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Religione e società - Notizie e Commenti
La sfida dei nuovi atei Stampa E-mail
Un dogmatismo superficiale
      Scritto da Matteo Veronesi
08/07/13

L'imponente successo editoriale (peraltro preparato, accompagnato e sostenuto da una assidua presenza mediatica) che hanno ottenuto, negli ultimi tempi, i libri dei cosiddetti nuovi atei (siano essi di formazione ed orientamento logico-matematici, come Piergiorgio Odifreddi, biologico-evoluzionistici, come Richard Dawkins e Daniel Dennet, o storico-ideologici, come Michel Onfray, Christopher Hitchens, Sam Harris), non può che indurre ogni uomo di cultura in qualsiasi modo aperto alla riflessione sulla trascendenza e sul destino ultimo dell'uomo a considerazioni articolate e problematiche.

Sembra che il pubblico, relativamente vasto, raggiunto da questi autori sia composto, perlopiù, da persone (in buona parte insegnanti) in possesso di un grado di istruzione medio-alto, che, se da un lato non riescono più ad appagarsi di una religiosità vissuta, stancamente, come ripetitiva e convenzionale adesione alle pratiche devozionali e liturgiche, dall'altro non hanno neppure una vastità e una profondità di interessi e di letture che possano consentire loro (magari sulla scorta di un Barth, un Bultmann, un Bonhoeffer, o di un Otto, di un Rahner, di un De Lubac, insomma di tutto quel pensiero filosofico e teologico che si è assai per tempo confrontato con il problema del rapporto fra la coscienza religiosa e una modernità razionale, scientifica, secolarizzata, “adulta”, “demitizzata”) di cogliere i fenomeni religiosi nella loro complessità estrema ed affascinante, nella loro inesauribile ricchezza di sfumature, risvolti, chiaroscuri.

La “cultura generale” (l'“analfabetismo degli alfabeti”, la chiamava Luigi Salvatorelli) trasmessa da una scuola e da un'università ormai massificate, e consistente in una generica e superficiale infarinatura storico-scientifica, qua e là spruzzata di razionalismo, di scetticismo, di relativismo, di “senso critico” applicato anche a ciò che non si conosce, costituisce un terreno agevole e fertile per il nuovo ateismo, apparentemente così piano, logico, pacato, naturale, e in realtà, proprio per questo, ancor più fittamente irto di astuzie, faziosità, insidiosi sofismi. «A little learning», diceva Alexander Pope, «is a dangerous thing».


Argomentazioni vecchie, superficialità nuova

A ben vedere, peraltro, le argomentazioni su cui si fonda questo odierno ateismo massmediatico e massificato non sono nuove. Esse affiorano a più riprese, e con vario grado di profondità e di complessità, nella storia del pensiero, dal libertinismo all'illuminismo, dal marxismo al positivismo scientifico ed evoluzionista.

Ciò che, semmai, manca ai nuovi atei (e che anzi essi  ironicamente respingono) è quello che De Lubac chiamava «il dramma dell'umanesimo ateo», l'angoscia, lo smarrimento, l'inesausta ed inesauribile ricerca del senso e dello scopo della vita dopo la morte di Dio, dopo la perdita delle certezze (o, almeno, della possibilità e della speranza) riposte nella sfera del trascendente e del sacro.

Dopo che Dio è morto – poteva ancora domandarsi il nietzscheano “uomo folle” –,  chi salverà l'uomo? «Chi laverà da noi questo sangue?». E l'esistenzialismo ateo di Sartre e di Camus fronteggiava il paradosso angoscioso dell'uomo “condannato ad essere libero”, costretto ad assumersi la responsabilità delle proprie scelte morali senza più il sostegno e la guida di una legge eterna, immutabile, rivelata dall'alto (dal momento che, dice Dostoevskij, «se Dio non esiste, allora tutto è permesso»).

I nuovi atei, al contrario, saldi nelle loro certezze razionali e scientifiche, avvolti e baciati dall'eco mediatica e dal successo editoriale, investitisi della missione di una presunta difesa della ragione e della libertà dal pericolo di una fantomatica, planetaria congiura fideistica ed oscurantistica, ostentano la loro sicurezza, la loro serenità, la loro convinzione, la loro immunità da ogni problema, da ogni dubbio, da ogni tormento. Per loro (che in tal modo si fanno interpreti, forse involontari, della generica mentalità materialistica, edonistica e superficiale che predomina nella società postmoderna) interrogarsi sul senso dell'esistenza, sull'essenza e sul fondamento dell'esperienza, sull'origine più autentica, aurorale, sul destino ultimo dell'avventura umana, non è che una fanciullaggine, una perdita di tempo, un vezzo da adolescenti o un capriccio da intellettuali viziati, disimpegnati, “borghesi”.

Ogni risposta, ogni verità sono affidate alla scienza, la quale, in modo unilaterale  e semplicistico, viene additata come rivelatrice assoluta e garante indiscutibile dell'inesistenza di Dio, e irrecusabile negatrice di qualunque possibilità di una vita ultraterrena.

In particolare, la teoria dell'evoluzione – peraltro non definitiva, e anzi soggetta a continue modifiche e ripetuti aggiustamenti ad ogni nuova scoperta paleoantropologica – viene aprioristicamente  presentata e considerata alla stregua di una visione inconciliabile con una superiore e metafisica volontà creatrice – con quella “evoluzione creatrice”, con quella “funzione fabulatrice” che Bergson e Teilhard de Chardin additarono e teorizzarono assimilando e trascendendo alcuni dati del positivismo.

