Tutte le volte che lo Stato deve reperire risorse finanziarie, si sente dire – da chi vuole impedire tagli alla spesa pubblica o aumenti delle tasse – che “bisognerebbe prima colpire l’evasione fiscale”.
Eppure passano i Governi, ma la lotta all’evasione sembra assomigliare al tentativo di svuotare il mare con il secchiello.
L’evasione siamo ormai in grado di calcolarla, almeno nel suo ammontare minimo, anche perché il “sommerso” concorre alla determinazione del prodotto interno lordo.
L’ammontare ufficiale del PIL, calcolato dall’ISTAT sulla base delle disposizioni di Eurostat, comprende infatti una quota di economia sommersa variabile tra il 15,3% e il 16,9% (dati riferiti al 2009), e quindi per un ammontare oscillante tra i 232 e i 256 miliardi di euro. Applicando a questo ammontare di economia sommersa, cioè di imponibile evaso, la pressione fiscale complessiva (che sempre l’INPS calcola per il 2009, al netto degli oneri contributivi, al 43,2% del PIL), otteniamo un ammontare di imposte non pagate oscillante tra i 100 e i 110 miliardi di euro annui. Il quadruplo della pesante manovra anti-crisi adottata dall’attuale Governo. (Altre stime, meno prudenziali di quelle ISTAT, danno percentuali di evasione ancora maggiori, fino al 24%...).
Intendiamoci: l’evasione non è un’esclusiva italiana. I Paesi europei più virtuosi, come la Gran Bretagna, hanno un tasso di evasione - che potremmo definire “fisiologico” - intorno al 7-10%.
Altri stanno peggio, come la Grecia. E infatti rischiano di arrivare al collasso finanziario…
Il cittadino si pone inevitabilmente alcune domande (forse retoriche): c’è davvero la voglia di colpire l’evasione fiscale?
In caso negativo: perché?
Se invece si arriva al convincimento che l’evasione sia un fenomeno da combattere con decisione, quali sono gli strumenti più adatti?
Questi interrogativi tornano d’attualità con la manovra anti-crisi, che affida ai proventi della lotta all’evasione una parte consistente dei maggiori introiti previsti.
L’opposizione, ad esempio, ha accusato Berlusconi di non essere credibile nella lotta all’evasione, fenomeno che in passato avrebbe in qualche modo giustificato con alcune dichiarazioni, o incoraggiato con alcuni condoni.
Al Governo è stato anche rimproverato di aver fatto marcia indietro su una misura del precedente governo Prodi, la “tracciabilità” dei passaggi di denaro che oltrepassano una certa soglia; misura prima attenuata e poi nuovamente inasprita.
Il Governo risponde ricordando di aver raggiunto i maggiori successi di sempre nella lotta all’evasione, e che questa è alimentata da un’imposizione fiscale eccessiva come quella applicata dai Governi di sinistra.
Chi ha ragione?
Prima di affrontare l’attualità politica, bisogna però rispondere alla domanda iniziale: c’è davvero la voglia di colpire l’evasione fiscale?
La risposta è no; o meglio, esistono diffuse resistenze al riguardo.
Perché?
Per tre ordini di motivi:
1) il calcolo opportunistico della politica, cioè il timore di scontentare gli evasori (che sono numerosi);
2) un’insufficiente percezione dei danni sociali che l’evasione produce;
3) una diffusa mentalità per cui l’evasione fiscale “in una certa misura è giusta o necessaria”.
1) Il “peso politico” degli evasori
Scopriamo l’acqua calda se rileviamo che esiste un problema di “volontà politica” nella lotta all’evasione. Esiste cioè, nei responsabili politici, il timore che combattere decisamente l’evasione significhi scontentare quella categoria sociale che ha la potenzialità di evadere – artigiani, piccoli imprenditori, professionisti, commercianti, il cosiddetto “popolo delle partite IVA” – e che in Italia è molto più numerosa che non in altri Paesi.
Intendiamoci: stiamo cercando di leggere una certa situazione reale, non di dare un giudizio moralistico. Anche perché bisogna assolutamente rifuggire dalle ingiuste generalizzazioni.
Innanzitutto, non tutti i lavoratori autonomi sono evasori (come non tutti i dipendenti pubblici sono “fannulloni”); anzi, gli evasori sono probabilmente una minoranza.
(Però è indubbio che solo in questa categoria - di cui fanno parte anche i dipendenti con doppio lavoro in nero... - si possono annidare coloro che, non avendo trattenute alla fonte, possono materialmente evadere imposte e tasse. Formeranno una minoranza, ma certo molto numerosa - come tutti possono sperimentare - e capace di fare blocco).
In secondo luogo, accanto agli evasori totali più spregiudicati, esistono numerosi evasori parziali, che spesso sono spinti ad evadere da difficoltà economiche.
(Le difficoltà economiche, però, possono “giustificare” un reato? E l’evasione avviene nella misura “strettamente necessaria” a sopravvivere?)
In terzo luogo, va ricordato che la categoria del lavoro autonomo è una categoria che rischia in proprio, che è caratterizzata da spirito di iniziativa e flessibilità, e che contribuisce in maniera importante alla ricchezza del Paese ed anche alla sua capacità di affrontare crisi gravi come quella che stiamo vivendo.
