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Notizie - Nel Mondo
"Tea Parties", antidoto all’oppressione statalista Stampa E-mail
Parte dagli USA un nuovo movimento anti-tasse
      Scritto da Mariopaolo Fadda
12/07/10

“Prima ti ignorano, poi ti insultano, poi ti combattono. Poi vinci”
(M. Gandhi)

I manifestanti di Washington ricordano la protesta dei primi coloni americani contro le tasse della Corona inglese
I manifestanti di Washington ricordano la protesta dei primi coloni americani contro le tasse della Corona inglese

Negli USA la vicenda del salvataggio delle compagnie bancarie, finanziarie ed automobilistiche ed in Europa la vicenda della Grecia, in attesa di altre sorprese, ha mostrato dove conduce l’ideologia statalista.

Scrive Glenn Beck, commentatore di Fox News, nel suo libro Common Sense: “Se siete come me, avete sbagliato molte cose nella vita, ma tutto questo è il prologo di questo momento. Quelle esperienze ci hanno dato saggezza, umiltà e il senso profondo di un’emozione che molta gente tenta duramente di evitare: il fallimento. Ma quelli di noi che hanno fallito comprendono che è un passo necessario per arrivare al successo, un passo che reti di salvataggio e interventi statali cercano di bypassare con scorciatoie. Quello che esperti ed élitari non capiscono è che queste scorciatoie hanno un prezzo. Il risultato di impedire il fallimento in un paese radicato nella libertà è un paese non più a lungo radicato nella logica”.
E di logica l’Europa e gli USA dei burocrati e degli statalisti, che hanno usato le scorciatoie stigmatizzate da Beck, non ne hanno davvero più.

Nella più completa dissolutezza e irresponsabilità, una classe politica infima e cinica ci ha convinti non solo a indebitarci fino al collo, ma anche a creare un futuro pieno di debiti per le giovani generazioni. Bisogna riconoscere che gli statalisti, di destra e di sinistra, lo hanno fatto con maestria, senza ricorrere alla violenza fisica, al gulag, ai carri armati. Hanno usato la sottigliezza dell’indottrinamento subliminale, il totalitarismo dolce. In questo modo lo Stato onnipotente si intromette, impercettibilmente, giorno dopo giorno nella nostra vita privata, controllandone i più piccoli dettagli.

Ci prendono letteralmente per la gola. Sapendo che siamo insaziabili e che vogliamo tutto e subito, ci incoraggiano a indebitarci per le settimane bianche, la seconda auto, le vacanze esotiche, i più sofisticati e costosi gadgets elettronici, gli abiti griffati. Dimenticando che i nostri genitori e i nostri nonni si affidavano ai debiti solo per comprare una casa o, al limite, la macchina. Ma, prima o poi, arriva il momento di saldare il conto e, con le finanze in rosso, non abbiamo altra via che mendicare alla tavola degli istigatori. Che sono ben contenti di darci una mano, sotto forma di “favori” (sussidi, prestiti a tassi agevolati, contributi, sanatorie, ecc.), per alleviare il fardello. A questo punto il gioco è fatto, siamo schiavi senza più nessuna dignità.

Alexis de Tocqueville metteva sull’avviso, in La democrazia in America, sulla schiavizzazione dell’uomo attraverso i piccoli dettagli della vita.

Siamo diventati una massa assistita, sfamata, curata e accasata da uno Stato-balia e non facciamo più caso all’usurpazione di potere di questi politicanti.
Scriveva il filosofo inglese C. S. Lewis: “Di tutte le tirannie, quella esercitata sinceramente per il bene delle sue vittime è la più oppressiva. Sarebbe meglio vivere sotto baroni rapinatori che sotto onnipotenti ficcanaso moralisti. La crudeltà del barone rapinatore può qualche volta assopirsi, la sua cupidigia ad un certo punto essere sazia, ma quelli che ci tormentano per il nostro bene ci tormentano senza fine e lo fanno in piena coscienza”.

Non tutti, però, cadono facilmente in questa subdola trappola. Quindi che cosa si inventano gli statalisti per “convincere” i riluttanti a rifugiarsi tra le braccia protettive dello Stato onnipotente? Emergenze reali o immaginarie, quali il riscaldamento terrestre, l’inquinamento, la sovrappopolazione, la disoccupazione, la povertà, i terremoti e via dicendo.

Attraverso ben orchestrate campagne propagandistiche, che si avvalgono di una stampa servile, di scienziati-squillo, di chierici parastatali e della nostra arrendevolezza, ci convincono che sono necessarie misure draconiane per impedire queste imminenti “catastrofi” e che è necessario aumentare le tasse, imporre onerose restrizioni alle attività industriali e commerciali, limitare ulteriormente le nostre libertà e, soprattutto, ampliare i poteri di intervento dello Stato.