Le strumentalizzazioni ideologiche e politiche a cui la religione è stata, nella storia, innegabilmente sottoposta, le persecuzioni e le guerre per le quali essa è stata (e in alcune aree del pianeta è tuttora) assunta a pretesto, finiscono per essere, esplicitamente o meno, addotte dai nuovi atei (e in particolare da Onfray e da Hitchens) come pretesi argomenti dell'inesistenza di Dio, o della necessità di una sua pronta eliminazione dall'orizzonte del pensiero e del sentire universali, mentre dovrebbero essere viste, più correttamente, come distorsioni, deformazioni, degenerazioni fanatiche ed integraliste dei credi monoteisti e rivelati, i quali, di per sé, nella loro intima essenza, esortano invece alla pace, all'amore, alla fratellanza, al rispetto dell'assoluta ed inviolabile dignità insita nell'uomo imago Dei.

Assolutizzare ed attualizzare, nel loro contenuto letterale (nel loro sensus historicus, come lo chiamava, già distinguendolo da livelli di significazione ulteriori e più profondi, l'ermeneutica medievale), le pagine più crude e più violente, e dunque oggi più sconcertanti, dei testi sacri, denota, da parte degli atei –  che da quelle pagine si sforzano di trarre un sostegno alle loro posizioni –  non meno che dei fedeli integralisti, che vi trovarono e vi trovano una giustificazione e un pretesto per guerre di conquista, persecuzioni, rivendicazioni politiche,  una pericolosa mancanza di senso storico e di coscienza ermeneutica – vale a dire di quelle facoltà che maggiormente possono mettere in guardia dai pericoli dell'integralismo.


La vera natura delle religioni

Il tremendo kherem, il feroce, nullificante anatema che Jahve impone (Deuteronomio 13, 16-19) sulle terre degli infedeli, stabilendo che esse siano arse e devastate senza lasciare speranza di rinascita, è stato spiegato storicamente alla luce della rabbia angosciosa che dovette attanagliare la nazione ebraica nel sesto secolo, dopo l'esilio babilonese. Analogamente, il nazionalismo epico e bellicoso che affiora a tratti dalla Sapienza si spiegherà come risposta alle oppressioni che, in età ellenistica, il giudaismo era costretto a subire dalla dinastia degli Antigonidi. Ma su tutto l'Antico Testamento, e sulla Mishna ebraica, risplende il vaticinio messianico di Isaia, la profezia e la speranza che un giorno tutti i popoli possano, in nome di Dio, mutare le spade in vomeri, le lance in falci, e ricongiungersi pacificamente nella casa del Padre (2, 3). Anche la «via di Allah», del resto, sembra profilare l'ansiosa  attesa del «ritorno all'Uno»: «ritornano ad Allah tutte le cose» (Corano, XLII, 53). «Non c'è costrizione nella religione» (II, 256). E Isaia mostra come l'ipostasi del «Dio degli eserciti», di Jahve Sebaot, tanto spesso stigmatizzata come fonte e alimento presunti di deviazioni integraliste, possa essere intesa non tanto in senso politico e militare, quanto in una accezione universale, come manifestazione della divina Sapienza che permea e domina l'universo, e che all'inizio dei tempi governò e plasmò le acque informi, il nulla e il caos che ancora e sempre tentano, in vari momenti della storia, di riprendere il dominio del mondo e dell'umano.

Certo le convergenze – sotto il segno di un comune percorso di autocoscienza,  meditazione, perfezionamento, di apertura al mistero e all'ineffabile – che legano il talmudismo ebraico, il sufismo islamico e la mistica cristiana di ispirazione neoplatonica paiono suggerire che il dialogo interreligioso possa più facilmente intrecciarsi in un contesto che mantenga la sfera interiore e soggettiva del credo religioso separata ed autonoma da ogni implicazione politica. Ma vedere ad ogni costo - come pretendono un Onfray, un Hitchens, un Sam Harris (a parere del quale per un cristiano, un musulmano o un ebreo accettare la pax fidei e il dialogo interreligioso significherebbe addirittura rinnegare i fondamenti e lo spirito stessi della sua storia e della sua tradizione) - nelle religioni rivelate una fonte di odio e di risentimento, un'occasione e una causa di irriducibile scontro di civiltà, denota una mancanza di coscienza storica, di profondità ermeneutica e speculativa, di capacità e di sforzo interpretativi. Purtroppo, il superficiale “buon senso” dei new atheists –   tanto banale, semplicistico e supponente da suonare francamente irritante – ha facile presa su di un grande pubblico che la civiltà dell'immagine e dei consumi ha reso sempre più impaziente, frettoloso e disattento.   

Nell'Islam, poi, il jihad è, innanzitutto, un atteggiamento interiore e spirituale, uno sforzo di ascesi, di purezza, di perfezionamento interiore, oltre e più che un'investitura politica e una missione militare. In ogni caso, anche il “jihad minore”, il “jihad esteriore”, terreno e concreto, da combattersi con le armi e con gli eserciti, è visto originariamente come guerra difensiva, come reazione all'oppressione e alla persecuzione subite dal nuovo culto nel tentativo di affermarsi (Corano XXII, 39). Anche il Corano, poi, esalta la misericordia, l'amore, il perdono, che rappresentano, forse, offrendo agli infedeli e ai nemici un alto esempio e una nobile lezione umana ed etica, il vero e puro jihad. Il musulmano dovrebbe, come il cristiano, rispondere all'odio con l'amore e il bene (XLI, 34-35). In un regno islamico, poi, gli adepti delle altre religioni dovrebbero essere i dhimmy, i Protetti, che nessuno può toccare, e che possono partecipare alla vita dello stato conservando e praticando il proprio credo (IX, 29). «A voi la vostra religione, a me la mia» (CIX, 6).  

