Il gennaio 1993 fu un mese molto freddo. Lo ricordo chiaramente perché tutte le domeniche di quel mese, di buon mattino, con alcuni amici allestivo i banchetti per la raccolta di firme per i “referendum Segni”; referendum che volevano modificare il sistema elettorale allora vigente (di tipo proporzionale puro) introducendo un nuovo sistema di tipo maggioritario, che garantisse maggiore governabilità. Fu una bella fatica, affrontata però con entusiasmo e con la soddisfazione di vedere un grande riscontro da parte dei cittadini.
Ricordo quell’episodio perché mercoledì scorso il Parlamento ha approvato un nuovo sistema elettorale “misto” (proporzionale con premio di maggioranza), al termine di un aspro dibattito tra maggioranza ed opposizione; tra i critici della nuova legge c’è chi ha parlato anche di “tradimento” della volontà popolare espressa in quel referendum. Non sono d’accordo con questa tesi, e proverò a spiegarlo più avanti analizzando i contenuti della riforma.
L’intensità delle polemiche è comprensibile se si pensa che il sistema elettorale determina in concreto l’equilibrio di forze (e di potere) tra i diversi partiti, e quindi il contenuto delle leggi che un nuovo Parlamento approverà. Bisogna però capire se le critiche fatte alla riforma appena approvata siano fondate o meno.
L’obiezione principale mossa è quella che le “regole del gioco” non si cambiano a maggioranza, ma richiedono ampi consensi. Obiezione simile è stata mossa rispetto alla riforma costituzionale: nell’articolo su La riforma costituzionale esprimiamo più in dettaglio la nostra posizione, che qui riassumiamo in estrema sintesi: sarebbe stato certo auspicabile un consenso più largo, ma non si può parlare di leggi “antidemocratiche” se vengono seguite le regole. Il diritto di veto paralizzante di una minoranza – quello sì – non è democratico.
Del tutto infondata è la tesi secondo cui “le regole del gioco non si cambiano a partita iniziata”, cioè subito prima delle elezioni. In realtà, tutte le leggi elettorali si cambiano subito prima di elezioni: se ciò non avvenisse a fine legislatura, sarebbe necessario ricorrere ad elezioni anticipate, perché un nuovo sistema elettorale “delegittimerebbe” il parlamento eletto con il vecchio sistema (come nel 1994).
Un’altra critica bislacca è quella secondo cui la nuova legge sarebbe “anticostituzionale”: ebbene, posto che non c'é nulla di più democratico del sistema proporzionale, non si capisce come potrebbe essere "incostituzionale" un sistema che nella Repubblica è già stato in vigore per quasi cinquant'anni!
I giudizi sulla legittimità di una tale riforma sembrano più che altro un polverone. Ciò che ci sembra importante è guardare i contenuti, capire se si tratta di una buona legge. E se passiamo ai contenuti, ci sembra che regga poco l’accusa di aver voluto una legge di parte: per il sistema proporzionale si sono espressi in passato quasi tutti i partiti che compongono l’attuale coalizione di centro-sinistra. I quali hanno votato contro la riforma, ma hanno già avvertito Prodi che non saranno disposti, nella prossima legislatura, a tornare al vecchio sistema!
Più in dettaglio: cosa prevede la riforma? Si sente parlare di “ritorno al proporzionale”, ma a noi sembra preferibile usare l’espressione “sistema misto”, perché questo sistema contiene un premio di maggioranza che gli dà una connotazione “maggioritaria”. Spieghiamoci meglio: il sistema introdotto è “proporzionale” perché gli elettori troveranno sulla scheda le liste dei partiti, e potranno esprimere il voto per il partito preferito; i seggi parlamentari saranno assegnati ai diversi partiti in proporzione ai voti ottenuti. In questo modo le idee dei cittadini – del popolo, se ci perdonate l’enfasi – saranno correttamente rappresentate.
La proporzione tra seggi parlamentari e voti ottenuti non sarà però “pura”, perfetta, come era col vecchio sistema in vigore fino al 1993. Infatti, una quota di seggi – premio di maggioranza – sarà assegnata alla coalizione di partiti che avrà ottenuto più consensi, garantendo una maggioranza parlamentare del 55% dei seggi.
