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Politica - Notizie e Commenti
La riforma costituzionale Stampa E-mail
Il progetto di Grande Riforma approvato in parlamento nel 2006 (e poi bocciato da un referendum)
      Scritto da Redazione
20/12/05
Ultimo Aggiornamento: 17/09/07

montecitorio_facciata.jpgIl Parlamento, nel dicembre 2005, ha approvato un'ampia riforma della Parte Seconda della Costituzione, quella sull'Ordinamento della Repubblica (resta naturalmente invariata la Parte Prima, quella sui Diritti e Doveri dei cittadini). Cosa sarebbe cambiato se tale riforma fosse entrata in vigore? (Ricordiamo che è stata poi bocciata dal referendum confermativo del 25/26 giugno 2006).

L'attenzione di molti si è diretta verso la redistribuzione dei poteri tra Stato e Regioni. La Lega Nord ha esibito questa riforma come una propria vittoria, come l'affermazione della "devolution"; la sinistra ha denunciato la rottura dell'unità nazionale. In realtà, la cosiddetta "devolution" - meglio: estensione delle autonomie e del principio di sussidiarietà - costituisce solo una parte minoritaria della riforma, e i suoi effetti, come vedremo oltre, non erano così dirompenti come si potesse credere (lo stesso Bossi ha ammesso, al di là degli entusiasmi di facciata: "portiamo a casa quello che è stato possibile ottenere").In sintesi, la nuova Costituzione prevedeva: un bicameralismo non più perfetto, con poteri e criteri di formazione diversi per Camera e Senato, ed una riduzione del numero dei parlamentari; il rafforzamento dei poteri del Primo ministro (c.d. premierato), anche con la norma anti-ribaltone, e una conseguente modifica dei poteri del Presidente della Repubblica; una distribuzione di competenze più precisa tra Stato e Regioni (c.d. federalismo o devolution), con l'introduzione del concetto di "interesse nazionale" anche per le materie di competenza regionale.

La riforma non sarebbe entrata in vigore subito. Essendo stato richiesto un referendum popolare confermativo, in caso di esito positivo avrebbero avuto subito effetto le norme sul federalismo e quelle collegate sull'interesse nazionale. Si sarebbe dovuto attendere il 2011 per vedere nascere il nuovo iter legislativo, il premierato e i nuovi poteri del capo dello Stato, il 2016 per il nuovo Senato federale.

Una critica di principio fatta dal centro-sinistra è stata quella che la riforma è stata approvata solo dalla maggioranza (allora di centro-destra). Ne parleremo oltre. Innanzitutto cerchiamo di capire se questa riforma conteneva aspetti positivi, da recuperare nel prossimo futuro, e che sarebbe sciocco rigettare solo per "una questione di principio". Sembra questo anche il parere di un autorevole esponente dei DS, l'ex senatore Franco De Benedetti, secondo il quale bisogna riconoscere che "premierato, devolution e Senato federale sono stati capisaldi dell'Unione"; meglio dunque non parlare di bocciatura, ma di eventuali modifiche migliorative.

Vediamo cosa prevedeva il progetto di riforma approvato.

IL PARLAMENTO. La Camera sarà l'organo legislativo che ha le competenze legislative generali, e sarà costituito da 518 deputati (oggi sono 630), di cui 18 eletti nelle circoscrizioni estere, oltre ai deputati a vita, nominati dal capo dello Stato, che potranno essere al massimo tre. L'età minima per essere eletti scende a 21 anni (adesso è 25). La Camera è eletta per cinque anni. Il Senato avrà competenza su un numero di materie più ristretto, in particolare quelle che riguardano i rapporti tra Stato e Regioni. Potrà però richiedere di esaminare anche altri progetti di legge. Il Senato è detto “federale” perché i senatori (252, mentre oggi sono 315), saranno eletti in ciascuna Regione insieme con l'elezione dei rispettivi consigli regionali. A questo numero si sommeranno i 42 delegati delle Regioni, che partecipano ai lavori del Senato federale senza diritto di voto: due rappresentanti per ogni regione più due per le Province autonome di Trento e Bolzano. Sarà eleggibile chi ha 25 anni (oggi 40 anni).

La divisione di poteri tra Camera e Senato snellirà l’azione legislativa. Ma le procedure (che qui sarebbe troppo lungo esaminare in dettaglio) per decidere nei casi in cui resta la competenza di entrambi, e soprattutto nei casi di competenza del Senato, sembrano un po’ farraginose.

