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Notizie - Attualitą e Costume
Omicidio di Sarah Scazzi: il frutto di un "amore" malato? Stampa E-mail
Il "giallo" di Avetrana e i suoi risvolti sociali
      Scritto da Giovanni Martino
29/11/10

Perché alcuni casi di cronaca nera, come quello di Avetrana, suscitano l’attenzione – a tratti morbosa – dei media e delle persone?

E ancora: è possibile riflettere su questi casi senza scadere nel pettegolezzo o nel giudizio estemporaneo? Senza partecipare al circo degli “inviati” petulanti, degli “esperti” reali o improvvisati (e in ogni caso ben remunerati), degli “opinionisti” smaniosi di protagonismo, dei conduttori ed autori dei programmi disposti a tutto pur di aumentare l'audience (=entrate pubblicitarie=soldi)?


Diritto di cronaca o diritto al pettegolezzo?

Diciamo subito che puntare i riflettori sulla cronaca nera non è di per sé sintomo di voyeurismo.

La giusta attenzione alla riservatezza delle persone non può farci dimenticare che questo diritto va contemperato con altre esigenze, come quella della comunità di difendersi da quanti attentino alla sua tranquillità.

Il carattere pubblico delle indagini (per quanto possibile) e dei procedimenti giudiziarî non è una novità della “società dell’immagine”, ma una consolidata tradizione degli Stati democratici, posta a garanzia del fatto che non ci siano sottovalutazioni o insabbiamenti. Ma anche a garanzia degli imputati, affinché non ci siano capri espiatorî e condanne sommarie.

La questione, ovviamente, è se l’attenzione dell’opinione pubblica, e dei media che la informano, sia rivolta solo all’accertamento della verità; o anche al soddisfacimento della curiosità – questa sì morbosa – verso aspetti personali che nessuna attinenza hanno con le vicende delittuose, soprattutto quando investono persone su cui esistono solo sospetti.

La diffamazione può esserci non solo quando si raccontano bugie, ma anche quando si raccontano “verità” non necessarie, magari debolezze che non è necessario esporre. La macchia alla “buona fama” di una persona è un danno irrimediabile.

Ancor più grave e immotivata, ovviamente, è l’invadenza nella vita privata che investe i familiari dei colpevoli, dei sospettati, o – addirittura – delle persone uccise o oggetto di violenza.

Insomma: esiste un confine tra diritto di cronaca e diritto al pettegolezzo. Se questo confine non è rispettato, la “vittima” non è più solo la persona uccisa; vittima può diventare anche chi entra nell’ingranaggio micidiale del sospetto e del pettegolezzo.

Nella “società dell’immagine”, ovviamente, le degenerazioni dell’informazione, i danni alla dignità delle persone sono amplificati.

Bisognerebbe aggiungere che il danno non è fatto solo ai protagonisti più o meno volontarî delle vicende di cronaca.
Il danno lo fanno anche a se stessi i consumatori instancabili di tali vicende, quanti vi dedicano ore ed ore  - tra telegiornali, “approfondimenti”, talk shows, ecc. o, addirittura, ‘pellegrinaggi’ sul luogo del delitto (!) -  sottratte a impieghi ben più costruttivi. Costoro si rifugiano in una realtà esterna (troppo spesso manipolata, virtuale) perché, forse, non riescono ad affrontare i nodi della propria vita. O magari perché in quelle vicende trovano elementi di insana consolazione; ma di questo parliamo tra poco.


Perché alcuni casi si impongono all’attenzione?

Tra tanti – troppi – casi di cronaca nera, alcuni si impongono all’interesse dell’opinione pubblica.

Nella vicenda di Sarah Scazzi - la quindicenne di Avetrana scomparsa e poi ritrovata uccisa in un pozzo in campagna grazie alla confessione dello zio, Michele Misseri - l’attenzione dei media è stata inizialmente richiamata dai familiari stessi, visto che si trattava di una scomparsa e si sperava che diffondere le fotografie della ragazza potesse facilitarne il ritrovamento. E forse quest'attenzione ha dato un contributo alla soluzione investigativa del caso, creando sulla famiglia Misseri una pressione difficilmente sostenibile.

Un altro elemento che suscita la curiosità del pubblico è la natura di “giallo”.

Nel caso di Avetrana, ricordiamo i dubbî che sin dall’inizio hanno accompagnato la vicenda: che fine ha fatto Sarah Scazzi? È scappata? Si sentiva soffocata dalla vita di un piccolo centro? È stata rapita? Come possono essere interpretati i messaggi su facebook?

E dopo la prima confessione dello zio: perché Michele Misseri ha attirato l’attenzione su di sé facendo ritrovare il cellulare della vittima? Desiderio inconscio di espiare o tentativo di coprire qualcuno? Ha confessato tutto? Se la colpevole è Sabrina Misseri (la figlia di Michele e cugina della vittima), qual è il movente?

Quello di Avetrana, peraltro, è un giallo - per così dire - al femminile (il pubblico che sembra più attento alla vicenda), in cui ai dubbi sull'assassino si aggiungono quelli sul movente, che appare a matrice "sentimentale".

Il “giallo” attrae senz’altro. Ma alcuni “gialli” attraggono più di altri.

Negli ultimi anni ricordiamo per il particolare clamore suscitato, oltre a quello di Avetrana, anche i delitti di Novi Ligure, di Cogne, di Erba, di Garlasco, di Perugia. Che cosa li distingue da altri casi giudiziarî che hanno fugacemente fatto la loro comparsa nella cronaca di giornali e televisioni?