Lo scopo di queato premio, in primo luogo, è di indurre i partiti a coalizzarsi prima delle elezioni, sottoponendo in maniera trasparente alleanze e programmi di governo al giudizio degli elettori (ed evitando quindi le politiche delle “mani libere” post-elettorali).
In secondo luogo, il premio di maggioranza dovrebbe garantire la governabilità e limita il potere di ricatto di piccoli gruppi.
A limitare il potere di ricatto e la frammentazione della rappresentanza provvedono anche gli sbarramenti: per avere eletti, un partito deve avere almeno il 2% dei voti su base nazionale alla Camera, o il 3% su base regionale al Senato (percentuali più alte sono previste se non si appartiene ad una coalizione: anche qui per favorire l’aggregazione).
La governabilità è assicurata anche dal “premierato” approvato con la riforma costituzionale, la quale si integra così con la riforma elettorale (la riforma costituzionale è stato però successivamente bocciata nel referendum confermativo, ndr).
Se questo sistema può essere definito in parte “maggioritario”, in che cosa si differenzia dal precedente?
Il sistema fino a ieri in vigore era un maggioritario di tipo “uninominale”. I collegi elettorali erano molto più piccoli e numerosi: in ogni collegio ogni partito o coalizione candidava una sola persona e non una lista di candidati, perché veniva eletto un solo parlamentare, quello che prendeva più voti degli altri (anche senza raggiungere il 51%). I voti dei candidati non eletti, in pratica, andavano “sprecati”, non trovavano rappresentanza. Questo sistema teoricamente aveva il pregio di produrre una specie di premio di maggioranza molto forte: un partito che avesse avuto una forza superiore agli altri, distribuita nel Paese, avrebbe ottenuto una maggioranza parlamentare sicura. Ma il sistema uninominale aveva anche molti inconvenienti.
La maggioranza parlamentare rischiava di essere schiacciante, di togliere rappresentanza alle minoranze: un partito, che avesse avuto il 51% dei voti (o anche meno, visto che era sufficiente la maggioranza relativa) ovunque, avrebbe fatto l’asso pigliatutto, ottenendo il 100% dei seggi! Ed in parte è già successo, a livello regionale: esistono regioni “rosse” dove gli eletti sono praticamente tutti di sinistra, altre dove gli eletti sono tutti di centro-destra. In nome della governabilità viene sacrificata la democrazia.
Cosa che non succede con il nuovo sistema, il quale abbina governabilità (grazie al premio di maggioranza) e rappresentanza democratica (col proporzionale).
Si aggiunga che l’effetto “asso pigliatutto” nei singoli collegi, possibile con il vecchio sistema, poteva produrre effetti paradossali: se un partito vinceva in un collegio col 51% (o meno), eleggeva un parlamentare allo stesso modo del partito avversario che in un altro collegio vinceva – poniamo – col 99%. Ne conseguiva che, a livello nazionale, chi vinceva in qualche collegio in più con scarti limitati, perdendo in molti collegi con scarti abbondanti, poteva avere una maggioranza parlamentare pur avendo avuto meno voti. Fantapolitica? No, è proprio quello che è successo nel 1996, quando l’Ulivo di Prodi ha ottenuto la maggioranza nel Parlamento pur avendo ottenuto meno voti del Polo della Libertà!
Il nuovo sistema, almeno alla Camera (per il Senato vedremo oltre), non consente ciò: vince in parlamento chi ha avuto più voti nel Paese.
Inoltre, il sistema uninominale risentiva delle disomogeneità territoriali. Forze politiche territorialmente forti (come la Lega Nord) potevano scompaginare le carte. Cosicché c’era sia la possibilità di una maggioranza parlamentare schiacciante, sia quella di una maggioranza risicatissima (vedi 1996). Infatti, l'uninominale non è utilizzato in quasi nessun Paese del mondo; e nei Paesi di tradizione anglosassone dov'è utilizzato, se non sono omogenei (Canada, India), la governabilità non è affatto assicurata.
Il nuovo sistema, invece, garantisce alla Camera una maggioranza non eccessiva, ma sicura.