Forse si dovrebbe rileggere, in quest'epoca di drammatico scontro fra culture, il beato Giorgio La Pira, che sognò una suprema, finale riconciliazione delle tre grandi religioni monoteiste al culmine del “sentiero di Isaia”, sotto il segno di un comune ideale di amore per il prossimo, di fratellanza e di concordia.

Nelle guerre, la religione è un semplice pretesto, che maschera cause reali di natura politica ed economica. Un'ipotetica (ed improbabile, se non utopistica, e non si sa quanto auspicabile) “civiltà atea”, in mancanza di pretesti religiosi, avrebbe addotto, per giustificare guerre, prevaricazioni, violenze, motivazioni di natura culturale o ideologica (come difatti è avvenuto, per non fare che un esempio, nella Cina maoista).

Viceversa, la storia moderna e contemporanea nostra che proprio l'incondizionata idolatria della Dea Ragione (come nel Terrore bianco seguìto alla Rivoluzione francese, grandiosamente e drammaticamente affrescato dal laico e scettico Anatole France in Les Dieux ont soif) o l'ateismo di stato (dal maoismo allo stalinismo) possono divenire causa di esecuzioni sommarie, persecuzioni, stermini, forzate e violente “rieducazioni” ideologiche.


Le religioni (non strumentalizzate) fondamento della tolleranza

Del resto, è lecito dubitare che la libertà e la dignità dell'uomo possano essere contemplate da una visione rigidamente materialista, che –  in perfetta antitesi al “personalismo” del pensiero cristiano –  aggioghi l'individuo alla ferrea ed opprimente necessità delle leggi di natura, alle catene di un'immanenza e di una finitezza prive di luce, respiro, speranza –  o che, sul piano ideologico e politico, subordini l'uomo alla collettività e faccia della selezione sociale e della lotta per la vita la giustificazione di una inumana, impersonale e feroce dialettica di “blocchi storici” e di classi sociali. 

Contrariamente a quanto pretendono i nuovi atei, un utopistico ateismo  trionfante non porterebbe alla tolleranza religiosa, ma, al contrario (come la storia stessa,  unitamente a paradossi filosofici come quello, estremo ed insolubile, dell'antisemitismo voltairiano, sembra suggerire), al rifiuto, alla repressione, alla persecuzione di tutte le espressioni e le manifestazioni religiose; le quali comunque (connaturate come sono all'uomo in quanto tale, di per sé animato, come diceva un poeta, da un insopprimibile “istinto del cielo”) non cesserebbero - e non cesseranno mai del tutto - di affiorare, di emergere, di esigere e chiedere per sé spazi, luoghi, momenti, forme, simboli, gesti, in cui trovare riflesso e rappresentazione. 

D'altro canto, la tolleranza, il dialogo, il confronto fra le culture, l'apertura verso l'alterità, il diverso, il lontano, la capacità di avvertire sé come Altro e l'Altro come Sé, non sono concepibili all'interno di una visione che escluda a priori la disponibilità e l'ascolto rivolti al Divino, cioè all'Altro per eccellenza, al totaliter Aliud dei Mistici, a quel «totalmente Altro» di cui, infine, anche il marxista Horkheimer avvertì la «nostalgia». E, osservava Horkheimer, solo grazie alla consapevolezza, viva e non rassegnata, della «finitudine» e dell'«abbandono» in cui l'uomo è gettato – cioè, in definitiva, di quella condizione che la coscienza ebraico-cristiana identifica simbolicamente con il peccato di Adamo –, una società liberale può essere «preservata da un ottimismo ottuso, che si pavoneggia del suo sapere, quasi fosse una nuova religione».   

La religione è, essa stessa, cultura, pervadendo ed improntando l'arte, la letteratura, la musica di un popolo, ed essendo portatrice di una intrinseca «Bellezza della religione», come la chiamavano i Romantici, legata ai riti, ai simboli, alle icone, che anche un non credente potrebbe essere in grado di avvertire; cosicché l'ateismo non gioverebbe al dialogo interculturale, ma porterebbe, piuttosto, alla negazione di ogni specificità, di ogni patrimonio culturale, aprendo uno sconfinato deserto, una cupa voragine in cui dilagherebbe, senza più argini e barriere, il “pensiero unico” di una postmodernità materialistica, indifferenziata, omologante.

Nella Moschea Blu di Istanbul, Benedetto XVI ha pregato “l'unico Dio che tutti cerchiamo”, brancolando nelle tenebre del Mistero. La stessa Dominus Jesus (tanto fraintesa o strumentalizzata anche da alcuni esponenti delle confessioni cristiane non cattoliche), pur affermando, e non potendo non affermare, il primato e l'unicità del credo cattolico e romano, non rinnega affatto la «matrice soteriologica», la vocazione  e la speranza salvifiche e redentrici, di cui il «seme del Verbo» può fecondamente irrorare, per decreto imperscrutabile, anche culture e concezioni precristiane od extracristiane.