Probabilmente qualche sociologo o studioso di psicologia collettiva avrà già formulato riflessioni al riguardo.
Senza volerci improvvisare “esperti”, ma cercando solo di offrire uno spunto di riflessione, ci sembra di poter rilevare come i “casi” che appassionano maggiormente il pubblico siano quelli che, al tempo stesso, gli consentono un’immedesimazione e lo spiazzano, rompono uno schema consolidato.

I delitti che si verificano negli ambiti della vita quotidiana (famiglia, amicizia, vicinato, lavoro), ad esempio, destano più curiosità di quelli legati al crimine organizzato o a interessi economici. “Chissà se sarebbe potuto capitare anche a me”, “Chissà come mi sarei comportato in quella circostanza”: sono probabilmente domande che si affacciano all’inconscio delle persone.

Però, tra i delitti che investono la vita quotidiana, alcuni suscitano meno scalpore. Ad esempio quelli passionali. O quelli nati da conflitti di vicinato trascinati nel tempo. Probabilmente perché sono relativamente più diffusi, e su di essi abbiamo costruito uno schema mentale di plausibilità.

Altri delitti, invece, rompono i nostri schemi.
Una sedicenne di buona famiglia uccide la madre e il fratellino per sentirsi “libera” nella propria vita sentimentale (Novi Ligure).
Una madre uccide un figlio piccolo (Cogne). Con un marito che la difende a spada tratta e concepisce con lei un nuovo bambino.

Sono delitti spiazzanti, quindi. Ma non “assurdi”, inconcepibili (altrimenti perderebbero di ogni interesse). Fuoriescono dalle comuni regole morali e razionali, ma esiste un timore inconfessato che l’immoralità e l’irrazionalità che esprimono possano emergere. Come dimostrano le lettere di ammiratori e spasimanti ricevute in carcere da alcuni di questi assassini. 


Avetrana: la tragedia di un amore “malato” che non ci è estraneo?

Il delitto di Avetrana, forse, è quello che più di ogni alto risponde a questi requisiti.

La ricostruzione al momento più plausibile è quella basata sull’ultima confessione di Michele Misseri, oltre che sugli elementi di prova raccolti dagli inquirenti: l’autrice del delitto sarebbe la figlia di Michele, Sabrina. Il movente, benché non emerso da nessuna confessione, potrebbe essere la gelosia nei confronti di un ragazzo della comitiva frequentata dalla presunta omicida e dalla vittima.

Intendiamoci: ancora non è iniziato alcun processo, e Sabrina è innocente fino a sentenza passata in giudicato.

Ma la nostra riflessione non è puntata su chi sia il vero colpevole, bensì sulle ragioni di questa esasperata attenzione dell’opinione pubblica. Attenzione che si fonda proprio sul quadro che abbiamo descritto.

Se ad esempio fossimo rimasti alla prima versione dei fatti, ossia che l’unico colpevole era lo zio autore di molestie sessuali, probabilmente l’attenzione mediatica si sarebbe ben presto sgonfiata: sarebbe stato trovato il cosiddetto “orco”, che consentiva di relegare la colpa in una sfera di estraneità quasi mitologica.

Se invece il colpevole è la cugina affettuosa, la “ragazza della porta accanto”, siamo più disorientati.

Ed ancora più spiazzante è il movente: la gelosia. Cioè, si badi bene: l’ "amore".
“Amore”, ovviamente, non nell’accezione alta e nobile: dono di sé, desiderio del bene dell’altro.
Parliamo di “amore” in una diversa accezione che si va diffondendo nella nostra società, espressione di un concetto ‘malato’: amore come possesso,, amore come desiderio-diritto incontrollatoamore come esclusiva passione sessuale, amore come affermazione di sé
.

In nome di questo “amore” si può uccidere, a quanto sembra.
Si può uccidere per difendere non un rapporto reale, concreto (il ragazzo desiderato aveva rifiutato le avances di Sabrina), ma un amore virtuale, immaginario.
Si può uccidere non una concorrente reale, una persona che insidia l’oggetto dei nostri desiderî, ma una ragazzina indifesa che ha il solo torto della vitalità, della freschezza, della fiducia (doti che forse mettono in risalto le nostre insicurezze).

La gelosia che esplode, insomma, non è l’alterigia o la disperazione di chi vede concretamente aggredita la propria esistenza (uno schema mentale che conosciamo), ma la folle pretesa di costruire il proprio “amore” sull’azzeramento dei sentimenti – e della vita - altrui. Il ragazzo desiderato avrebbe dovuto “scegliere” la ragazza che lo desiderava non perché rapito dalle sue qualità umane, ma perché… privato di ogni alternativa!
Una pretesa “folle”, certo. Ma siamo sicuri che questa “follia” non vada diffondendosi? Siamo sicuri che il concetto di “amore” malato, esploso in questa vicenda, non possa esplodere anche in altre circostanze? Non è proprio questa inquietudine che attira la nostra attenzione?

Sono allarmanti le lettere di ammirazione ai presunti colpevoli (pare ne siano già arrivate anche in questa vicenda). Ma anche le aggressioni verbali e telefoniche alla famiglia Misseri (“Assassini!”): aggressioni che forse cercano di esorcizzare l’inquietudine di cui parliamo.

Il giudizio più equilibrato sui “colpevoli” di questa vicenda ci sembra lo abbia espresso la madre di Sarah, Concetta: “Non provo odio, ma molta pena”. “Non mi sento né di giudicare né di perdonare. Per perdonare ci vuole un percorso”.
Un equilibrio che molti hanno definito “freddezza”, “asprezza”: probabilmente delusi perché la curiosità morbosa non è stata saziata da una madre che esprimesse la sua disperazione in maniera plateale.
Forse Concetta Serrano Spagnolo è anche una donna indurita da una vita difficile. Ma ha saputo dimostrare dignità.



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