Un ulteriore grave difetto del sistema uninominale era che consentiva ai piccoli partiti un grande potere di ricatto. Potrebbe sembrare una valutazione sorprendente, visto che secondo un’opinione diffusa l’uninominale premia i partiti grandi e penalizza quelli piccoli, i quali non hanno nessuna possibilità di farcela da soli. Il fatto è che l’uninominale è adatto a pochi Paesi (come la Gran Bretagna) dove è già consolidata la presenza di soli due o tre partiti. Laddove ce ne sono di più, succede che l’effetto “assopigliatutto” – che potremmo definire anche “vinci o muori” – spinge le coalizioni a “raccattare” ogni consenso possibile pur di non perdere, e dà quindi un grande potere di ricatto a formazioni piccole e anche estreme. Il dato di fatto, in ogni caso, è che i partitini in Italia sono aumentati con l'avvento dell'uninominale.
Col proporzionale, invece, chi sa di non rischiare la disfatta o la sparizione può avere più coraggio nel rifiutare alleanze innaturali (anche se questo è un effetto benefico per cui forse si dovrà aspettare la prossima legislatura). Lo sbarramento, inoltre, pur non essendo troppo penalizzante (in altri Paesi è più alto), evita la frammentazione eccessiva.
Alcuni fautori dell'uninominale segnalano che il potere d'interdizione dei piccoli partiti verrebbe meno col doppio turno. Ma si tratta di una soluzione troppo radicale, che taglia completamente fuori tutte le forze non solo piccole, ma anche intermedie. Senza peraltro eliminare gli altri difetti dell'uninominale che abbiamo esaminati: disomogeneità territoriale, sacrificio della rappresentanza democratica (col rischio per la minoranza di restare senza eletti, o che chi ha meno voti nel Paese abbia la maggioranza parlamentare). A meno che non si voglia l'eliminazione totale dei partiti, i quali sono un elemento di trasparenza (perché si presentano agli elettori con un’identità culturale precisa) e di partecipazione democratica (perché consentono ai cittadini di non essere coinvolti solo nel momento elettorale). L’alternativa dell'uninominale è il personalismo senz’anima dei notabili, dei nepotisti, dei trasformisti, dei lobbisti, degli ex-magistrati giustizieri, degli industrialotti capaci di sostenere sontuose campagne elettorali; in un tale personalismo i contenuti sono annacquati in fumosi “programmi” che nessuno legge e sulla cui attuazione nessuno vigila. Se la società non è omogenea, i cittadini che non si sentono rappresentati non vanno a votare (come accade negli Stati Uniti)...
Per curare la degenerazione (la partitocrazia) esistono altri metodi che non siano l’uccisione del paziente (la società democratica). Bisognerebbe riformare i partiti piuttosto che indebolirli; bisognerebbe liberalizzare le strutture dello Stato per proteggerle dalle interferenze indebite di qualsiasi origine (se le ingerenze non vengono più dai partiti, vengono, come già succede ora, da altri centri di potere meno individuabili e controllabili).
Qualcuno potrebbe muovermi un rilievo: come mai ho sostenuto i referendum del 1993 se sapevo che il sistema che ne sarebbe derivato ha tutti questi difetti? Beh, i referendum sono abrogativi, non propositivi. Spetta al Parlamento elaborare una nuova legge che cerchi di interpretare la volontà referendaria. La legge elettorale sino ad ieri vigente – il c.d. Mattarellum – fu un’interpretazione un po’ pasticciata, che cercava di mediare tra le diverse aspettative di coloro che avevano sostenuto la campagna referendaria. L’aspettativa comune era di superare un sistema bloccato, che non consentiva ai cittadini di scegliere, con il partito, anche programma e governo. Ma questa aspettativa si poteva tradurre in molti modi; la legge proporzionale con premio di maggioranza appena approvata mi sembra una soluzione più efficace, anche se non prina a sua volta di difetti (come spiegherò più avanti). Niente “tradimento” dei referendum, dunque: nessuno deve furbescamente appropriarsi di un risultato che fu il frutto del lavoro di tanti.
Sulla correzione del meccanismo maggioritario si fonda l’altra accusa mossa da Prodi: il nuovo premio di maggioranza sarebbe troppo esiguo, la riforma sarebbe stata voluta dal centro-destra nel proprio interesse, temendo una sconfitta nel 2006 e volendo ridurre il margine di vittoria che il centro-sinistra si augura. Ma si può davvero definire “esiguo” un premio che assicura alla maggioranza il 55%?
