L'antefatto: nel 2008 al centro dell’attenzione vi fu il salvataggio di Alitalia.
Berlusconi, già in campagna elettorale, aveva invocato che la compagnia di bandiera restasse pienamente italiana, contestando il piano di salvataggio predisposto sotto il governo Prodi, che prevedeva la vendita ad Air France (la quale avrebbe pagato le azioni in possesso del Tesoro e si sarebbe accollata tutti i debiti).
Vinte le elezioni, da Presidente del Consiglio Berlusconi si impegnò in prima persona per costituire una cordata di imprenditori italiani capaci di gestire la compagnia privatizzata e ristrutturata. Questa cordata, però, non era in grado di offrire per l'acquisto le stesse condizioni di Air France: l’operazione costò allo Stato italiano oltre 3 miliardi di euro.
In un nostro articolo accogliemmo positivamente la privatizzazione, che segnava la fine di un’epoca in cui Alitalia – carrozzone pubblico – bruciava ogni anno centinaia di milioni di euro con una gestione costellata di sprechi scandalosi. Ci interrogammo però sulla bontà della soluzione individuata: non solo per i costi, ma anche perché sembrava una strada ricca di incognite.
Innanzitutto: la strategia industriale disegnata (voli a corto e medio raggio) non sembrava quella giusta per conservare autonomia e non finire in ogni caso come satellite nell’orbita di un grande partner straniero (Air France nel 2009 ha acquisito il 25% della compagnia…).
Ma, soprattutto, c’era il "rischio" (?) che i soldi utilizzati per salvare la cosiddetta “italianità” della compagnia (anche a voler concedere che un esborso pubblico a tal fine possa ritenersi opportuno) si rivelassero poi una spesa inutile, qualora la compagnia fosse in ogni caso finita in mani straniere.
In quell’articolo, infatti, annotavamo: “Il decreto governativo adottato per l’Alitalia ha posto agli azionisti italiani la condizione di non alienare la loro partecipazione per almeno cinque anni. Ma questa condizione è recepita solo nello statuto di CAI (che potrà essere cambiato al verificarsi di determinate condizioni, come la quotazione in borsa). Fra cinque anni, in ogni caso, potrebbe accadere che imprenditori che non hanno vocazione per questo tipo di attività industriale decidano di vendere la loro quota, realizzare l’eventuale plusvalenza, e lasciare campo libero ad una grande compagnia straniera. Ciò accadrebbe subito dopo le prossime elezioni politiche (il termine dei cinque anni non è casuale), così Berlusconi non potrebbe essere accusato in campagna elettorale di aver sponsorizzato un’italianità rivelatasi insostenibile...”
Ebbene: è notizia recente che la crisi di Alitalia è riesplosa (forse prima di quanto prevedesse Berlusconi). La compagnia, nonostante la forte ristrutturazione, perde ormai 630mila euro al giorno; nei quattro anni di gestione privata sono stati accumulati 735 milioni di passività, bruciando quasi tutto il capitale.
I soci italiani non hanno ovviamente le risorse per ricapitalizzare e rilanciare la società. La stessa Air France ha dichiarato che, poiché attraversa un momento in difficoltà, non è attualmente interessata ad accrescere la sua partecipazione (forse una tattica per limitare l’esborso). Si è ipotizzato l’intervento di Etihad, la compagnia di Abu Dhabi.
Eravamo stati facili profeti...