(Anche se non bisogna ‘mitizzare’ il lavoro autonomo: i lavoratori dipendenti sono altrettanto importanti, e forse l’Italia avrebbe bisogno, per crescere, proprio di un maggior numero di imprese di grandi dimensioni, quindi con numerosi dipendenti...).
Va anche detto che la lotta all’evasione non è agevolata da molti lavoratori dipendenti, i quali magari sono contribuenti onesti perché… non possono fare a meno di esserlo. E quando si presenta l’occasione di risparmiare qualche euro non facendosi rilasciare la fattura, contribuiscono ad alimentare un’evasione molto maggiore del piccolo risparmio ottenuto (chi non emette fattura non risparmia solo il 20% dell’IVA, ma anche l’aliquota IRPEF...).
Senza contare che una forma di “evasione” dai proprî doveri, di sottrazione illecita di denaro, è anche quella dei dipendenti che non svolgono con la necessaria diligenza il lavoro per cui sono pagati (piaga, anche questa, su cui la politica chiude gli occhi per opportunismo).
L’evasione ha un colore politico?
Esiste dunque, alla base della timidezza nella lotta all’evasione, un calcolo opportunistico della politica. Parliamo di politica in generale, senza colore, perché rispetto ad un fenomeno sociale diffuso non è serio pensare che possa dipendere solo dall’azione di un Governo, di una forza politica, di un’area culturale.
Negli ultimi decenni, in Italia, tutte le forze politiche sono andate al Governo, e la lotta all’evasione non ha conosciuto significativi scossoni.
Si analizzi un solo dato: Attilio Befera, direttore dell’Agenzia delle entrate (lanciato ai vertici dell’amministrazione fiscale da Visco, ai tempi del primo governo Prodi), durante la conferenza stampa dello scorso 2 marzo di presentazione dei risultati e delle strategie di lotta all’evasione, ha annunciato che nel 2009 sono stati incassati 9,1 miliardi di euro, “realmente entrati nelle casse dello Stato”, ascrivendone il merito anche alle “nuove possibilità d’azione che ci vengono offerte dalla recenti modifiche normative”.
Le entrate del 2009 sono state il 32% in più rispetto al 2008 e il 107% in più rispetto al 2006: un trend ascendente che attraversa le diverse maggioranze politiche (ma che è ancora lontano dall’aggredire in maniera significativa l’enorme mole di evasione).
Detto in maniera ancora più diretta, quindi: non è condivisibile il giudizio generico e liquidatorio secondo cui “gli evasori sono di destra”, o sono protetti dalle forze di destra, mentre “i contribuenti onesti sono di sinistra”, o in ogni caso trovano nella sinistra la forza che combatte con più decisione l’evasione. (E quelli di centro? Evadono solo un po’?)
È vero che le analisi del voto rivelano una maggiore concentrazione di lavoratori autonomi nell’elettorato moderato, e una maggiore concentrazione di lavoratori dipendenti nell’elettorato di sinistra.
Ma fermarsi a questi dati significa dare una lettura banalizzante.
Bisognerebbe anche ricordare, ad esempio, che per il centrosinistra votano soprattutto dipendenti pubblici, mentre quelli privati – che certamente non possiamo annoverare tra gli evasori - propendono per il centrodestra (e al Nord danno larghi consensi alla Lega).
Bisognerebbe ricordare che nelle preferenze elettorali legate alla condizione lavorativa influiscono più le politiche generali delle forze politiche, che non quelle fiscali: i moderati sono considerati più favorevoli alla libera impresa, mentre i progressisti esprimono politiche di interventismo statale.
Una certa timidezza verso i lavoratori autonomi, probabilmente, non alberga solo dalle parti della destra, che li annovera tra i suoi elettori. Ma anche tra la sinistra, che presenta un forte radicamento in alcuni settori dell’imprenditoria cooperativa e del commercio, e che vuole conquistare i voti che le mancano...
In ogni caso, al di là delle percezioni dell’elettorato (che pure hanno un significato), bisogna guardare alle politiche reali adottate dai diversi Governi.
Ciò non significa pensare che tutte le politiche sin qui succedutesi siano indifferenti.
Ma bisogna riconoscere che tutti hanno fatto errori (magari di tipo diverso); non solo nella scelta degli strumenti di lotta all’evasione, ma anche - come vedremo più avanti - nella comprensione del fenomeno e nell’elaborazione delle politiche utili a prevenirlo.
E bisognerebbe altresì riconoscere che da tutte le forze politiche potrebbero venire proposte concrete (e non demagogiche) maggiormente incisive.
Prima di parlare delle soluzioni tecniche, conviene ancora interrogarsi sulle cause della timidezza nell’affrontare il fenomeno.
Non solo il timore di scontentare i potenziali evasori.
Ma anche, come accennavamo, limiti culturali: un’insufficiente percezione dei danni sociali ed economici che l’evasione produce; una diffusa mentalità per cui l’evasione fiscale “in una certa misura è giusta o necessaria”.
2) I danni sociali ed economici dell’evasione
Spesso si guarda all’evasione come ad un pozzo cui attingere risorse finanziarie nel momento in cui si rendano necessarie.
Questo atteggiamento, però, è fortemente limitativo: sottintende che, dopotutto, può essere possibile reperire le stesse risorse altrove, magari con minori costi politici.
In realtà, l’evasione comporta costi economici e sociali ben più elevati del semplice mancato introito di risorse economiche.
