Paola Liberace
Contro gli asili nido.
Politiche di conciliazione e libertà di educazione
Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ), 2009
È il crollo di un mito. E di un mito che sembrava indistruttibile. Stiamo parlando del modello culturale che per decenni ha incoraggiato i genitori ad affidare i propri figli alle “strutture”, fin dalla più tenera età. Il nido d’infanzia è il simbolo perfetto, quasi un totem sacro di questo paradigma, in base al quale l’educazione è una faccenda troppo seria per essere consegnata a quei dilettanti che sono i genitori, e dunque è molto meglio ricorrere alle professioniste dell’asilo.
Questa idea si è consolidata anche nel nostro Paese, diventando una sorta di certezza incontrovertibile. Oggi, una buona fetta dell’opinione pubblica è convinta che il modo migliore di allevare i figli consista nel loro inserimento in strutture realizzate o finanziate dallo Stato; il progresso della nazione e l’emancipazione della donna sarebbero direttamente proporzionali alla diffusione sul territorio dei nidi comunali e privati. Con un effetto evidente anche sul piano politico: costruire nuovi asili nido significherebbe essere “per la famiglia”.
Il crollo di un mito
Fino all’altro ieri, mettere in discussione i benefici pedagogici degli asili nido sarebbe apparsa un’eresia ai più. Ma il mito sta per crollare. I sintomi di questa inversione culturale sono molteplici: una diffusa “stanchezza” dell’ideologia femminista; la ribellione di molte donne al modello obbligato della carriera fuori casa e della “realizzazione professionale a ogni costo”; voci sempre più autorevoli e insospettabili che escono dal coro e lanciano l’allarme educativo. Nel 2009 il britannico Institute of Child Healt ha diffuso uno studio che dimostra come i figli delle madri lavoratrici siano peggio alimentati dei figli di madri casalinghe, consumino più bevande zuccherate, passino più tempo davanti al computer e alla Tv, camminino meno, con conseguente tendenza al sovrappeso.
Insomma: il vento è cambiato. E il segno più clamoroso viene da un libro edito da Rubbettino, il cui titolo non lascia spazio all’equivoco: “Contro gli asili nido”. L’autore é Paola Liberace: una donna, e una donna che lavora. La Liberace non vuole eliminare i nidi d’infanzia – ai quali riconosce una funzione in certe situazioni critiche – ma ne mette seriamente in discussione il modello educativo. Il libro di Paola Liberace è una vera e propria miniera di notizie e di dati, che smonta pezzo per pezzo la robusta barriera ideologica costruita intorno al moloch del nido.
Il modello di riferimento: la DDR
All’inizio di tutto ci fu lei, la DDR, satellite dell’Unione Sovietica. Fu la Germania comunista a organizzare un sistema capillare di servizi educativi per la prima infanzia. Ai tedeschi dell’Est si deve il copyright degli asili nido «universali», pubblici e aperti a tutti. Nel 1989 circa l’80% dei bambini fino ai due anni frequentava gli asilo nido statali, e il 95% dei bambini fino ai tre anni le scuole materne. I piccoli tedeschi dell’Est stavano al nido un minimo di dodici ore al giorno, dalle sei del mattino fino alle sei del pomeriggio, con la possibilità di usarne anche il sabato. Risultato? Le tedesche dell’Est costituivano circa il 49% della forza lavoro del Paese (contro il 38% in Germania ovest).
Ma quali sono stati gli effetti pedagogici e psicologici sui figli cresciuti negli asili nido di Stato? Le ricerche condotte parlano di ripercussioni deleterie, derivanti dalla precoce e drastica separazione dei bambini dalle madri e dall’educazione rigorosamente collettiva, che ha lasciato segni indelebili sulle loro coscienze: dall’aggressività nei confronti degli stranieri, alla incapacità di relazioni stabili e durature.
I membri della Società Psicoanalitica Tedesca (Deutschen Psychoanalytischen Vereinigung) nel 2007 hanno sottoscritto un Memorandum nel quale si afferma l’esistenza di un pericolo non trascurabile per la salute psichica del bambino cresciuto al nido, che aumenta tanto più piccolo è il bambino, tanto più è lungo il soggiorno quotidiano in asilo, tanto più è numeroso il gruppo di bambini, e tanto più frequentemente si avvicendano le educatrici. Secondo il Memorandum, nei primi tre anni di vita la stabilità delle relazioni affettive è decisiva per preparare il bambino alla separazione dalla madre e dal padre. Emergono critiche anche nei confronti della baby sitter, che può alimentare una conflittualità tra madre biologica e tata.
