito di risanare con la necessaria velocità il quadro complessivo (che è ormai prossimo al collasso), rendendo necessario un ulteriore intervento. In più ha creato un’iniqua disparità di trattamento tra cittadini: giustizia avrebbe richiesto almeno l’estensione del sistema pro rata a tutti quelli che già lavoravano.

Ecco dunque la “fregatura” che hanno ereditato i giovani, quelli che hanno iniziato a lavorare dopo il 1995. Non solo si trovano ad essere trattati in maniera più sfavorevole rispetto ad altri cittadini privilegiati (quelli che nel 1995 avevano già 18 anni di anzianità contributiva); ma devono versare i proprî contributi per pagare oggi la pensione di altri, senza sapere se loro stessi potranno percepire domani la pensione – pur piccola ‑ promessa.

La riforma approvata nel 2004 non aveva esteso a tutti il sistema contributivo. Per quelli che conservano il sistema retributivo o misto, aveva semplicemente innalzato a 60 anni l’età per godere la pensione di anzianità (a partire dal 2008, e fatta eccezione per alcuni lavori “usuranti” e per chi ha comunque 40 anni di contributi). Ciò al fine di rendere più sostenibile il peso dei trattamenti erogati a coloro che continuano ad andare in pensione col metodo retributivo. Si voleva evitare che la spesa previdenziale diventi un buco nero che risucchia tutta la spesa sociale e compromette i diritti delle future generazioni. Il legislatore, in sostanza, aveva detto ai lavoratori più vicini alla pensione: continueremo a garantirvi una pensione più alta di quanti verranno dopo di voi; ma almeno vi chiediamo di lavorare più a lungo, visto che oggigiorno il sessantenne non è più un anziano incapace di lavorare. I più giovani, quelli che sono in regime contributivo, per la pensione di anzianità dovranno aspettare - dal 2014 - i 62 anni.

L’unica critica che si poteva fare a quella riforma, dunque, è che non aveva avuto il coraggio di essere abbastanza severa, di vincere resistenze prive di buon senso. Intendiamoci: non ce l’abbiamo con i nostri padri, che godono di una pensione calcolata col vecchio metodo: quel metodo è stato deciso in un momento storico in cui era sostenibile. Ce l’abbiamo con chi si ostina a difendere tale metodo anche oggi che è assurdo riproporlo.

E invece, come detto inizialmente, il Governo Prodi ha voluto di nuovo rallentare l'innalzamento dell'età pensionabile. Beneficeranno di questo provvedimento i lavoratori che al 1 gennaio 2008 hanno compito i 58 anni (ci sarà nel tempo un ulteriore innalzamento graduale) ma non ancora i 60. Come detto, alcune decine di migliaia di lavoratori, che però costano una fortuna alle casse dello Stato; o, meglio, ai contributi versati da chi continua a lavorare.

L'obiettivo di un ulteriore fase della riforma dev'essere di estendere il sistema contributivo a tutti (almeno col meccanismo pro rata) il prima possibile; e, nel frattempo, la quota percepita secondo il vecchio sistema dev'essere legata a limiti d'età più alti (quasi ovunque, in Europa, si tende ai 65 anni) e uguali per uomini e donne, le quali vivono più a lungo, e vanno in pensione prima... Mandar le lavoratrici in pensione presto significa consentir loro di fare le nonne ed aiutare le figlie che lavorano, visto che mancano politiche di sostegno alla famiglia? E' vero solo in alcuni casi, ed è comunque una soluzione cervellotica e ipocrita: realizziamo finalmente queste benedette politiche di sotegno alla famiglia!
L'unica differenza di trattamento pensionistico può essere pensata per le donne che hanno avuto figli, estendendo il beneficio ai fini pensionistici (periodo valido come contribuzione o per la diminuzione dell’età di pensionamento): dagli attuali tre mesi per ogni figlio, previsti dalla riforma Dini, ad almeno due-tre anni (parallelamente all'equiparazione dell'età di riferimento a quella maschile).

Si è sentito dire che le cose si possono sistemare facilmente, attingendo, per alcune prestazioni sociali, ai fondi fiscali anziché a quelli previdenziali; si è detto anche che, prima di prendere provvedimenti, “bisogna aspettare” (quando sarà troppo tardi?), bisogna capire bene quando ci sarà la “gobba” (eufemismo per dire il crollo). Si tratta di un arrampicarsi sugli specchi, di un nascondersi dietro aspetti marginali, che rivela la sua inconsistenza dopo che abbiamo descritto – per chi ha avuto la pazienza e l’attenzione di seguirci – il quadro reale della situazione. Per non parlare delle falsità di chi ha detto che si vogliono tagliare le pensioni (gli importi delle pensioni non vengono toccati, si sposta solo di un po’ l’età pensionabile).