Il fuoco della luce divina – dice l'An-Nyr, la coranica Sura della Luce – è alimentato da «un olio che non è d'Oriente o d'Occidente». Non è certo l'ateismo, ma piuttosto questo comune ed umile senso del «mistero ineffabile che avvolge le nostre esistenze», per riprendere la suggestiva formulazione del Concilio Vaticano Secondo, a rendere possibile il dialogo interreligioso e la pacifica coesistenza.

Può sorgere, semmai, il sospetto che nell'età contemporanea sia stata non tanto la religione, quanto la scienza evoluzionistica a porgere un pretesto e un appiglio sia al nazionalismo, al colonialismo, al nazifascismo (in vario modo legati al pregiudizio e al mito della superiorità e della purezza di una razza a scapito delle altre), sia ai totalitarismi di sinistra, che nei princìpi della selezione sociale e della lotta per la vita potevano trovare concetti e definizioni utili a prospettare il sanguinoso trionfo delle masse proletarie sulla classe borghese degenerata, corrotta, decadente, ormai condannata dalle presunte “leggi della storia” all'annullamento e alla dissoluzione.


Proprio il "caso" riconduce a Dio

Per contro, Hannah Arendt ci insegna a pensare l'amore, la speranza, il perdono, l'origine stessa della vita (rievocata da ogni nuova nascita, celebrata da ogni  nuovo “cominciamento”), come veri «miracoli», come l'«inatteso», l'«imprevisto», l'«improbabilità assoluta»: il loro compiersi, il loro accadere (sia che dipendano da un'apparente casualità, sia che rientrino in un universale disegno il cui significato profondo e il cui fine ultimo dimorano avvolti, come diceva un umanista, «nella solitaria caligine del Padre») non possono che apparire, che spiegarsi come segni o tracce di una volontà superiore, come balenii, brevi e cangianti, sorti d'un tratto dall'abisso di un pensiero e di un progetto infiniti.

Se è vero che, come dice Monod, «il nostro numero è uscito alla roulette», allora il miracolo della nascita della vita apparirà, a maggior ragione, non come l'esito meccanico e inevitabile delle leggi di natura, ma come un imponderabile portentum, come il montaliano «fatto che non era necessario», come il dono infinito, inatteso e prezioso, di un Essere supremo.

Paradossalmente, fra le proposizioni dello Studium Parisiense che nel 1277 Étienne Tempier condannava come eretiche, vi era anche e proprio la convinzione «che niente accade per caso, ma tutte le cose avvengono per necessità»: una circostanza, questa, che avrebbe, com'è evidente, limitato in modo inaccettabile la libertà del volere e dell'agire divini. Con buona pace di Margherita Hack, il fatto che agli occhi dell'uomo e della scienza  l'universo e la vita paiano essere scaturiti dal cieco caso non è affatto la prova dell'inesistenza di Dio, ma, semmai, l'indizio ancora opaco e nebuloso di un progetto e di un disegno superiori, di cui siamo parte senza poterlo ancora – noi che, creature finite, vediamo per speculum et in aenigmate – abbracciare con gli occhi della mente nella sua totalità e comprendere appieno.

Sono i sempre rinnovati “miracoli” di cui parla la Arendt ad esorcizzare l'entropia, la dispersione, la dissoluzione, il caos; ad impedire che – nonostante gli orrori, le sofferenze, le cadute – all'odio risponda inesorabilmente l'odio, alla morte la morte, che tutti gli esseri e l'intera esistenza precipitino verso l'assoluto nulla, verso l'estremo annientamento.

«L'oggettività» – scriveva ancora l'agnostico Jacques Monod – «ci obbliga a riconoscere il carattere teleonomico degli esseri viventi, ad ammettere che, nelle loro strutture e prestazioni, essi realizzano e perseguono un progetto». E l'ateo e materialista Engels, nella Dialettica della natura, aveva affermato che la materia «deve creare [...] il suo  più alto frutto, lo spirito pensante».

L'organismo, dice ancora Monod, «trascende, pur non trasgredendovi, le leggi fisiche, per essere solo promozione e realizzazione del proprio progetto». Ad impedire di vedere in questa tensione progettuale, in questo slancio vitale, in questo    impulso trascendente, la traccia e il vettore di una volontà suprema ed eterna, è, credo, solo il pregiudizio – esso stesso dogmatico, ed accettato in modo acritico ed irriflesso – dell'inconciliabilità assoluta di scienza e fede, ragione e credenza, conoscenza della natura e apertura metafisica.

Sebbene Galileo considerasse il mondo dei numeri il solo dominio in cui la conoscenza intensiva dell'uomo potesse eguagliare quella extensiva della Divinità, credo che la cosmologia e la fisica teorica non riusciranno mai a determinare la “costante lambda”, la “costante cosmica”, la “costante di Dio” – a formulare in numeri e cifre il pensiero, il progetto primi ed eterni del Creatore all'atto della creazione.

Paul Steinhardt, indagando il mistero della costante cosmica (mistero che non poté risolvere nemmeno Einstein, pur persuaso, in polemica con il carattere probabilistico della fisica quantistica, che Dio «non giocasse a dadi con l'universo», che «il Signore» fosse sì «sottile», ma non capriccioso e perverso), non ha potuto che ripristinare l'antica nozione aristotelico-scolastica di quintessenza, di etere (l'elemento celeste che per Aristotele aèi théi, «eternamente corre», ben sposandosi, dunque, con l'idea moderna di un universo in continua espansione), per cercare di rappresentare la “quinta forza” che regge e governa i confini del cosmo, illimitati, curvilinei, sempre sfuggenti, come il leopardiano «ultimo orizzonte», allo sguardo proteso e ostinato della ragione e della scienza.