PREMIERATO: Non c'è più il presidente del Consiglio, ma il Primo ministro. Nomina e revoca i ministri (adesso spetta al capo dello Stato, su proposta del premier), determina (e non più «dirige») la politica generale del governo e dirigerà l'attività dei ministri. Il Primo ministro non dovrà più ottenere la fiducia dalla Camera, ma dovrà soltanto illustrare il suo programma sul quale la Camera dei deputati esprimerà un voto. Inoltre potrà porre la questione di fiducia e chiedere che la Camera si esprima «con priorità su ogni altra proposta, con voto conforme alle proposte del governo». In caso di bocciatura deve dimettersi. Il Primo ministro viene eletto mediante collegamento con i candidati ovvero con una o più liste di candidati, norma che consente l'adattamento sia al sistema maggioritario che a quello proporzionale.

Il rafforzamento del ruolo del Primo ministro serve a rafforzare la compattezza delle coalizioni (diminuendo il potere di 'ricatto' dei singoli partiti) e a consentire una maggiore concretezza nella realizzazione del programma di governo.

NORMA ANTI-RIBALTONE E SFIDUCIA COSTRUTTIVA: In qualsiasi momento la Camera potrà obbligare il Primo ministro alle dimissioni, con l'approvazione di una mozione di sfiducia firmata almeno da un quinto dei componenti (ora è un decimo). Nel caso di approvazione, il Primo ministro si dimette e il presidente della Repubblica decreta lo scioglimento della Camera. Il Primo ministro si dimette anche se la mozione di sfiducia è stata respinta con il voto determinante di deputati non appartenenti alla maggioranza espressa dalle elezioni. Garante di questa maggioranza sarà il presidente della Repubblica, che richiederà le dimissioni del Primo ministro anche nel caso in cui per il voto favorevole a una questione di fiducia posta dal Primo ministro sia stata determinante una maggioranza diversa da quella uscita dalle urne.

Entra in Costituzione anche la mozione di sfiducia costruttiva, al fine di non rendere eccessivo il potere personale del Primo ministro e di non svuotare le prerogative del Parlamento: i deputati appartenenti alla maggioranza uscita dalle urne, infatti, possono presentare una mozione di sfiducia con la designazione di un nuovo Primo ministro. In tal caso il premier in carica si dimette e il capo dello Stato nomina il Primo ministro designato nella mozione.

CAPO DELLO STATO: Può diventare presidente della Repubblica chi ha compiuto 40 anni (oggi 50). Nomina i presidenti delle Autorità indipendenti, il presidente del Cnel e il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura (Csm) nell'ambito dei componenti eletti dalle Camere.

AUTONOMIE LOCALI (FEDERALISMO, DEVOLUTION): Le Regioni avranno potestà legislativa "esclusiva" su alcune materie come assistenza e organizzazione sanitaria; organizzazione scolastica, gestione degli istituti scolastici e di formazione, salva l'autonomia delle istituzioni scolastiche; definizione della parte dei programmi scolastici e formativi di interesse specifico della Regione; polizia amministrativa regionale e locale. Tornano a essere di competenza dello Stato la tutela della salute, le grandi reti strategiche di trasporto e di navigazione di interesse nazionale, l'ordinamento della comunicazione, l'ordinamento delle professioni intellettuali, la produzione, il trasporto e la distribuzione nazionali dell'energia, l'ordinamento di Roma; la promozione internazionale del made in Italy. Diminuiscono le materie in cui si esercita la potestà legislativa "concorrente" tra Stato e Regioni (cioè le materie in cui c'è una parziale sovrapposizione di competenza, con lo Stato che definisce i principi generali e gli indirizzi, e le Regioni che definiscono le norme attuative).

Questa riforma del rapporto tra Stato e Regioni cerca di porre rimedio al pasticcio creato dal federalismo approvato dalla sinistra al termine della precedente legislatura (2001). Allora, infatti, erano state assegnate alle Regioni le competenze di potestà concorrente in numerose materie, creando un contenzioso con lo Stato che tutt’ora intasa la Corte costituzionale (come riconosciuto da Rutelli in una dichiarazione all'Ansa del 19-2-2005). Era stato cancellato il principio dell'interesse nazionale. era stato introdotto il pericolosissimo principio del c.d. "federalismo progressivo", cioè la possibilità dei governi - senza revisioni costituzionali! - di consentire "ulteriori riforme e condizioni di autonomia". Queste sì che erano modifiche di "dissoluzione" dello Stato nazionale. Si trattava, del resto, di una riforma fatta in previsione della sconfitta elettorale, per dare protezione alle Regioni amministrate dalla sinistra. Tant’è che un costituzionalista di sinistra come Barbera ha elogiato in parte la riforma del centro-destra che "rimedia ai pericoli del federalismo sgangherato del Titolo Quinto dell'Ulivo" (Il Sole 24 Ore, 17-10-2004).