Le critiche alla riforma del 2004 erano solo la cortina di fumo di chi vuole difendere un piccolo privilegio: andare in pensione relativamente presto (visto l’allungarsi della vita media), mantenendo per intero un’elevata rendita pensionistica.

Si è fatta anche molta retorica sul "diritto" di andare in pensione dopo che si è lavorato e ci si è "usurati" tanti anni. Ammesso e non concesso che andare in pensione a 58 anni col massimo della pensione sia un “diritto” che prescinde da ogni compatibilità economica, ci chiediamo: perché questo “diritto” devono averlo solo quelli che nel 1995 avevano già lavorato? I giovani non si "usurano"? E i lavoratori degli altri Paesi?

Si può convenire che i lavori "usuranti" richiedano un trattamento di favore, purché siano davvero tali e rigidamente individuati, come del resto accade nelle tabelle vigenti: minatori, palombari, addetti allo smaltimento dell'amianto, operai delle fonderie o dei reparti di verniciatura, ...

Se non bastasse l’analisi del meccanismo di calcolo delle pensioni a convincerci dell’ineluttabilità di una riforma, potrebbe essere utile il semplice confronto col sistema pensionistico ed assistenziale degli altri Paesi. Abbiamo già visto che altrove l’età pensionabile è più alta, e gli importi percepiti più bassi. Ma non perché noi siamo più “buoni”. Semplicemente, in Italia la spesa previdenziale (per le pensioni) si mangia buona parte delle risorse pubbliche destinate alla spesa sociale e assistenziale: più soldi per le pensioni significa meno soldi per la salute, per la scuola, per i disoccupati, per le famiglie numerose, per i disabili. E per i pensionati di domani.

Vogliamo infine confutare un ultimo luogo comune invocato da chi sostiene l'utilità dei pensionamenti anticipati: ciò favorirerebbe l'inserimento dei giovani disoccupati. Ebbene, si tratta di una grande fesseria, che gli economisti chiamano "errore del lavoro in blocco", cioè l’idea che vi sia una quantità fissa di reddito producibile e, quindi, di lavoro da distribuire. E' la stessa idea che ha timore della meccanizzazione (perché decurterebbe quella quantità di lavoro fissa), o che predica "lavorare meno, lavorare tutti".

In realtà, il reddito non è fisso, ma aumenta ogni anno; ed aumenta anche grazie alla creazione di nuovi e diversi posti di lavoro. Se i posti di lavoro fossero fissi, negli ultimi trent'anni non avremmo avuto l'ingresso sul mercato del lavoro di dieci milioni di nuovi occupati, di cui otto milioni di donne! E questo nonostante un aumento dell'età pensionabile che in parte c'è già stato; nonostante la grande informatizzazione e meccanizzazione dei processi produttivi, che hanno eliminato vecchie tipologie di lavoro (per combattere la disoccupazione bisognava mantenere in vita la figura del "fabbricante di ghette"?). Si noti altresì che Paesi come Stati Uniti e Giappone, che hanno orarî di lavoro molto più elevati di quelli dell’Europa continentale, hanno tassi di disoccupazione molto più bassi...

Tornando alle proposte di vera riforma delle pensioni, tra i più critici (oltre alla parte più oltranzista e meno responsabile dell’opposizione) vi sono i sindacati (anche se nel 2004 non hanno fatto vere e proprie barricate, né proclamato scioperi generali). Il fatto è che, in un momento di crisi di consenso tra i lavoratori, hanno il maggior numero di iscritti tra i pensionati (ed aspiranti tali) ...

Poiché, come detto, l’ammontare delle future pensioni oscillerà tra il 50 e il 70% dell’ultimo reddito, chi non vuole ridurre troppo il suo tenore di vita dovrà costruirsi una previdenza integrativa: contributi volontarî, fondi pensione (c.d. secondo pilastro), polizze previdenziali private (c.d. terzo pilastro). 

L’altro necessario aspetto della riforma previdenziale (oltre all’innalzamento dell’età pensionabile), dunque, è la riforma del TFR (Trattamento di fine rapporto: la c.d. liquidazione).

In conclusione. Un sistema pensionistico più equo, che dia la pensione in proporzione ai contributi versati (salvo casi eccezionali di disagio) merita il sostegno attento delle nuove generazioni ‑ le più danneggiate dal vecchio sistema –, ma anche di tutte le persone che hanno a cuore la giustizia e il futuro del nostro Paese.



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