L'accusa è di per sé priva di pregio, ma merita di essere ripresa perché diventa un’autodenuncia di impotenza politica. L'accusa di volere una legge ad personam può essere ribaltata verso Prodi: avendo un’alleanza variegata e divisa, solo con la vecchia legge poteva sperare (in ipotesi di vittoria) in una maggioranza parlamentare di molto superiore a quella effettiva, per poter “scaricare” Bertinotti dopo le elezioni e tentare di governare. Solo con la vecchia legge il Professore poteva dar rifugio – nei collegi uninominali, dove si presentavano solo i candidati di coalizione – agli esponenti dei numerosi piccoli partiti che lo tengono sotto scacco, e che temono di non raggiungere neanche il 2% ora che saranno sottoposti al giudizio degli elettori. Solo con il vecchio sistema poteva riuscire ad essere leader di coalizione un politico – ancora Prodi – che non ha una forza politica alle sue spalle. Solo con il vecchio sistema poteva essere bloccata artificiosamente la nascita di una forza politica di centro, capace di esprimere il sentimento della maggioranza degli Italiani (e per questo vissuta come un incubo a sinistra). I “conflitti di interessi” di Prodi e dell'attuale opposizione sono molto ben evidenziati nell’articolo Il maggioritario fa male di un “ultrà” di sinistra come Daniele Luttazzi. Non ci sembra quindi che possa ergersi a difensore dell’interesse generale chi cerca nelle alchimie dei meccanismi elettorali la stampella per un’alleanza divisa, per un progetto politico ed una leadership deboli.
La riforma che abbiamo tratteggiato è una riforma senza difetti? Va detto che non esiste il sistema elettorale perfetto, anche perché ogni sistema deve adattarsi alla realtà politica e sociale di un Paese. In ogni caso, pensiamo di poter individuare tre difetti che sarebbe possibile correggere.
In primo luogo, la nuova legge consente di scegliere il partito, ma non il candidato. Si vota su liste “bloccate”, senza voto di preferenza: in questo modo i vertici dei partiti conservano un grande potere, limitando l’ampiezza della scelta dell’elettore. Paradossalmente, questo è stato l’unico punto della legge non contestato dalla sinistra (l'unico partito a premere per l'introduzione della preferenza è stato l'UDC): il voto di preferenza è stato considerato da chi lo ha osteggiato un incentivo a spendere molti soldi in campagna elettorale, e quindi veicolo di inquinamento della politica. La preoccupazione è legittima, ma noi pensiamo che si possano trovare altri modi per moralizzare la politica, che non passino attraverso la limitazione delle scelte degli elettori. Anche perché la moralità è un requisito degli uomini, non delle forze politiche, e la possibilità di scegliere uomini onesti (se ne abbiamo voglia…) è il primo strumento di moralizzazione. Tuttavia, viene osservato da chi ha votato la legge, i partiti saranno indotti, se non vogliono perdere voti, a candidare personalità stimate (una speranza molto flebile, come hanno poi dimostrato i fatti, nda). Un altro e più “concreto” motivo per cui non è passato il voto di preferenza sarebbe – si vocifera – che con la preferenza molti attuali parlamentari, timorosi di non essere rieletti, non avrebbero votato la riforma…
Sia come sia, bisogna anche qui sottolineare che il potere dei vertici di partito non è una novità di questa legge, ma un’eredità della precedente, quando i vertici di coalizione si riunivano per assegnare i collegi ai candidati. Anzi, allora il potere dei cittadini era ancora più limitato: il palermitano doveva votare il candidato “paracadutato” dal Friuli, e viceversa; oppure il democratico cristiano doveva votare il leghista, o il comunista il candidato dell’UDEur…
Un secondo difetto, collegato al primo, è la possibilità per un candidato di essere capolista in più collegi, rinviando a dopo le elezioni la scelta del collegio di cui vuole essere rappresentante (che significa aumentare ulteriormente il potere dei vertici di partito, consentendo un sottile gioco per tenere sulle spine i primi dei non eletti dei diversi collegi, i quali subentrerebbero solo se il capolista sceglie di farsi eleggere da un'altra parte).
Il terzo difetto sta nelle soglie di sbarramento per i partiti che fanno parte delle coalizioni: 2% alla Camera e 3% al Senato. Troppo basse, non contrastano abbastanza la frammentazione politica. Servirebbe raddoppiare la soglia. Si tenga conto che queste soglie sono state una concessione alla sinistra, visto che proprio in quello schieramento c'erano più partiti che sarebbero restati sicuramente fuori con soglie più elevate: Verdi, PdCI, UdEur, Italia dei Valori, Socialisti. Se qualcuno sostiene ancora che si tratta di una legge su misura per il centro-destra...