Contrariamente a quanto ha affermato Hawking, se anche la fisica arrivasse, un giorno, a determinare (peraltro in una forma inevitabilmente approssimata, e tendente di per sé ad una cifra senza fine) il valore della costante lambda, ciò non costituirebbe affatto un argomento a sfavore dell'esistenza di un Dio vincolato, a quel punto (tale l'argomentazione del grande cosmologo), ad un'equazione, privato della sua libertà di scelta, della sua facoltà di agire in un modo anziché in un altro, e dunque ridotto, un po' come nel deismo settecentesco, ad una sorta di nozione astratta, di puro e remoto concetto logico-matematico. In ogni caso, anche qualora venisse risolta, l'equazione di Dio non sarebbe che una rappresentazione segnica, integralmente umana, e per ciò stesso limitata ed opaca, del disegno creatore. Come ricordava Pierre Duhem nella Teoria fisica, le leggi fisiche «non sono né vere né false, ma approssimate». Nella loro formulazione matematica, tali leggi sono «sempre simboliche», e per ciò stesso contrassegnate da un certo grado di arbitrarietà, di autoreferenzialità, di convenzionalità rappresentativa.

Ciò varrà, a maggior ragione, per un'ambiziosa, imponente ed onnicomprensiva “teoria del tutto”, il cui oggetto è, per definizione, finito, ma illimitato. Come insegna la teologia, «omnia quae de Deo dicuntur, dicuntur metaphoryce»: ogni proposizione tesa a sfiorare la natura del Divino – sia essa formulata in numeri o in parole – è inevitabilmente indiretta, allusiva, analogica, capace non di mostrare in modo diretto      e pieno il proprio sconfinato oggetto, ma solo di evocarlo, di suggerirlo, di lasciarlo intravedere.

Ogni legge fisica, ogni formulazione scientifica è poi, per definizione, fallibile, falsificabile, soggetta ad essere in futuro corretta o smentita, mentre il pensiero divino, l'autocoscienza di Dio, il suo eterno e puro “pensiero di pensiero” (la aristotelica noeseos noesis) resta, nella sua essenza, immutabile ed irraggiungibile, anche dopo essersi analogicamente e mediatamente manifestato nella creazione e nei fenomeni.

La teoria dell'informazione, poi, ha scoperto nel linguaggio quella stessa tendenza entropica, quella stessa deriva verso il caos, l'indistinto, l'informe, che la fisica ha ravvisato nell'energia e nella materia. Come la parola e il discorso dell'arte poetica – formali, organizzati, lavorati, scolpiti, sommamente autocoscienti – si oppongono, nei loro esiti più alti, allo svuotamento, al logoramento, al deterioramento dei linguaggi e delle espressioni (il poeta, dice Pound, è appunto colui che «tiene in efficienza il linguaggio», purificandolo dalle scorie della strumentalizzazione ed infondendovi nuovo respiro e nuova vita), così nel mondo fenomenico l'“entropia negativa”, forse scandita e predeterminata da quello che Schelling chiamava «il poeta infinito», trattiene il cosmo dal precipitare nell'implosione, nell'annichilazione, nell'“orizzonte” o nella “singolarità” del “tempo zero”, del collasso, della conflagrazione – di quello, insomma, che già Teilhard chiamava, rifacendosi all'Apocalisse, il «punto Omega». 

Del resto, come dovrebbe apparire evidente, fra la più evoluta e la più intelligente delle specie viventi non umane e l'uomo si spalanca, in termini di originalità, inventiva, creatività, capacità di innovazione e spirito di ricerca, un divario talmente accentuato da non poter essere spiegato in termini esclusivamente biologici, come semplice e meccanico esito della selezione naturale.

Proprio per questo, l'uomo resta – per citare Pascal –  un “mostro incomprensibile”, capace della bellezza e del genio così come dell'aberrazione, di elevarsi alla propria dignità come di precipitare nell'abisso dell'abiezione e dell'autodistruzione. Egli è, come dice Sofocle, deinós, ambiguamente “meraviglioso” e “terribile”. Nel cuore di questa ambivalenza irriducibile ed essenziale – che non è però necessariamente un rigido dualismo manicheo o gnostico di bene e male, spirito e materia, cielo e terra, ma piuttosto groviglio e coimplicazione tumultuosi e dinamici – splende la fiamma della sua estrema e tragica libertà, dischiusa sull'oltre, aperta alla possibilità dell'eterno.

Proprio per questo la visione del “Dio degli eserciti” che a tratti affiora, come si diceva, dai testi sacri non dovrà essere letta come segno di una presunta matrice bellicistica e violenta insita nelle religioni monoteiste, ma come conseguenza del particolare contesto storico – quello che vide la faticosa e contrastata formazione dei popoli  e delle identità arabi ed ebraici – in cui esse furono dapprima rivelate agli uomini, e che oggi non può essere frettolosamente ed acriticamente riattualizzato se non da concezioni nazionaliste ed integraliste che inevitabilmente strumentalizzano e snaturano l'essenza della fede; un'essenza rispecchiata, e fedelmente testimoniata, da tanti secoli intensi e luminosi di arte e di pensiero, e, invece, adulterata, distorta, presa a mero pretesto, da ogni guerra di religione.