Innanzitutto, la pressione fiscale effettiva è molto maggiore di quella ufficiale. Il dato del 43,2% che abbiamo ricordato in precedenza, infatti, si riferisce al totale del PIL, compresa la quota di sommerso. Ma poiché le imposte non vengono pagate da chi produce il sommerso (o non vengono pagate, dagli evasori parziali, per la quota non dichiarata), la pressione fiscale effettiva su quanti dichiarano interamente il loro reddito oscilla tra il 51 e il 51,9%!
La divaricazione in termini di iniquità è evidente: c’è chi versa allo Stato oltre la metà del proprio reddito, e chi invece non versa nulla, o versa il 5/10%.
L’iniquità, poi, ha un effetto moltiplicatore: chi dichiara redditi bassi accede ai servizi sociali (riduzione delle tasse universitarie, asili nido, ecc.) con più facilità di chi guadagna meno ma dichiara di più…
Questa divaricazione in termini di iniquità non danneggia solo i lavoratori dipendenti, ma anche i lavoratori autonomi e gli imprenditori onesti. E ciò ha anche ricadute sul sistema produttivo.
Innanzitutto, l’evasione produce concorrenza sleale: un’impresa meno efficiente, ma senza scrupoli fiscali, può mettere fuori mercato un’impresa efficiente ma rispettosa della legge.
Inoltre, l’evasione induce lo Stato ad imporre aliquote più alte (anche se – va detto – i due fenomeni si influenzano reciprocamente). Imposte più alte significa imprese meno competitive sul mercato estero, meno propense a investire e capitalizzare; significa freno allo sviluppo e compressione dei salarî.
Si può ben capire, dunque, perché l’importanza del pagamento dei tributi è sottolineata anche da chi non è certo sospetto di idolatrare lo Stato, come la religione cristiana, che ne fa oggetto di precise prescrizioni morali.
“Rendete a Cesare ciò che di Cesare, e a Dio ciò che è di Dio”, risponde Gesù a chi gli chiede se sia giusto pagare il tributo all’oppressore romano (Mc 12,17).
“Rendete a ciascuno ciò che gli è dovuto: a chi il tributo, il tributo; a chi le tasse, le tasse; a chi il timore, il timore; a chi il rispetto, il rispetto”, ribadisce San Paolo (Rm 13,7).
“Non pochi non si vergognano di evadere, con vari sotterfugi e frodi, le giuste imposte o altri obblighi sociali”, denuncia il Concilio Vaticano II (Gaudium et Spes, 30).
“La sottomissione all’autorità e la corresponsabilità nel bene comune comportano l’esigenza morale del versamento delle imposte”, ribadisce il Catechismo della Chiesa cattolica (CCC, 2240; cfr. ibidem, 2409).
3) La mentalità per cui l’evasione fiscale “in una certa misura è giusta o necessaria”. Il problema del giusto tributo.
Un ulteriore elemento che determina la diffusione dell’evasione fiscale è la convinzione di molti che questo comportamento possa essere “giustificato”.
Passiamo in rassegna i motivi addotti a giustificazione dell’evasione, aggiungendo qualche considerazione al riguardo.
a) L’evasione di “necessità”: “Evado perché altrimenti non ce la farei ad andare avanti”.
Evadere le imposte, ricordiamolo, significa infrangere precise norme sia giuridiche sia morali.
Può essere invocato uno stato di necessità al riguardo?
Dallo punto di vista giuridico, è evidente che non ci si può affidare al “secondo me”: se il rispetto del diritto fosse affidato al libero convincimento del singolo consociato, non si potrebbe parlare neanche di diritto (una delle caratteristiche delle norme giuridiche di comportamento è la coazione).
È la legge stessa a regolare lo stato di necessità - come esimente che impedisce l’imputabilità per un reato - all'art. 54 del codice penale: "Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo".
Se leggiamo con attenzione l’articolo, capiamo che è davvero difficile ritrovare, nelle ipotesi di evasione fiscale, la presenza di tutti quegli elementi (danno grave, pericolo attuale né altrimenti evitabile, ecc.) che possano davvero consentire di parlare di “necessità”.
Si tratta, com’è evidente, di ipotesi pensate per il classico “furto della mela da parte di una madre che non sa come nutrire un figlio malato”, e non per l’imprenditore che ha timore per il buon andamento della sua azienda.
Dal punto di vista morale il discorso è simile. Il Catechismo della Chiesa cattolica, al paragrafo 2408, ammette che non si possa parlare di furto solo nel “caso della necessità urgente ed evidente, in cui l’unico mezzo per soddisfare bisogni immediati ed essenziali (nutrimento, rifugio, indumenti, …) è di disporre e di usare beni altrui”.
Chi invoca lo stato di necessità per giustificare la propria evasione, quindi, lo fa perché - in maniera del tutto imprevista - si trova nell’impossibilità di mangiare o vestirsi?
O perché si pone il problema di conservare un tenore di vita che considera “dignitoso” (automobile, ferie, ecc.)?
Inoltre, quand’anche fossero presenti difficoltà gravi, possiamo ritenere lo strumento dell’evasione – che è un illecito – uno strumento idoneo e proporzionato per farvi fronte? O non dovrebbero essere presi in considerazione altri strumenti, come l’accesso ad aiuti di carattere sociale, o ad aiuti economici per risollevare l’attività (se questa è risollevabile)?