Ora viene ridotto il numero di materie assegnate alla potestà concorrente, mentre crescono - come visto - i settori di potestà legislativa esclusiva. Il correttivo alla potestà esclusiva delle Regioni è quello dell’interesse nazionale (di cui parliamo subito oltre), reintrodotto per salvaguardare la solidarietà tra le Regioni ed evitare che l'autonomia si traduca in disgregazione dell’unità nazionale.

Il problema da chiarire, semmai, è quello dei costi che saranno necessari per adeguare gli apparati amministrativi regionali. Questi costi non sono ancora definibili, perché dipendono dal modo concreto con cui sarà data attuazione alla riforma (per cui le cifre sentite sono propagandistiche). Un federalismo correttamente applicato, in tutto il mondo, riduce e non aumenta i costi, poiché sottopone la macchina amministrativa al controllo ravvicinato del cittadino ed evita doppioni tra centro e periferia. Noi Italiani sapremo evitare che diventi invece il pretesto per moltiplicare incarichi, agenzie, consulenze, ecc.?

INTERESSE NAZIONALE E CLAUSOLA DI SUPREMAZIA: L'interesse nazionale prevede che il governo, qualora ritenga che una legge regionale pregiudichi l'interesse nazionale della Repubblica, invita la Regione a rimuovere le disposizioni pregiudizievoli. Se entro 15 giorni il Consiglio regionale non rimuove la causa del pregiudizio, il governo entro altri 15 giorni sottopone la questione al Parlamento in seduta comune che con maggioranza assoluta può annullare la legge. Il presidente della Repubblica entro i successivi 10 giorni, emana il decreto di annullamento.

 La clausola di supremazia, invece, prevede che lo Stato può sostituirsi alle Regioni, alle città metropolitane, alle Province e ai Comuni, nel caso di mancato rispetto di norme e trattati internazionali o della normativa comunitaria oppure di pericolo grave per l'incolumità e la sicurezza pubblica ovvero quando lo richiedano la tutela dell'unità giuridica o economica o i livelli essenziali delle prestazioni relative ai diritti civili e sociali.

Altre modifiche riguardano il principio di sussidiarietà, Roma capitale, le linee di indirizzo per il federalismo fiscale, la Corte costituzionale, il CSM.

Per il federalismo fiscale, in particolare, sarà necessario che alle linee di indirizzo definite nella riforma seguano al più presto le leggi attuative. Infatti, per impedire gli sprechi di denaro pubblico, è necessario che i "centri di spesa" siano responsabilizzati, cioè abbiano l'onere di chiedere direttamente ai cittadini i soldi necessari e di giustificarne l'impiego. Abbiamo già un "federalismo" della spesa - in Italia oltre il 70% della spesa pubblica è effettuato da Regioni, Province, Comuni (!) -, è necessario affidare a questi centri di spesa la responsabilità di reperire le risorse necessarie (c.d. autonomia impositiva): abbiano il coraggio di imporre più tasse se vogliono spendere molto, o stiano più attenti a come utilizzano i soldi pubblici se non vogliono essere puniti dal cittadino-elettore troppo "spremuto". Oggi, invece, assistiamo al paradosso per cui gli enti locali spendono e spandono, lamentando che lo Stato centrale non dà loro abbastanza soldi per i "servizi necessari"... La dinamica della spesa pubblica è alimentata ormai dagli enti locali: solo nell'ultimo anno (dati Banca d'Italia) le Regioni hanno aumentato le loro uscite di quasi il 10%. I "tagli" richiesti dal Governo, che tante lamentele hanno suscitato, sono semplicemente un tentativo di rallentare questa crescita. Ma, lo ripetiamo, questo "tira e molla" avrà fine solo se ogni ente che spende i soldi sarà responsabilizzato.