Sul piano logico-scientifico, come si accennava, il carattere sorprendente, estremamente improbabile, davvero “miracoloso”, della nascita della vita sulla terra (o meglio su quel globo informe di materia ribollente precariamente sospeso in un punto indefinito ed infintesimale dell'universo, e perennemente flagellato da scariche elettriche, quale il nostro pianeta, «l'aiuola che ci fa tanto feroci», doveva forse apparire nella notte dei tempi), viene addotto quale prova di una presunta, analoga improbabilità estrema di un Artefice sommo.

Al contrario, proprio questa improbabilità, questo carattere sorprendente ed imponderabile dell'origine della vita dovrebbe far apparire quell'inizio, quella genesi come – per citare Montale – «la libertà, il miracolo, il fatto che non era necessario», e, dunque, offrire l'indizio, la traccia, l'impronta di un intervento superiore, di una volontà trascendente, di un disegno creatore, di un superiore destino.

Del resto, che le sottili ed ingegnose mutazioni genetiche che scandiscono – in palese antitesi alla legge dell'entropia – l'evoluzione delle specie siano dettate dal cieco caso, e non da una superiore volontà, può apparire, anche scientificamente, poco probabile.

Il cieco caso conduce al caos, al disordine, all'informe, non certo a forme di vita complesse, funzionali, altamente organizzate, e meno che mai all'uomo, creatura capace di un linguaggio articolato e polisenso, di un pensiero riflesso  e autocosciente – in grado, dunque, di comprendere e di rappresentarsi la realtà e l'esperienza, il mondo che lo circonda e la percezione, l'immagine che egli ne ricava, in modo ricco, molteplice, complesso, per via sia razionale che intuitiva, attraverso le invenzioni profonde e problematiche delle arti così come tramite il discorso e l'indagine della scienza. Casuale, aleatoria, improbabile potrà forse essere stata, sul piano meramente fattuale e fenomenico, la nascita dell'universo e della vita; ben difficilmente la loro evoluzione, che nel pensiero e nella creatività dell'uomo – unica creatura capace di pensare, di concepire concettualmente e di rappresentare artisticamente la vita e il Divino – sembra trovare il proprio culmine e la propria luce. 

Che, poi, il racconto della Genesi (sul quale è fin troppo facile, oggi, ironizzare) non vada preso alla lettera, e rappresenti piuttosto una trasfigurazione allegorica, densissima di sovrasensi e di possibilità interpretative, è cosa ovvia, riconosciuta da tempo dalla stessa Chiesa, e su cui non dovrebbe essere necessario insistere.

Estendendo, poi, sulla scia di Chomsky, l'evoluzionismo biologico al problema delle origini del linguaggio, il nuovo ateismo pretende di desumere anche da quest'ambito argomenti contro l'esistenza di Dio.

La parola umana non sarebbe, com'era nella tradizione agostiniana e tomista, «imago mentis», verbo interiore, riflesso, per quanto pallido, fioco, opaco, difforme, del Logos divino, del Verbo originario che era al principio dei tempi, ma l'esito, pressoché meccanico, di un processo automatico di selezione e combinazione.

Eppure, il “monoide” di Chomsky, l'originaria matrice, l'iniziale nucleo logico-sintattico su cui sarebbero modellati e a cui sarebbero riconducibili tutti i singoli enunciati, non è poi – come gli storici della linguistica hanno notato – molto diverso dai «simplicissima signa», dai «prima principia», dalle parole pure, originarie, fondanti, postulate dalla teoria medievale dei modi significandi, o dal «Verbum spirans de caelo» che anima ed orienta la ricerca dantesca nel De vulgari eloquentia.

Proprio quel “monoide”, quel nucleo originario (quell'innere Kraft o innere Sprachform, quella causa e quel modello primevi e profondi, come diceva Humboldt), potrebbe, un po' come la costante lambda inseguita dai cosmologi, essere letto e scrutato come l'impronta o la traccia di una volontà superiore. Più da vicino, Chomsky stesso si è espressamente richiamato alla “grammatica speculativa” della scuola di Port-Royal, che – a sua volta sulla scia dei modistae – presupponeva la presenza di un nucleo ideale innato, riflesso parziale dell'intelletto divino, alla base di ogni espressione linguistica, e proprio a quell'originario archetipo riconduceva il naturale lumen rationis.

«Dio invisibile ha creato il mondo visibile», dice la Grammaire de Port-Royal, proprio nel passaggio su cui Chomsky ha fondato la sua visione dei sottintesi e delle presupposizioni insiti nel discorso linguistico, e dei sottili e stratificati rapporti fra “struttura superficiale” e “struttura profonda” dell'enunciazione. Ma proprio tale nitidissima e profonda formulazione dovrebbe suggerire quello sforzo di elevazione e di apertura dal noto all'ignoto, dall'immanente al trascendente, dal tempo all'eterno, dall'immediato al mistero, dal materiale all'immateriale, che anima ed illumina i più autentici e sentiti cammini del pensiero; e rischiarare, in pari tempo, quell'idea e quel sentimento del Divino che sembrano celarsi nelle profondità naturali ed innate dello spirito umano.  