Alla fine ci rassegniamo al fatto che i burocrati decidano al posto nostro cosa è buono o no, cosa è giusto o no, cosa è preferibile o no. Nella nostra apatia non ci rendiamo conto del prezzo da pagare a questa resa incondizionata. Se lo Stato gestisce la sanità, perché meravigliarsi se questo decide di imporci una dieta contro l’obesità, di sanzionarci se non smettiamo di fumare o di staccare la spina quando ritenga che sia inutile continuare a tenerci in vita? È una questione pratica. Inutile appellarci alle libertà dell’individuo, sono i burocrati che - ora in nome della “prevenzione” ora in nome di una “morte dignitosa” - decidono per noi.
E dobbiamo fidarci ciecamente, perché la loro è una strada lastricata solo di buone intenzioni. Mirano ad una società composta di individui sani, fisicamente prestanti ed economicamente produttivi e al diavolo i figli indesiderati (aborto), gli handicappati e i malati terminali (eutanasia). A Sparta non avrebbero saputo fare di meglio.

E loro (gli statalisti), non bastassero le fallimentari esperienze delle poste, dei trasporti pubblici, del sistema pensionistico e della sanità pubblica, continuano a creare a ritmo quotidiano programmi ed enti governativi che intervengono e interferiscono con il libero mercato, creando distorsioni che si ripercuotono di conseguenza sulla libertà personale.
Quando poi si vedono gli effetti perversi di questo interventismo, danno la colpa al libero mercato e insistono che ci vogliono più programmi e più agenzie governative e… più tasse. E così all’infinito in una folle corsa verso il suicidio collettivista.

Negli Stati Uniti il movimento dei Tea Parties ha il grandissimo merito di aver lanciato l’allarme sugli effetti devastanti di questa deriva statalista. La grande stampa americana, schierata compatta a fianco di Obama, ha prima ignorato le manifestazioni di dissenso, poi ha insultato ripetutamente i cittadini che dissentivano additandoli ora come “plebaglia”, ora come “razzisti”, ora come “servi delle grandi compagnie”.

I risultati di questi comportamenti si sono visti subito: i democratici e Obama sono precipitati nei sondaggi; Fox News ha visto impennarsi i propri indici di ascolto, e nelle ore di maggior audience si è ritrovata con un numero di spettatori superiore a quello di ABC, MSNBC e CNN messi insieme.
Nelle elezioni che si sono tenute nel frattempo, i democratici e Obama hanno rimediato solo sconfitte.

Anche in Italia il movimento dei Tea Parties è stato sottovalutato e snobbato. La stampa ha fatto quello che è ormai diventata la sua ragion d’essere: disinformare. Gli inviati dei maggiori quotidiani italiani sono troppo impegnati a frequentare i salotti chic di Washington e New York, a tessere lodi sperticate del Messia-Obama, per interessarsi di quello che succede nel paese reale.

I Tea Parties riecheggiano lo storico Tea Party di Boston del 1773, considerato, di fatto, l’inizio della rivoluzione americana. Si trattò della reazione dei coloni ad una delle tante tasse, quella volta sul tè, imposte dalla corona inglese per coprire i costi della guerra contro la Francia e contro i nativi americani.

Oggi Tea è l’acronimo di “Taxed Enough Already” ("già tassati abbastanza"). Ma qual è la natura di questo movimento che il 12 settembre del 2009 ha portato a Washington tra un milione e mezzo e due milioni di manifestanti?

Il movimento nasce come reazione alla statalizzazione dell’economia, che destina migliaia di miliardi al salvataggio di aziende private. Una manovra iniziata da Bush e cavalcata ambiziosamente da Obama e dall’ala liberal del partito democratico. La gran parte degli americani che lavora sodo, vive prudentemente e spende saggiamente si ribella nel vedere che con i propri soldi vengono salvati dal fallimento quelli che fanno esattamente l’opposto.

Non a caso i Tea Parties, nascono negli Stati Uniti e non conoscono corrispondenti nel vecchio (davvero vecchio) continente. Mentre in Europa gli Stati allargano allegramente il debito pubblico ed i cittadini se ne disinteressano, negli USA, quando il governo lo triplica, nello spazio di un paio di mesi i cittadini reagiscono immediatamente a quello che considerano un attacco alla loro libertà personale ed economica.
Un indebitamento e uno sperpero di risorse per perseguire il sogno (folle) di impiantare il socialismo negli Stati Uniti. Thomas Jefferson, l’autore della dichiarazione d’indipendenza, riteneva il debito pubblico non solo una pessima politica economica, ma moralmente inaccettabile perché rende le generazioni future responsabili dei nostri debiti.
Un cartello esibito alla manifestazione di Washington diceva: “Mio figlio, nato appena ieri, debiti =$ 38,000”.