Infine, un dubbio - più che un difetto - riguarda il fatto che la nuova legge garantisce con certezza la maggioranza alla Camera dei Deputati, ma non al Senato. Questo perché il premio di maggioranza, in ossequio al dettato costituzionale, viene assegnato su base regionale. Ciò può portare a maggioranze diverse da Regione a Regione e, teoricamente, ad una maggioranza diversa tra Camera e Senato. Bisogna però aggiungere che questa possibilità è una necessaria conseguenza del dettato costituzionale, non una novità della legge appena approvata. Tant’è che già nel 1994, con la precedente legge, il Polo non aveva ottenuto la maggioranza al Senato. Per intervenire, bisognerebbe modificare la Costituzione. Ma non è detto che si debba parlare di “difetto”, soprattutto con la riforma costituzionale che, assegnando al Senato poteri diversi dalla Camera, in qualche modo dà un senso ad una diversa modalità di elezione. I fatti ci diranno se saranno necessarî aggiustamenti.
Insomma, dal punto di vista delle regole sono stati fatti grandi passi in avanti. E’ ora però che le forze politiche vadano oltre, capendo che la via maestra per ottenere la vittoria elettorale è quella di presentarsi con un programma chiaro e credibile.
P.S.: come si è comportata la nuova legge alla prova dei fatti, dopo le elezioni 2006? A noi sembra ottimamente. Se il centrosinistra ha una maggioranza risicatissima al Senato, non può certo dare la colpa alla legge, ma al fatto che al Senato ha preso meno voti del centrodestra! Che tipo di democrazia sarebbe, quella in cui si pretendono maggioranze schiaccianti per chi prende meno voti? Questa stessa legge garantisce una comoda maggioranza di seggi alla Camera, dove pure il centrosinistra ha vinto per un'incollatura.
Insomma, non c’è nessuna legge elettorale che può rimediare all’ipotesi di una maggioranza diversa tra Camera e Senato. La soluzione o è politica – larghe intese – o è costituzionale: riforma che, eventualmente, privi il Senato della facoltà di dare e togliere la fiducia al Governo.
Inoltre, non si può prendere una legge come alibi delle proprie divisioni interne e dell'incapacità di raccogliere sufficienti consensi tra gli elettori. Si abbia il coraggio di presentari alle elezioni con maggioranza coese, rinunciando a "raccattare" tutto ciò che può portare consensi.
P.P.S.: dopo due elezioni (2006 e 2008), il giudizio sulla legge elettorale ci vede più tiepidi.
Ai difetti che avevamo già evidenziato, forse va aggiunto quello del premio di maggioranza. Che non è uno scandalo in assoluto (come l'assenza di preferenze), ma probabilmente non si attaglia alla storia e al quadro politico italiano.
Il premio di maggioranza, infatti, serve a rafforzare un assetto bipolare. Ma non può servire a costruirlo ex novo. Altrimenti la legge elettorale diventa funzionale a blindare - come una sorta di accanimento terapeutico - un bipolarismo raccogliticcio, basato su gruppi di potere; e viene strozzato l'emergere di forze nuove, capaci di costruire un nuovo assetto. Ne parliamo in un nuovo articolo.
Inoltre, la frammentazione e la crisi di fiducia nella politica esplose nel 2012 hanno fatto emergere una grave lacuna legata al premio di maggioranza: non è stata prevista una soglia minima di consensi per ottenerlo.
Si tratta di una "svista" legata al fatto che nel 2005, quando è stata pensata la legge, si fronteggiavano due schieramenti con percentuali di consenso superiori al 45%, e quindi con una legittimazione popolare: il premio era pensato solo per garantire al vincitore il margine per garantire la governabilità.
Con la successiva disgregazione del quadro politico, rischia di vincere le elezioni e di raggiungere il 55% dei seggi in parlamento una coalizione col 30-35% dei consensi (tra i votanti; se l'astensionismo è alto, la percentuale rispetto alla popolazione totale si abbassa di molto)! Il premio, allora, senza soglia minima per l'assegnazione, diventerebbe lo strumento per garantire il governo a coalizioni politiche prive di solida legittimazione popolare.