Ai qualia, ai fattori qualitativi, e dunque soggettivi, consapevoli, riflessivi e creativi, dell'esperienza e della conoscenza (tra i quali figura, si noti, anche e proprio il sentimento dell'“ineffabile”, il senso dell'inconoscibile, del limite a cui è vincolato e subordinato lo sguardo dell'uomo), Dennet ha sostituito i meme (orrida contrazione del greco mimémata, “copie”, “imitazioni”, “reduplicazioni”), cioè unità essenziali di percezione, di comportamento, di cultura, trasmessi in modo automatico, meccanico, inconsapevole, di generazione in generazione. Ma i meme non spiegano la creatività, la meraviglia, l'originalità di pensiero, la tensione e l'apertura al mistero e al trascendente («Essere-per-il-mistero» è, insegnava Lucian Blaga, cifra ed essenza della condizione umana), insomma ciò che massimamente differenzia l'uomo dal resto del vivente, e che ne garantisce, in quanto imago Dei, la dignità, l'unicità, l'inviolabilità.


La "liberazione" sessuale materialista si è capovolta nella mercificazione

Piuttosto datata, e decisamente prevedibile, è poi la consueta accusa, rivolta alla religione, di aver represso le pulsioni sessuali.

Eppure, il principio essenziale di ogni visione religiosa della sessualità, cioè l'imperativo che essa sia conciliata con il rispetto della dignità umana e della sacralità della persona, può essere condiviso, credo, anche da un'etica laica, a maggior ragione in un'epoca in cui il materialismo, l'edonismo, il  neopagano culto della bellezza e del denaro hanno spinto all'estremo, nelle sue diverse forme, la mercificazione del corpo femminile.

Viceversa, prima o poi un relativista davvero serio, aperto e coerente dovrà francamente domandarsi se siano stati più, in passato, i precetti religiosi a reprimere la sessualità o non, piuttosto, in tempi recenti, l'edonismo e il materialismo ad esasperarla, senza peraltro, a quanto pare, dischiudere realmente all'uomo terreno i promessi paradisi di serenità, di appagamento, di pienezza, di pacificazione, e anzi inducendolo a potenziare, a dilatare (ad «espandere» e «dissipare», come diceva il Baudelaire dei Paradisi artificiali), attraverso l'uso ormai abituale e generalizzato degli stupefacenti, un'esperienza sensoriale che, inevitabilmente, non può trarre pieno soddisfacimento da una relazionalità angusta, superficiale, effimera, esclusivamente corporea.

L'edonismo e l'utilitarismo contemporanei hanno fagocitato, fatto propri e strumentalizzato gli stessi esiti della rivoluzione sessuale, trasformando la libertà in regola, la trasgressione in norma, l'abbattimento dei tabù in una prassi consolidata, in un modello di comportamento usuale, quasi in un imperativo sociale – oltre che in una banale e scontata merce di scambio, il che la subordina precisamente a quel «principio di prestazione», antitetico al «principio del piacere», da cui un'esistenza davvero serena e liberata dovrebbe essere del tutto immune.

Un  pensatore lontano dal cristianesimo come Herbert Marcuse, tornando, a distanza di un decennio, sul suo celebre Eros e civiltà (vero e proprio manifesto di una sessualità almeno teoricamente liberata, emancipata, non più repressa), doveva osservare che proprio la «libertà» e l'«appagamento» delle pulsioni istintuali stavano «trasformando la terra in un inferno», dal momento che la presunta “libertà” degli istinti era subordinata agli stereotipi, alle convenzioni, ai modelli di comportamento dell'homo oeconomicus, e veniva dunque «pagata» con l'«ignoranza» e con l'«eteronomia introiettata», con uno stato di reificazione e di mercificazione avvertito ormai come parte integrante della persona e del suo essere nel mondo. «L'Eros sfrenato», si leggeva già nella prima edizione, «è altrettanto funesto del suo antagonista, l'istinto di morte»: l'uno e l'altro privano in eguale misura l'uomo del suo autodominio, della sua identità, del suo centro, della sua coscienza etica – in una parola, della sua dignità e della sua libertà.

In materia di affettività e di sessualità, gli atei e i materialisti dovrebbero, per essere davvero lineari, coerenti, intellettualmente responsabili, seguire fino in fondo la lezione dei loro veri (anche se spesso a loro stessi ignoti) maestri storici, da Sade a Laclos a La Mettrie, e considerare, di conseguenza, l'uomo e la donna alla stregua di semplici «machines de plaisir», di corpi senz'anima da usare come strumenti o giocattoli, al pari degli automi – dalle membra perfette, dal cervello programmato, dallo sguardo vitreo e vuoto – di certo cinema postmoderno.

«Quando – dice ancora Marcuse – la religione continua a sostenere aspirazioni di pace e di felicità senza compromessi, le sue “illusioni” continuano ad avere un valore di verità superiore a quello della scienza che lavora per abolirle». Solo nel pensiero del Divino e dell'Altro può realizzarsi davvero quella fusione di «libertà» e «necessità», aspirazione individuale e superiore legge, tempo ed eternità, esperienza ed oltrepassamento, esistenza ed Essere, che invano si chiederebbe ad una indiscriminata e caotica licenza dei sensi, ad una frammentaria e centrifuga  dissoluzione di quello che Schopenhauer e Nietzsche chiamavano, con termine medievale, principium individuationis. Ed è, ancora una volta, non solo il discorso – anch'esso nobile, prezioso, illuminante – della scienza, ma anche, e forse soprattutto, quello della poesia e della filosofia che può, specialmente là dove (da Parmenide a Cleante, da Dante a Milton, da Eliot a Celan a Luzi) le due espressioni si intrecciano e si fondono, stringere un nodo – per quanto criticamente riflesso, mediato, tormentato, dinamico, e dunque irrimediabilmente terreno, “orfano”, “gettato”, distante dall'origine – di pensiero e parola, di tensione speculativa e laboriosa e meditata sintesi formale, e attraverso di esso trasmettere all'intelletto un'ombra o un riflesso di quell'assoluta e superiore unità di esistenza ed essenza, libertà e necessità, pensare ed essere.