I capisaldi dei Tea Parties sono tre: la responsabilità fiscale, la delimitazione dei poteri dello Stato e il libero mercato.

Questi tre punti non sono altro che l’estrema sintesi di quel pensiero conservatore che, contrariamente alle apparenze, è ben radicato nella maggioranza degli americani (confermato da un recente sondaggio che vede i conservatori sovrastare i liberals in tutti e cinquanta gli Stati).
Un pensiero che ritiene le libertà individuali non un fardello che impedirebbe di realizzare il paradiso sulla terra, ma il fondamento di quella che chiamiamo società civile: cioè un contratto sociale in cui l’individuo è qualcosa di unico, un essere spirituale dotato di coscienza e consapevolezza, non una cosa astratta o un numero di un gruppo. Pone quindi l’accento sull’individuo ed il suo diritto a vivere in libertà, il cui unico limite è il rispetto della libertà altrui.

I conservatori non ritengono che lo Stato debba limitare le nostre libertà individuali e trasferirle a gruppi sociali o ad organizzazioni di qualsiasi specie; credono invece in un equilibrio tra l’autorità governativa e le libertà individuali, vero e proprio antidoto contro la tirannide comunque mascherata, di destra o di sinistra.

Trovano futili i vagheggiamenti su una società di uguali e perfetti, sotto l’ala protettrice dello Stato. Essi intendono l’uguaglianza come il diritto di ogni individuo di vivere libero, di acquisire la proprietà di ciò che lui stesso crea e produce, di essere trattato imparzialmente di fronte alla legge. L’uguaglianza non è perfezione, giacché l’uomo non è perfetto. Respingono l’idea di uguaglianza di risultati che elimina i migliori ed eleva a valore la mediocrità.

Riconoscono i grandi benefici per la società dovuti all’intraprendenza individuale e per questo difendono e incoraggiano la libera iniziativa. Considerano la proprietà privata la chiave del libero mercato e concordano con quanto affermava John Adams: “L’anarchia e la tirannide iniziano nel momento in cui penetra nella società l’idea che proprietà non sia una cosa così sacra come legge divina e che non ci sia la forza della legge o della giustizia a proteggerla”.

Ritengono il capitalismo il sistema economico più dinamico che si conosca, esso incoraggia la creatività e l’inventività e produce industrie, prodotti, servizi. Crea più ricchezza ed opportunità per la gente di qualsiasi altro sistema economico ed è l’unico che produce in abbondanza cibo, abitazioni, energia, medicine, cioè le cose basilari per l’esistenza umana; ma produce anche beni che aggiungono conforto, valore e sicurezza alla qualità della vita. Grazie al capitalismo la vita media degli individui si è enormemente allungata, le condizioni di vita e di lavoro sono ovunque migliorate, l’analfabetismo è stato quasi debellato, la fame e le carestie praticamente sconfitte, l’acqua è abbondante, a basso costo e di buona qualità. Il progresso in campo medico ha sconfitto malattie e debellato epidemie. Il capitalismo stimola il rischio e la competitività che sono indispensabili al miglioramento qualitativo dei prodotti e dei servizi. Per rendersene conto basta dare uno sguardo alle condizioni economiche, sociali, politiche e culturali dei paesi non capitalisti o anticapitalisti.

Gli statalisti, per propagandare la loro ideologia, offrono ingenti finanziamenti pubblici alla stampa quotidiana e periodica che infatti ricambia con il servilismo più ripugnante. I conservatori credono invece che la stampa, per essere davvero libera, debba confrontarsi nell’arena delle idee con le proprie forze e senza privilegi e, soprattutto, debba essere la frusta, non l’adulatrice, del potere.

Questi sono gli anticorpi che i Tea Parties hanno iniettato in un’America che l’estremismo liberal sta tentando di fiaccare con dosi sempre più massicce di un opprimente e fallimentare statalismo. Già alle primarie alcuni noti congressmen campioni dello “spendi, tassa e regolamenta” si sono ritrovati inaspettatamente disoccupati e, alle elezioni di medio termine di novembre, molti altri rischiano di fare la stessa (ma questa volta prevedibile) ingloriosa fine.

E l’Europa? Stremata da decenni di statalismo paternalistico, infettata dal relativismo culturale e a corto di anticorpi, galleggia inerme in attesa che qualcun’altro (l’odiata America, al solito) la tiri fuori dai guai. Ma dovrà aspettare, perché finché c’è Obama non c’è speranza.



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