Insomma, nella stragrande maggioranza dei casi non siamo in presenza di un vero stato di necessità, ma di una valutazione sulla legittimità e l’appropriatezza dei tributi che non si intende pagare: “non pago perché i tributi richiesti sono ‘ingiusti’, in quanto non mi consentono di mantenere un tenore di vita che considero minimo”.
b) L’evasione di “principio”: “Evado perché il tributo richiesto non è ‘giusto’: è troppo esoso, o viene riscosso senza che i soldi - faticosamente guadagnati – che lo Stato mi chiede siano spesi in maniera appropriata”.
L’invocazione dell’evasione di “principio” non è – in astratto – una tesi peregrina o inaccettabile.
La questione se le leggi che si è chiamati a rispettare siano leggi “giuste” si pone legittimamente sia dal punto di vista giuridico sia da quello morale.
Invocare norme “giuste” significa, sul piano giuridico, fare appello al diritto naturale, che oltrepassa gli orizzonti angusti del positivismo giuridico.
Il diritto naturale si pone innanzitutto come ius condendum, diritto da realizzare cercando di cambiare le norme con gli strumenti concessi da un ordinamento democratico.
Altra questione, però, è se l’appello al diritto naturale non è formulato per cercare di cambiare una norma, ma per giustificare il suo mancato rispetto.
Qui siamo nel campo dell’obiezione di coscienza, diritto universalmente riconosciuto (anzi talora considerato dovere da tribunali internazionali), che però è ipotesi associata a casi estremi.
Dal punto di vista morale, similmente, “il cittadino è obbligato in coscienza a non seguire le prescrizioni delle autorità civili quando tali precetti sono contrari alle esigenze dell'ordine morale, ai diritti fondamentali delle persone o agli insegnamenti del Vangelo” (CCC, 2242).
Anche qui si tratta di casi estremi.
È possibile tradurre la questione generale della “giusta legge” in quella più specifica del “giusto tributo”?
In linea teorica sì: il Concilio, come ricordato, condanna chi evade “le giuste imposte”.
Bisogna però rilevare che si tratta di un’applicazione ancor più stringente e difficile.
In effetti, può essere possibile determinare con precisione l’estensione di un “diritto umano fondamentale” come – ad esempio – il diritto dei genitori di educare i proprî figli.
Per cui è possibile immaginare la legittimità dell’obiezione di coscienza di fronte ad uno Stato che volesse imporre ai figli un’educazione contraria a quella desiderata dai genitori (per non parlare dell’obiezione di coscienza in tema di aborto, ecc.).
È invece difficile definire l’applicabilità dell’obiezione di coscienza in materia fiscale.
Si potrebbe considerare lesiva di un diritto naturale, ad esempio, un’imposta che abbia un carattere discriminatorio, come quella che volesse colpire le persone in virtù del loro credo religioso o delle loro opinioni politiche, e che sarebbe quindi direttamente ed espressamente lesiva di diritti di libertà fondamentali.
Oppure un’imposta cui i cittadini siano tenuti senza che sia riconosciuto il corrispondente diritto di rappresentanza, cioè la possibilità di contribuire a determinarne l’ammontare e la destinazione. “No taxation without representation”: è il motto liberale invocato dai rivoluzionarî americani contro la Corona inglese.
Più impervio, però, è pensare ad un’obiezione fiscale in caso di tasse “troppo alte”, o destinate ad alimentare “sprechi”.
Un appello al diritto naturale in materia fiscale, che ha suscitato molte polemiche, è stato formulato da Silvio Berlusconi in alcune occasioni, tra cui l’11 novembre 2004 alla festa per il 230° anniversario della Guardia di Finanza: “C'è una norma di diritto naturale che dice che se lo Stato ti chiede un terzo di quello che con tanta fatica hai guadagnato ti sembra una richiesta giusta e glielo dai in cambio dei servizi che lo Stato ti offre. Ma se lo Stato ti chiede di più, o molto di più, c'è una sopraffazione nei suoi confronti: e allora ti impegni per trovare sistemi elusivi o addirittura evasivi che senti in sintonia con il tuo intimo sentimento di moralità e che non ti fanno sentire colpevole”.
Berlusconi, per queste dichiarazioni, è stato accusato di legittimare l’evasione. Le polemiche sono state per certi versi eccessive, perché hanno ridicolizzato l’appello al diritto naturale, come se ragionare sull’equità dell’imposizione fiscale fosse cosa priva di senso.
Sulle affermazioni di Berlusconi possono essere formulati, a nostro avviso, rilievi di tipo diverso.
Quanto all’affermazione per cui secondo il diritto naturale può essere considerata equa la richiesta di un terzo del proprio reddito, ci sembra un’affermazione in linea generale condivisibile, tenendo conto di tutte le approssimazioni che possono essere necessarie in funzione dei diversi contesti storici e sociali (se anziché il 33% si applica il 35 o il 37%, non per questo si può gridare allo scandalo).
Un’imposizione fiscale più elevata potrebbe forse garantire beni e servizi pubblici più completi (sottolineiamo “forse”: l’esperienza insegna che quanto più alto è l’ammontare di risorse pubbliche da gestire, tanto maggiore è la percentuale di sprechi e inefficienze). Ma anche se si ottenesse una reale contropartita di servizi efficienti, ciò avverrebbe a prezzo di sostituirsi alla libera determinazione dell’individuo, contraddicendo il principio di sussidiarietà, creando una diffusa dipendenza sociale.