Il dogmatismo dei nuovi atei

I nuovi atei, in genere, dal punto di vista della loro radicale, inflessibile, paradossalmente dogmatica logica dualistica di vero e falso, reale ed irreale, scientifico ed antiscientifico, tendono a contraddistinguersi per il rifiuto di qualsiasi “dubbio metodico”, di qualsiasi discussione, di qualsiasi confronto. Per loro, assolutamente, «non possiamo essere cristiani».

Al contrario, Bertrand Russel (di cui Longanesi, sfruttando scaltramente il momento editoriale, ha da poco riedito Perché non sono cristiano, uno dei suoi scritti forse meno felici, gremito com'è di insipidi e gelidi paradossi, facili freddure, tortuosi sofismi) doveva pur riconoscere, nel momento stesso in cui portava la sua personale testimonianza di agnostico, che la scienza non era in grado di dimostrare né l'esistenza di Dio, né tantomeno la sua inesistenza. E in un dibattito radiofonico del 1948, Russel doveva, incalzato da Copleston, ammettere che, se Dio non esistesse, «gli esseri umani e la loro storia non potrebbero avere alcuno scopo». Un trentennio prima, nell'articolo La religione e le chiese, Russel intravedeva «il senso di un mistero solo in parte svelato, le percezioni di una saggezza e di una gloria nascoste» oltre il velo ordinario delle cose, ed ammetteva che se queste sensazioni, «da cui la religione trae impulso», «fossero destinate a morire, il meglio della vita svanirebbe con esse».

L'odierno ateismo logico-scientifico vorrebbe appunto cancellare, rendere remote, infondate, impossibili quella percezione e quell'intuizione, soffocandole sotto il giogo di un razionalismo e di uno scientismo gelidi ed implacabili.

I mezzi di comunicazione di massa, dei quali i nuovi atei sanno avvalersi in modo efficace ed abilissimo, rischiano, con la loro incalcolabile e pressoché incontrastabile  forza di persuasione, di imporre alle menti deboli ed incerte un vero e proprio dogmatismo ateo, contrapposto ad una moderna coscienza religiosa che è invece, nelle sue forme più culturalmente avvedute ed intellettualmente significative, aperta alla riflessione e al dialogo, per quanto problematico.

Eppure, si può ancora sperare che, nel segno di un comune umanesimo, di un comune spirito di redenzione e disalienazione dell'uomo contemporaneo, di liberazione dell'umano dalle logiche ferree ed anonime del materialismo e  dell'utilitarismo, un'etica religiosa e un'etica laica possano ancora misurarsi e cooperare alla riscoperta della dignità dell'uomo e della sacralità della natura.

Una sacralità e una dignità che, peraltro, difficilmente potranno essere concepite e pensate al di fuori di una visione in qualche modo aperta alla trascendenza e al divino, di una lettura del mondo che veda nell'uomo l'immagine e la semenza del creatore, e nella natura – attraverso quella che la metafisica chiama analogia entis, e che è, etimologicamente, proiezione e slancio verso l'Altro e il Mistero – un riflesso, pur se graduato e mediato, dell'oscuro splendore dell'essere, dell'«arcano mirabile e spaventoso», come lo chiamava Leopardi, racchiuso nell'esistenza universale.

È di questi ultimi tempi la scoperta, meravigliosa e angosciante, del più vasto “buco vuoto” fino ad ora osservato nell'universo. Proprio con la “materia oscura”, con l'“energia oscura” alcuni identificano la “quintessenza”, l'“etere”, di cui si diceva.

E proprio in quell'energia e in quella materia – enigmatiche, opache, difficilmente osservabili e quantificabili, in definitiva occulte – il Nobel Frank Wilczek (scopritore della “libertà asintotica”, irrazionale ed imprevedibile allo sguardo dell'uomo, che agisce nel regno subatomico) ha potuto cogliere ed ascoltare «la musica del vuoto», un'armonia misteriosa e perturbante.

Uno dei fondamenti della visione platonico-cristiana – l'idea, cioè, dell'armonia, per quanto muta, incommensurabile, quasi inconcepibile, che «tempera e discerne» la vita universale – sembra aver trovato così un nuovo valore, una nuova sfumatura, una nuova “condizione di pensabilità”.

L'infinitamente grande e l'infinitamente piccolo paiono tramati ed interconnessi da corrispondenze sottili, tanto più essenziali quanto più complesse ed interlocutorie. «Abyssus vocat abyssum».

Ben al di là dei nuovi atei con il loro materialismo riduzionista, il loro fenomenismo superficiale e semplicistico, la loro divulgazione ludica e fatua, la fisica e la cosmologia paiono, oggi, aprire nuove ed insospettate vie all'ontologia, alla metafisica, alla teologia.    

Forse si dovrebbe tornare a Nicola Cusano, alla sua «docta ignorantia». E capire che ciò che al nostro esiguo sguardo prende la sembianza desolata del nulla, dell'assenza, del vuoto, dell'insensatezza, del più evanescente enigma, del più disperato disordine, è in realtà, forse, la traccia del “possest” minimo e massimo, temporale ed eterno, la traccia, immobile e vorticosa ad un tempo, della possibilità infinita, della sconfinata onnipotenza dell'Essere.  



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