È difficile spendere buone parole per il modo in cui la crisi greca, fin dal suo inizio nel 2009, è stata gestita da Unione Europea e Stati Membri (leggi: Germania, il cui
leader è lo stesso da prima della crisi). Dovendo scegliere un aggettivo, si potrebbe essere indecisi tra “demenziale” o “masochista”.
Nel 2010 avevamo un ipotetico problema che, a prenderlo alla larga, era di circa 300 miliardi: la gestione di tutto il debito greco in una situazione di forte instabilità locale (ma non europea), all’indomani della scoperta delle fattucchierie di una manica di politici greci irresponsabili sui conti del paese.
In proporzioni, il 3% del PIL dell’Unione Europea, il 10% di quello tedesco.
Senza sorprendere, Francia e Germania, le cui banche private si erano indebitate all’inverosimile comprando debito greco, non hanno spinto per la sua “comunitarizzazione” (ovvero, in estrema sintesi, dire “l’Unione garantisce tutti i 300” - in cambio di solide riforme, si capisce, ma senza mandare la Grecia a gambe all’aria).
Più opportunisticamente, hanno invece insistito per la “socializzazione” delle perdite delle banche private. In questo modo, 200 miliardi di debito greco comprato dalle banche (di cui 130 da banche francesi e tedesche) sono finiti nei bilanci dei paesi dell’Unione.
Con il paradosso che la Francia, le cui banche erano esposte per 79 miliardi, ne ha prestati alla Grecia 47 (e sarebbe interessante capire quanti di quei 47 miliardi prestati, emessi come debito pubblico “doppia-A” francese, siano stati garantiti da banche francesi, che avrebbero quindi fatto nient’altro che una partita di giro).
A tutti gli altri è andata peggio (o molto peggio): la Germania, le cui banche erano esposte per 45 miliardi, ne ha prestati 62; all’Italia, le cui banche erano esposte per 6, una classe politica incapace ha finito per farne sborsarne 40; la Spagna, l’esposizione delle cui banche era di poco più di 1 miliardo, ha sorprendentemente accettato di metterne sul piatto 27.
Non solo. Passato il peggio, Francia e Germania son tornate a crescere, e hanno già ampiamente recuperato gli effetti dell’intero periodo di crisi 2008-2013. Il panico (e le speculazioni) dei mercati finanziari che sono seguiti alla mala gestione della crisi greca ha provocato, invece, un maremoto su Portogallo, Spagna e Italia (che già stagnava dal 1994). L’aumento del nostro debito pubblico, saltato dal 102% del PIL ad oltre il 130% in 6 anni, per buona parte deriva dalla recessione (l’Italia ha perso il 10% del proprio peso), non da spese folli. Non ci fosse stata la crisi, oggi il debito pubblico viaggerebbe intorno al 90%, l’Italia pagherebbe 10 miliardi in meno all’anno di interessi, e saremmo usciti dalla stagnazione da un pezzo.
Meravigliarsi che i greci, mazziati da 5 anni di disastro economico (con la perdita di oltre il 25% di PIL ed il debito pubblico schizzato al 175%), e cornuti con il quotidiano richiamo di insensibili politici tedeschi a “fare i compiti”, abbiano risposto “no” in massa al referendum (complice un quesito impreciso, interpretato in modo opportunistico dai politici locali), è come stupirsi di uno che si lamenta dopo che gli è stata segata via una gamba senza anestesia.
Io, piuttosto, mi meraviglio che nessuno reagisca in Italia (in modo serio, intendo): politici, certo, ma anche cittadini.
Merkel e Hollande, poi, sembrano non rendersi conto che incontrarsi a mo’ di direttorio il giorno dopo l’esito del referendum greco - che ben può essere letto come l’insofferenza di parte dell’Europa alla “guida” tedesco-francese dell’Unione -, è probabilmente la scelta meno opportuna in questo momento. Simili decisioni rivelano molto della statura politica dei leaders (e della qualità dei loro consiglieri).
Renzi, che per diversi motivi (incluso il fatto di parlar male inglese e niente francese) già conta assai poco in questo frangente, ha giocato male la mano: l’Italia non solo è snobbata da Francia e Germania, ma non gode neppure della stima della Grecia (né, per altre ragioni, di quella della Spagna). Inutile anche per la Russia (non riusciamo ad ammorbidire le sconsiderate sanzioni europee), per Obama (che ormai non chiama più Roma e che all’Expo manda la moglie - mentre Putin e Cameron son venuti di persona), l’Italia appare la solita piagnona, con il mondo che ci ride dietro, perché uno dei paesi più grandi e ricchi fa un gran baccano per i migranti che gli arrivano sulle coste, ma non combina nulla di utile nella sua ex-colonia (al di là di lasciarla bombardare da francesi e inglesi soltanto quattro anni fa, per assai meno di ciò che sta accadendo ora, per tornaconti economici fatti dai politici francesi - che, guarda caso, sono andati a ramengo).
Sulla scia di quelli che erano segnali evidenti di come si sarebbe evoluta la situazione, nei mesi scorsi un Presidente del Consiglio con gli attributi avrebbe potuto tentare di intessere, per esempio, una rete di relazioni forti con i paesi UE mediterranei, facendo leva su forze e debolezze comuni. Se riuscita, ieri avremmo avuto a Roma un vertice con Portogallo, Spagna e Grecia, in rappresentanza di grosso modo 120 milioni di persone e 4.000 miliardi di PIL (dei 16.000 del totale UE): il comunicato che avrebbe ricevuto attenzione, allora, non sarebbe stato (solo) quello dell’Eliseo. E, con questo, non mi riferisco ad una mera questione di immagine.
Un leader intelligente e non soltanto furbo, inoltre, con certi partners europei forse pesterebbe i piedi sulla questione dei migranti, facendo notare che accettarne qualche migliaio non inizia nemmeno a coprire i 40 miliardi che l’Italia ha cacciato fuori per salvare le banche francesi e tedesche (e non la Grecia, come la vulgata vorrebbe).
Homo faber fortunae suae può valere anche per gli Stati: Natio faber fortunae suae.
Lascereste il fato del vostro nelle mani di leaders stranieri che pensano, prima di tutto (e a ragione), al proprio?