L’affermazione condivisibile sull’entità di un’equa imposizione, però, è incompleta. Se possiamo considerare equo un carico fiscale complessivo sulla popolazione pari ad un terzo del reddito, non potremmo confermare questo giudizio se si pretendesse che la distribuzione di questo carico fosse proporzionalmente uniforme su ciascun contribuente:
Esistono infatti due ulteriori principî di diritto naturale (recepiti nella nostra Carta Costituzionale) da cui non si può prescindere: il principio della progressività delle imposte (chi guadagna di più deve essere sottoposto ad un’aliquota maggiore) ed il principio della capacità contributiva, legata in particolar modo ai carichi familiari.
Un altro elemento di incompletezza è nell’affermazione per cui il cittadino paga le tasse “in cambio dei servizi che lo Stato gli offre”.
Il ‘tornaconto’ può essere reclamato dalla collettività (anche con riferimento ad un impiego responsabile, da parte della Pubblica Amministrazione, delle risorse incassate); ma non dal singolo, perché le entrate fiscali non sono destinate solo all’erogazione di servizi, ma anche a finalità redistributive; le quali presentano, se attentamente modulate, una ricaduta positiva non solo sui beneficiarî, ma sull’intera società.
Più discutibile è la seconda parte delle affermazioni di Berlusconi.
Ipotizzare che una richiesta di tributi superiore ad un limite considerato equo costituisca una “sopraffazione”, una violazione del diritto naturale, può giustificare l’impegno nella realizzazione del ius condendum, la battaglia politica per l’abbassamento della pressione fiscale.
Ben più difficoltoso, però, è considerare questa “sopraffazione” di entità tale da giustificare “sistemi elusivi o addirittura evasivi” (in un’altra sua dichiarazione, resa durante una conferenza stampa a Palazzo Chigi il 17 febbraio 2004, Berlusconi ha indicato nel 50% del reddito la soglia oltre la quale un cittadino si può sentire moralmente autorizzato ad evadere).
Si entra in un terreno molto scivoloso.
Innanzitutto, perché l’evasione (cui l’elusione è avvicinabile solo in parte) non può essere equiparata all’obiezione di coscienza, visto che non si realizza apertamente col valore di una testimonianza, ma nascostamente.
In secondo luogo, invocare l’evasione per motivi di equità - inevitabilmente soggettivi e discutibili - determina un’insanabile contraddizione, dovuta al fatto che l’evasione presenta le ricadute, ben più pesanti e inique, che abbiamo poc’anzi evidenziato.
Ci viene in mente un unico esempio di norme evidentemente inique - perché discriminatorie - legate alla materia fiscale: sono quelle che stabiliscono, per l'accesso a prestazioni pubbliche, soglie di reddito diverse tra reddito dipendente ed autonomo.
Si tratta di un'iniquità evidente, determinata però dalla "madre di tutte le iniquità", che è l'evasione. Questo il ragionamento che fa lo Stato (la ratio della norma): poiché "si sa" che gli autonomi evadono, allora chiediamo a loro un reddito formale più alto per ottenere prestazioni sociali, al fine di evitare di assistere allo spettacolo di genitori (evasori) in SUV che vanno a prendere i figli al nido pubblico, nelle cui graduatorie hanno scavalcato famiglie che hanno reali disagi economici.
La norma è iniqua, perché discrimina - e quasi induce all'evasione - il lavoratore autonomo onesto. Ma evidenzia un problema reale, che può essere risolto solo - ripetiamolo - con una lotta serrata all'evasione.
In terzo luogo, un’applicazione coerente del principio in base al quale “evado perché lo Stato mi chiede troppo”, imporrebbe che l’evasione fosse strettamente limitata alla quota eccedente il limite considerato equo.
Facciamo un esempio secondo questa logica, che si rivela un po’ macchinosa.
Io ritengo “equa” – non per mio capriccio, ma perché faccio riferimento a calcoli di equità largamente condivisi - un’imposizione fiscale complessiva del 33-35%; oltre questa soglia, si giustifica una battaglia politica per ridimensionarla.
Ritengo poi che uno scostamento da tale soglia troppo elevato, ad esempio un superamento del 50%, sia insopportabile, una “sopraffazione”, e quindi mi autorizzi moralmente ad evadere.
In tal caso, però, dovrei evadere solo quella quota di reddito che mi consenta di mantenere l’imposizione fiscale complessiva al di sotto del 50%.
È questo il criterio che utilizzano gli evasori italiani?
Discorso simile andrebbe fatto sulle imposte considerate “inique” perché alimentano gli “sprechi”.
Lo Stato è senz’altro tenuto a utilizzare le risorse pubbliche con responsabilità. Gli sprechi esistono, indubbiamente. Ma ognuno è portato a considerare sprechi le spese che non lo riguardano...
Si può intraprendere, in ogni caso, una battaglia politica per la riduzione degli sprechi.
Ma ben più complicato è invocare tale argomento per un’obiezione fiscale (o, addirittura, per l’evasione). Anche in questo caso, coerenza vorrebbe almeno che l’obiezione venisse praticata per quella parte dell’imposizione fiscale destinata ad alimentare gli sprechi (a dire il vero non è mancato chi in passato, soprattutto nel campo del pacifismo cattolico, ha lanciato una tale iniziativa, invocando l’obiezione fiscale rispetto alle spese militari).
c) L’evasione da “adattamento”: “Evado perché evadono tutti”
Il motivo forse principale che induce molti ad evadere, però, risiede probabilmente nell’idea che “così fan tutti”. Chi è onesto, dunque, sarebbe un “fesso” che finisce col pagare anche per i furbi.
