Giuseppe Antonio Martino
Il Barone.
Tra storia e leggenda la vita di un contadino ribelle nella seconda metà dell'Ottocento
ed. D'Amico editore, Nocera superiore, 2019
Il fascino di un libro è anche nei diversi piani di lettura che sa offrire. Quelli pensati e intessuti – in maniera più o meno esplicita - dall’autore. Ma anche quelli che vi può rinvenire il lettore, allorché il racconto “prende vita” e intercetta riflessioni e suggestioni di segno diverso.
Il Barone è innanzitutto un romanzo storico, che vuole offrire uno squarcio delle condizioni del Meridione nell’Italia postunitaria.
Nella trama del racconto, i richiami ai macroeventi politico-economici (brigantaggio, assetti fondiari, trasformismo delle classi dirigenti, introduzione della leva obbligatoria, indottrinamento culturale, inizio delle emigrazioni) si intrecciano con la descrizione delle condizioni di vita della società contadina calabrese.
Il giovane protagonista, Nato (Fortunato), dà voce – con la sua irruenza e avventatezza – a un comune sentimento di frustrazione per cambiamenti che incisero pesantemente sulle condizioni economiche e sociali di quelle popolazioni.
L’attenzione dell’autore non è però rivolta solo al profilo politico-economico, ma anche – e soprattutto – a quello sociale e culturale.
Seguendo lo sviluppo delle vicende narrate, riscopriamo usi e tradizioni che ancora popolano il nostro immaginario e ci aiutano a comprendere la nostra evoluzione sociale.
Riscopriamo la centralità della famiglia: orizzonte esistenziale – insieme con la Fede - di quegli uomini e di quelle donne, ancoraggio saldo degli affetti, sostegno granitico nei momenti di avversità e di disgrazia, sprone a non cedere alla rassegnazione, ma a impegnarsi per la costruzione di un avvenire migliore.
Riscopriamo la solidarietà concreta offerta da famiglie estese e numerose, ma anche dai rapporti di vicinato: la scena iniziale del libro descrive in maniera vivida la mobilitazione per la nascita di una nuova creatura.
Riscopriamo un tessuto sociale forte anche per il senso comunitario fornito dal sentimento religioso, dall’appartenenza a una confraternita, dalla vicinanza di un parroco quotidianamente al fianco del suo gregge.
Scopriamo altresì – e forse può risultare una sorpresa, per chi non abbia memoria diretta o indiretta di quei tempi – un grande protagonismo delle donne. Attive, volitive, decise. Agli uomini era affidato l’incarico di proteggere la famiglia e di affrontare in prima persona le avversità esterne; ma in questo erano affiancati, consigliati, sostenuti da donne che non erano in alcun modo subalterne, ma anzi sapevano determinare in maniera decisiva gli indirizzi familiari: la dolente fierezza di Rosaria, l’energia incontenibile di Peppa.
Chi ha letto il romanzo sarà forse indotto a raffrontare quella società contadina all’attuale società “liquida”: in cui i legami sociali e familiari sono effimeri; in cui il parroco è sostituito (sulla carta…) dallo psicologo; in cui la maggiore libertà da vincoli e aspettative si traduce – diradata la cortina fumogena dei proclami sulle “conquiste sociali” - soprattutto nella solitudine (più o meno mascherata con l’ansiosa ricerca di un like sui social forum o con la frenetica spola da un’apericena all’altra).
L’ambientazione del libro si serve anche dei termini dialettali e di una minuziosa ricostruzione dei luoghi di Melicuccà, il paese che è il principale teatro delle vicende narrate: queste pennellate, anche quando richiedono una lettura più attenta, contribuiscono a delineare l’atmosfera, a farci sentire immersi nella storia.
L’elemento storico e la ricostruzione sociale e ambientale emergono senza forzature dallo snodarsi della narrazione, che coinvolge il lettore anche per la capacità di disegnare la psicologia dei personaggi e di creare umana partecipazione alle loro vicende: pagina dopo pagina la sorte di Nato ci sta sempre più a cuore, vorremmo quasi dargli suggerimenti o trattenerlo per un braccio, trepidiamo nell’attendere lo sviluppo degli eventi…
Dunque: romanzo storico, affresco sociale, narrazione avvincente.
Ma anche, mi sento di aggiungere, racconto morale.
Non perché contenga fervorini preconfezionati, ma perché offre spunti di riflessione che investono l’esperienza umana in ogni epoca e luogo.
Ad esempio, la facilità con cui molti paesani prendono per buone anche calunnie su Nato, l’isolamento in cui a poco a poco si viene a trovare la sua famiglia, ci ricordano la facilità con cui si fa strada la maldicenza, la velocità con cui il giudizio sul prossimo può volgere in negativo.
Forse ingigantire le debolezze degli altri aiuta ad assolvere le proprie?
O forse a volte prevale una sorta di viltà, il timore che la solidarietà verso persone oggetto di stigma sociale porti ad essere accomunate a loro?
Ancora: Nato ha commesso un grande errore a legare le sue sorti a quelle di Musolino. Eppure si trattava di un errore della cui gravità era consapevole; un errore cui cercava di sottrarsi, senza però averne la forza e la lucidità…
Quanto è importante, allora, esercitare la prudenza quando ancora le conseguenze negative di un’azione non sembrano immediate?
Come esercitare la prudenza senza rinunciare a difendere la propria dignità e i proprî diritti (e quindi come distinguere la prudenza dalla remissività)?
Quanto è fondamentale la capacità di un giudizio morale saldo, che vinca una comprensibile empatia umana (come quella che Nato provava per Musolino)?
Siamo necessariamente prigionieri di un errore iniziale (“quando si è in ballo bisogna ballare”), oppure dobbiamo essere pronti a pagare il prezzo – e magari l’umiliazione – dell’errore commesso, prima che quel prezzo diventi troppo caro?
Riflessioni che possono accompagnare e anche seguire la lettura di un romanzo avvincente.