I miti della “socializzazione” e della “qualità del rapporto”
«Almeno fino ai tre anni di vita – scrive Paola Liberace – l’unica relazione fondamentale per i bambini è quella con i propri genitori, dalla quale dipenderà l’atteggiamento complessivo verso gli altri». E la famosa “socializzazione” del bambino? Fino ai due-tre anni di età, non ha molto senso parlare di interazione sociale. Prima di quell’epoca, l’esigenza insopprimibile dei bimbi resta quella di crescere in una struttura di relazioni familiari affettivamente stabile, invece che in quella del costante confronto con altri bambini. Quanto alla possibilità dei bambini stessi di interagire con i coetanei, soprattutto ludicamente, Paola Liberace documenta che questa capacità si consolida solo intorno ai tre anni, prevalendo prima la tendenza al “gioco solitario”.
Anche il mito della “qualità” del tempo trascorso con i figli, che sarebbe da privilegiare rispetto alla “quantità”, crolla sotto i colpi dell’evidenza: proprio la presenza fisica prolungata del padre e della madre risulta necessaria per l’equilibrata maturazione della personalità. La Società Psicoanalitica Tedesca ricorda che più a lungo dura la separazione tra genitori e bimbi, maggiore è il livello di produzione di ormone dello stress da parte di questi ultimi.
Le conclusioni di Paola Liberace sono inquietanti: «Prepariamo la strada a una generazione senza famiglia: non siamo affatto in grado di prevedere quali saranno le ripercussioni di questa situazione su una società che tra venti o trent’anni sarà composta, nella sua parte più vitale, dagli stessi bambini che oggi trascorrono la maggior parte del tempo senza mamma e papà».
Il “ritardo” del mondo cattolico
Il dato più sorprendente è che, tanto in Italia come in molti altri Paesi, le mamme desiderano sempre più spesso di potersi dedicare direttamente ai loro bambini in tenera età. Dunque, il modello del nido costituisce sempre più spesso una risposta ideologica e statalista a una domanda diversa.
Senza dimenticare che i nidi sono in termini economici un vero salasso per le casse pubbliche: da uno studio dell’Istituto per la Finanza e l’Economia Locale (Ifel), si evince che ogni bambino ospitato in un asilo nido costa oggi circa 15.000 euro al mese. Per il triennio 2007-2009 il Governo Prodi aveva programmato un investimento sui nidi per 771 milioni di euro. Anche a causa di questi numeri enormi, sta montando nella società italiana una nuova tendenza culturale, che vuole restituire un ruolo fondamentale alla presenza della mamma accanto al figlio. Come scrive Valentina Aprea nella prefazione al libro della Liberace, «la cultura della maternità e della famiglia nel nostro Paese è stata per troppo tempo accantonata, a favore di due parole d’ordine principali: femminismo ed emancipazione, declinate sempre in modo dogmatico».
Gli studi sugli effetti della lontananza della madre nella prima infanzia parlano di problemi del comportamento e dello sviluppo cognitivo, di peggiori risultati scolastici nella tarda adolescenza e in età universitaria. Gli stessi studi mostrano che gli effetti dell’assenza paterna sono molto meno consistenti, indice di una asimmetria solo in parte sanabile dalle politiche di conciliazione tra vita e lavoro. Insomma: madre e padre non giocano lo stesso ruolo, ed è la natura a stabilirlo.
Peccato siano ancora molte le resistenze ideologiche a queste evidenze. In particolare, proprio nel mondo cattolico si osserva talvolta un sorprendente ritardo su questa materia: mentre intellettuali laici lanciano l’allarme “asili-nido”, non è raro imbattersi in documenti pastorali o in politici “cattolici” che invocano l’interventismo dello Stato e la sostituzione delle strutture a mamma e papà. Significativo un passo del programma elettorale del Partito Democratico italiano che, nel 2008, prometteva asili nido aperti tutto l’anno, tranne la settimana di Ferragosto. È proprio vero che chi sposa le mode è condannato a rimanere, molto presto, vedovo.
Pubblicato su Il Timone n.90 col titolo Il nido? Meglio la mamma.
A completamento di quanto scritto nell'articolo, bisogna ricordare che il libro non propone di "costringere le donne a restare a casa", come potrebbe commentare qualche polemista prigioniero dei suoi pregiudizi. L'autrice dedica grande attenzione alle politiche di reale sostegno alla famiglia e di "conciliazione" tra lavoro e maternità: l'accesso reale al part-time (diffuso in tutta Europa e ostacolato in Italia), l'estensione dei tempi di congedo parentale retribuito (anche qui in molti Paesi si fa meglio di noi), politiche per il reinserimento professionale delle donne che decidono di prendere periodi di aspettativa nei primi anni di vita dei figli, politiche fiscali di riconoscimento dei carichi familiari e del lavoro di cura domestico. Si tratta di tener conto non solo della salute psico-fisica dei figli, ma anche dell'effettiva libertà di scelta delle donne, che non debbono essere obbligate - come purtroppo accade - a trascurare il loro desiderio di accudire i figli, perché pressate dal bisogno economico e ostacolate da un mercato del lavoro rigido.