Questo argomento non può essere rifiutato a priori come un facile alibi.
Può accadere, infatti, che una norma venga considerata immeritevole di rispetto non perché iniqua, ma semplicemente perché non è rispettata dalla generalità dei consociati.
Si tratta di un principio della teoria generale del diritto.
Perché una norma sia obbligante, è necessario che possieda il requisito dell’effettività, cioè della concreta efficacia, intesa come capacità di ottenere un’obbedienza media da parte dei suoi destinatarî (sul punto: Mortati, Modugno, Martines).
Pur riconoscendo la validità di questo principio generale, sarebbe difficile ritenere non obbliganti le norme fiscali oggetto di evasione attualmente in Italia, visto che sono rispettate per circa l’85% dei redditi cui si riferiscono.
Ciò nondimeno, il tasso di evasione è elevato, e il fatto che sia particolarmente concentrato in alcune categorie, pone problemi più rilevanti ai contribuenti di quelle categorie: “se mi comporto onestamente, perdo competitività”.
Anche in questo caso, alla fine, è necessario il senso delle proporzioni: constatare l’esistenza di una diffusa evasione non deve indurre ad affermare “così fan tutti” (perché non è vero), e non deve quindi precostituire alibi ulteriori.
Casomai, chi fosse davvero messo in difficoltà da una concorrenza scorretta, dovrebbe applicare lo stesso ragionamento ipotizzato in precedenza per chi si trovasse di fronte ad un’imposizione esageratamente iniqua: una riduzione nei limiti strettamente necessarî a ripristinare le condizioni minime di esercizio della propria attività.
Ma soprattutto: quando emergono obiezioni non motivate rispetto a provvedimenti di carattere generale contro l’evasione, provvedimenti che sarebbero in grado di assicurare parità di trattamento tra i contribuenti, allora emerge la malafede di chi formula tali obiezioni.
Volendo tirare le somme, ci sentiamo di affermare non solo che l’evasione è un fenomeno che nel suo complesso produce gravi guasti sociali ed economici, ma anche che le ipotesi di giustificazione – sia pure parziale - in casi singoli sono soprattutto ipotesi di scuola.
Una valutazione dei casi in cui sia ammissibile una vera e propria obiezione di coscienza dovrebbe essere affidata ad una coscienza “rettamente formata”. Cosa non facile in materia fiscale, come ben sapevano i Padri costituenti, che esclusero le leggi tributarie dal novero di quelle che possono essere oggetto di referendum abrogativo.
(Per inciso: prendere in considerazione le “ipotesi di scuola” che giustificano casi di obiezione di coscienza non ci sembra possa essere considerato un ‘distinguo’ che apre spiragli all’evasione. Semplicemente, riteniamo che ogni ragionamento onesto e rispettoso dei fatti non possa essere amputato sol perché presenta il rischio di essere mal interpretato).
Le giustificazioni dell’evasione inconsistenti
Le giustificazioni dell’evasione sin qui esaminate (di necessità, di principio, da adattamento) sono spesso pretestuose, perché utilizzate ipocritamente da chi ha semplicemente il desiderio di pagare meno tasse possibile, infischiandosene di giustizia sociale ed efficienza economica.
Però hanno in astratto un fondamento, e possono costituire – se non attentamente valutate – un facile strumento di auto-convincimento della legittimità dell’evasione, e quindi un ostacolo politico ad una lotta decisa contro il fenomeno.
Alle giustificazioni esaminate se ne aggiungono a volte altre, che vorrebbero evidenziare una presunta utilità economica dell’evasione.
Si tratta in questi casi di giustificazioni del tutto inconsistenti, basate su deformazioni strampalate delle leggi economiche.
Le teorie improvvisate sono innumerevoli, ed è impresa impossibile passarle in rassegna.
Ci limitiamo a ricordarne una, quella per cui la lotta all’evasione produrrebbe una traslazione delle imposte sui prezzi al consumo, e quindi una spirale inflazionistica che danneggerebbe anche chi non evade.
A questi improvvisati nemici dell’inflazione bisognerebbe ricordare che, quand’anche fosse, la traslazione avverrebbe una sola volta, in coincidenza con l’emersione dei redditi occultati, e sarebbe ampiamente compensata dai vantaggi economici innanzi ricordati derivanti dalla riduzione dell’evasione.
Ma, soprattutto, bisognerebbe ricordare che la traslazione dell’imposta può avvenire solo in mercati non concorrenziali: se la lotta all’evasione è l’occasione anche per impegnarsi nell’aumentare la concorrenzialità della nostra economia, il vantaggio sarebbe raddoppiato.
Insomma: l’evasione è un’operazione a somma negativa. Della sua riduzione si gioverebbero tutti, a lungo termine gli stessi evasori.
Alcuni errori “culturali” che favoriscono indirettamente l’evasione
Esistono anche politiche che lo Stato adotta senza l’intento di favorire l’evasione fiscale, ma che finiscono inevitabilmente con l’alimentarla. Politiche che, quindi, potremmo definire errori “culturali” (diversi dalla sottovalutazione del fenomeno che indicavamo inizialmente).