Per sostenere le regioni più povere - garantendo la solidarietà e consentendo lo sviluppo complessivo del Paese - è stato imposto, dall'articolo 119 della nuova Costituzione, un "fondo perequativo" che sarà alimentato con una quota delle entrate delle regione più ricche.

Veniamo infine alla critica di principio mossa alla riforma nel suo insieme: quella di essere stata una riforma approvata solo dalla maggioranza, senza un ampio consenso parlamentare. Quando si tratta di riscrivere le regole del gioco, è stato detto, serve un consenso largo, altrimenti si ha una prevaricazione antidemocratica.

Diciamo subito che parlare di prevaricazione antidemocratica è eccessivo. La democrazia funziona sul principio di maggioranza (purché, beninteso, non vengano intaccati i diritti democratici o i diritti fondamentali della persona). Negare alla maggioranza la facoltà di decidere, assegnare alla minoranza un potere di veto, significa paralizzare le decisioni e condannare la democrazia a morire. Si rischia proprio la paralisi in tema di riforme istituzionali, visto che se ne discute da oltre vent'anni...

Certamente in alcuni casi - come per la riscrittura delle regole costituzionali - i meccanismi di decisione debbono avere vincoli maggiori, per garantire decisioni più meditate e il maggior coinvolgimento possibile. Sono i meccanismi previsti dall'art. 138 della Costituzione, che sono stati rispettati nel lungo cammino parlamentare della riforma approvata, e che non contemplano diritti di veto. E' vero che abbiamo la singolarità di un parlamento eletto col sistema maggioritario, che amplifica il vantaggio numerico della maggioranza; ma questo non dovrebbe significare che la maggioranza è meno legittimata a decidere (sia detto per inciso: anche per prevenire queste riserve, è stato preferibile il ritorno al sistema proporzionale). In ogni caso, resta la possibilità di dare la parola al popolo con il referendum: il quale, in effetti, ha avuto la possibilità di pronunciarsi in senso contrario. Si ricordi che un passaggio cruciale della vita del nostro Paese - la scelta tra Monarchia e Repubblica - fu deciso a maggioranza, da un referendum, con un piccolo (e contestato) scarto di voti.

Ciò detto, sarebbe sempre preferibile che riforme così importanti avessero il più largo consenso possibile. Se poi - come è accaduto - il consenso non viene cercato col necessario impegno da entrambi gli schieramenti politici, allora siamo di fronte ad un'inaccettabile atteggiamento di chiusura, figlio di un malsano clima di delegittimazione reciproca. I partiti troppo spesso non hanno voglia di confrontarsi sul merito dei problemi, preferiscono lasciarli marcire, sembrano cercare solo pretesti per denunciare ai cittadini le presunte 'malefatte' dell'altra parte.

Ipocrite ci sembrano dunque le accuse del centro-sinistra, che cinque anni fa ha approvato una sua legge di riforma costituzionale sul federalismo con una maggioranza parlamentare risicatissima (per di più espressione di un numero di elettori inferiore a quello del centro-destra, finito all'epoca all'opposizione a causa dei particolari meccanismi della vecchia legge elettorale); ed ora ha rifiutato ogni dialogo, per non consentire alla maggioranza di poter vantare la realizzazione della Grande Riforma. E incoerente ci sembra la condotta del centro-destra, che ha sì cercato (su pressione delle sue componenti più moderate) di elaborare soluzioni che recepissero molte delle obiezioni pervenute, ma alla fine ha seguito quella linea di condotta - andare sino in fondo da soli - prima tanto criticata nell'altra parte.

Dunque: corretto il metodo democratico e costituzionale che ha condotto alla nuova Costituzione; criticabile il metodo politico di entrambi gli schieramenti.  Quale elemento deve prevalere nel nostro giudizio sulla riforma? Pensiamo debba prevalere il giudizio sul merito. Una riforma che - seppure con procedure formalmente corrette - intaccasse in maniera evidente i diritti democratici o i diritti fondamentali dei cittadini sarebbe fortemente censurabile, espressione di una "dittatura della maggioranza" (ma, lasciando da parte la foga propagandistica, non sembra proprio il caso della riforma che era stata approvata). Un riforma che invece - seppure con un consenso non unanime - non intacca tali diritti può essere soggetta a critiche, ma non merita di essere considerata "antidemocratica"; anche perché, come abbiamo visto, è ancor meno democratica la pretesa ad un diritto di veto paralizzante.



Giudizio Utente: / 2

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