Bisogna ricordare, infatti, che il pagamento delle imposte, come il rispetto di qualsiasi legge, non può essere affidato solo all’apparato repressivo, il quale non raggiunge la piena efficienza nemmeno in un regime totalitario (Von Hayek insegna). Il pagamento delle imposte è possibile solo se si creano le condizioni per cui una norma sia ritenuta dai consociati ragionevole e meritevole di rispetto.
Il primo errore che può alimentare l’evasione è l’eccessiva pressione fiscale.
Non esiste una soglia definita al di sotto della quale i cittadini ritengono le imposte “giuste” (e che “pagare le tasse è bello”, come sostenne con involontario umorismo il ministro dell’Economia Padoa Schioppa), e al di sopra del quale si scatena la legittima protesta.
Semplicemente, al crescere della pressione fiscale cresce progressivamente il fastidio dei cittadini e la ricerca di metodi per aggirare l’imposizione.
L’intensità di questo fastidio, e la sua incidenza sull’evasione, varia in funzione di diversi fattori, che però non possono essere ricondotti semplicisticamente al “senso civico” delle diverse nazioni. Gli Statunitensi, che hanno un senso civico fortissimo e pagano le tasse – in genere - fino all’ultimo cent, hanno un fastidio fortissimo per i pesi fiscali.
Senza contare che l’evasione determinata da un’eccessiva pressione fiscale provoca vuoti nel gettito atteso, e induce lo Stato (o alcuni Governi poco assennati) ad inasprire le aliquote per recuperare quel gettito; stimolando così ulteriore evasione, in un circolo sempre più vizioso.
L'abbassamento delle aliquote, invece, determina a medio termine un innalzamento del gettito. È un paradosso solo apparente, perché aliquote più basse stimolano l'impresa e scoraggiano evasione ed elusione (anche in termini di opportunismo, il gioco non vale più la candela: i rischi connessi all'aggiramento delle norme non risultano più convenienti).
Il secondo errore è l’eccesso di spesa pubblica.
Una spesa pubblica eccessiva (sia essa legata ad un’eccessiva pressione fiscale – e qui l’errore è collegato al precedente – o finanziata a debito) produce necessariamente sprechi e inefficienze, che favoriscono la protesta sociale anche nelle forme dell’evasione.
L’oculatezza nell’allocazione delle risorse, infatti, non è legata solo alla moralità nella gestione della cosa pubblica (che pure è necessaria), ma anche alla limitatezza delle risorse stesse. Se c’è larghezza di risorse, prevale la tentazione di un’allocazione inefficiente a vantaggio di interessi particolari (come nel mercato privato: se non c’è concorrenza perfetta emerge la rendita del monopolista).
Il terzo errore è l’eccesso di regolamentazione.
Molte volte, per combattere l’evasione, o per reperire risorse nei più diversi ambiti produttivi, si gravano i contribuenti con un eccesso di norme. Norme spesso poco chiare, non coordinate, che cambiano nel tempo, variabili a seconda dei settori produttivi.
Questo eccesso di regolamentazione rende necessario l’ausilio di professionisti come i commercialisti; e nemmeno questi, sovente, riescono ad evitare errori.
Il risultato è un aggravio di costi che spesso scoraggia gli investimenti, e che induce molti ad aggirare il problema con l’evasione (o che consente ad altri di trovare gli spiragli per l’elusione).
In materia tributaria (come in tutti i campi) le norme devono essere poche, chiare, rigorosamente applicate.
Il quarto errore sono i condoni fiscali.
La motivazione immediata di un condono, oltre che la necessità di reperire risorse finanziarie, è quella di far emergere reddito sommerso, offrendo condizioni di favore. Tale reddito in futuro potrà essere oggetto di un’imposizione ordinaria.
Il beneficio relativo ai redditi emersi, però, è recessivo rispetto al danno dovuto al fatto che viene intaccata la credibilità del sistema fiscale (la quale è il bene più importante) e si inducono i contribuenti ad occultare nuovi redditi futuri.
Un condono è ammissibile in casi eccezionali, come quando viene introdotta una riforma complessiva dell’ordinamento tributario.
Il legame tra questi errori culturali (eccesso di pressione fiscale, di spesa pubblica, di regolamentazione; condoni) ed evasione è una vera e propria legge economica universale, che rende per certi versi superflua l’analisi di carattere giuridico-morale sull’ammissibilità di ipotesi di evasione: è insensato affannarsi nei controlli repressivi e nelle condanne moralistiche, se si sono create le condizioni per l’evasione.
Abbiamo sottolineato all’inizio che l’evasione fiscale non può essere imputata solo all’azione di un Governo, di una forza politica, di un’area culturale.
Se guardiamo alla matrice degli errori culturali appena descritti, possiamo accorgerci che gran parte sono espressione di quella sinistra che si proclama paladina dei contribuenti onesti…
I provvedimenti utili a combattere l’evasione
Lo stesso direttore dell’Agenzia delle entrate, nella conferenza stampa in precedenza ricordata, ha menzionato, tra i nuovi strumenti che hanno favorito la lotta all’evasione, la spinta alle misure cautelari (strumenti “salva crediti” per garantire la riscossione dei tributi evasi), o l’inversione dell’onere della prova per le attività che sono detenute in paradisi fiscali in violazione degli obblighi sul monitoraggio fiscale.
Ma entrare nel merito di questi strumenti significherebbe addentrarsi in un’analisi tecnico-specialistica.
Vorremmo soffermarci, piuttosto, su due strumenti particolari spesso al centro dell'attenzione.
Il primo è quello delle detrazioni e deduzioni, utilizzato in Italia quasi soltanto per ragioni di protezione sociale (detraibilità/deducibilità di spese relative ai cosiddetti "beni tutorî", cioè meritevoli di protezione pubblica: salute, istruzione, mutui per l'acquisto della casa, ecc.).
Questo sistema potrebbe essere utilizzato, però, anche per la lotta all'evasione fiscale, in quanto costringe il prestatore d'opera ad emettere fattura e, quindi, a pagare IVA e imposte dirette, a regolarizzare eventuali lavoratori dipendenti, ecc. In Italia l'unico caso in cui le agevolazioni fiscali sono state utilizzate - e con successo - a fini di lotta all'evasione è quello della deduzione del 36% (inizialmente al 41%) per le ristrutturazioni di immobili.
L'obiezione principale ad un utilizzo più diffuso delle agevolazioni fiscali è quella relativa alla potenziale perdita di gettito. L'esempio svedese, però, insegna che il gettito minore, dovuto alle minori imposte versate da chi deduce l'ammontare dell'importo versato, è ampiamente compensato dal gettito maggiore derivante dalle imposte versate da chi denuncia il reddito emerso, dai contributi previdenziali dei lavoratori regolarizzati, ecc. Si tratta di definire con accortezza i casi in cui la deduzione è utilmente applicabile, la percentuale, i tetti.
Un secondo strumento di lotta all'evasione meritevole d'attenzione, sia per le sue implicazioni di carattere sociale sia per le polemiche che si sono riattizzate in seguito al suo inserimento nella manovra anti-crisi, è quello della tracciabilità delle transazioni finanziarie, per le quali è stata abbassata la soglia, riducendo il tetto massimo sotto il quale sono ammessi i trasferimenti di denaro contante.
La polemica è dettata da un precedente: nel 2006 il Governo Prodi, con un provvedimento predisposto dal sottosegretario Visco, aveva introdotto la tracciabilità dei pagamenti e il divieto di emettere assegni non circolari per importi superiori a 5.000 euro. Inoltre, veniva introdotta una norma (mai entrata in vigore, a causa di una serie di proroghe), per abbassare questa soglia, nel caso dei pagamenti ai professionisti, addirittura all’importo di 100 euro.
Il governo Berlusconi, appena insediato, cancellò questi provvedimenti – considerati degni di uno “Stato di Polizia tributaria” -, ripristinando la precedente soglia di 12.500 euro.
Oggi, con la manovra Tremonti, si torna a 5.000 euro.
Retromarcia del Governo? In parte sì.
Bisogna però rilevare, al termine della nostra analisi, che recuperare un provvedimento di Visco non significa rivalutare la politica economica e fiscale del Governo Prodi, la cui manovra finanziaria per il 2007 attirò violente – e a nostro avviso meritate – critiche.
I retroscena della politica raccontano che questa retromarcia sulla tracciabilità sia stata imposta a Berlusconi da Tremonti, nella convinzione che solo così sarebbero state realistiche le previsioni di recupero di gettito che possono consentire di evitare ulteriori tagli o nuove imposte.
Alla tracciabilità dei pagamenti, va detto, si aggiunge anche la tracciabilità delle fatture, ovvero l’obbligo di trasmettere telematicamente all’Agenzia delle entrate le fatture emesse per importi superiori a 3.000 euro.
Più decisione contro gli evasori, dunque.
A prezzo di uno “Stato di Polizia tributaria”, di una lesione profonda della nostra riservatezza?
Quello della riservatezza è argomento complesso, anche perché ogni diritto deve essere contemperato con altri diritti con i quali possa venire in conflitto.
È vero senz’altro che la possibilità di tracciare tutti i pagamenti effettuati da un cittadino può teoricamente fornire informazioni capaci di disegnare un suo profilo completo; informazioni suscettibili di un utilizzo ricattatorio.
È altresì vero, però, che il problema non è relativo solo alla possibilità di rilevare queste informazioni, ma anche alla possibilità di accorparle, ai tempi e alle modalità di conservazione, alle modalità di accesso.
Se può essere utile, infatti, accorpare le informazioni raccolte con riferimento ai pagamenti ricevuti da un soggetto, per valutare la congruità del fatturato dichiarato, deve essere invece vietato ogni accesso che consenta l’accorpamento dei pagamenti effettuati da un soggetto.
I dati relativi ai pagamenti, inoltre, dovrebbero essere conservati con garanzie particolari, per un periodo di tempo limitato, e l’accesso dovrebbe essere consentito solo alle istituzioni autorizzate, con procedure rigorose, anch’esse tracciabili (si deve sapere chi chiede che cosa, e per quali scopi).
Si consideri, peraltro, che la Costituzione non riserva protezione espressa alle notizie sui pagamenti effettuati dai cittadini, ma ad altri ambiti di riservatezza, come quello della corrispondenza personale, ben più pregnanti per la dignità individuale.
E si consideri, infine, che esiste anche un problema di mentalità e di abitudini: se in Italia l’uso di strumenti di pagamento tracciabili (come quelli elettronici) è ancora appannaggio di un’esigua minoranza, in altri Paesi sviluppati la percentuale arriva al 90%...
Con le garanzie descritte, i benefici sociali consentiti dalla lotta all’evasione superebbero senz’altro i rischi di lesione della riservatezza.