Ha destato molto scalpore una dichiarazione del ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, il quale ha affermato: “Non credo che la mobilità di per sé sia un valore; penso che in strutture sociali come la nostra il posto fisso è la base su cui organizzare il tuo progetto di vita e la famiglia”.
La dichiarazione fa scalpore perché in Italia, negli ultimi anni, è stata esaltata quasi unanimemente la “flessibilità” del lavoro (definita - da chi la contesta - “precarietà”). La prima levata di scudi contro Tremonti è venuta, non a caso, dalla Confindustria.
Lo scalpore è accentuato perché la dichiarazione proviene da un ministro del governo Berlusconi, cioè da quell’area politica che ha esaltato il “popolo delle partite IVA”, la libera iniziativa privata.
È la stessa area politica che nel 2001 aveva lanciato la proposta di abolizione dell’art.18 dello Statuto dei lavoratori, nel quale sono previsti vincoli al licenziamento nelle imprese con oltre quindici dipendenti (proposta di abolizione ritirata a seguito della fortissima mobilitazione sindacale).
È la stessa area politica che ancora oggi, con il ministro Brunetta, si scaglia con toni molto forti contro i “fannulloni”, vale a dire i dipendenti pubblici che avrebbero privilegi come quello – appunto - del posto fisso (e Brunetta fa sapere di non essere d’accordo con Tremonti).
L’interpretazione “politica” della materia, e della presa di posizione di Tremonti, rischia di scivolare nei luoghi comuni e nelle polemiche strumentali.
Tremonti è in contraddizione con la sua storia e la sua parte politica, che incarnerebbe il “liberismo selvaggio”?
Il Ministro dell’Economia, a ben guardare, non può essere certo accusato di incoerenza personale. Da anni conduce una battaglia culturale contro il liberismo senza regole, da lui definito “mercatismo”.
Quanto alla sua parte politica, forse c’è una certa contraddizione con le parole d’ordine e le proposte di sapore liberista, come quelle che abbiamo sopra evidenziato. Ma la prassi di governo non ha mai attuato la “rivoluzione liberale” proclamata, ed anzi l’accusa sovente rivolta al centrodestra è di eccessiva timidezza sul fronte delle liberalizzazioni.
Il “diritto d’autore” sul posto fisso spetta al centrosinistra, che sarebbe dunque lo schieramento più credibile a tutela dei lavoratori?
Ammesso che la tutela dei lavoratori passi per il posto fisso, bisogna ricordare che una spinta alla “precarizzazione” l’hanno data proprio i governi dell’Ulivo, con il cosiddetto “pacchetto Treu”, voluto nel 1997 dall’allora ministro del Lavoro. Quelle norme introdussero nuove forme di lavoro flessibile (in aggiunta ad altre che esistevano sin dal 1959): PIP, borse di lavoro, Co.co.co.
La legge Biagi, approvata dal centrodestra nel 2003, ha anzi dato maggiori garanzie a quei lavoratori (contributi più alti, misure per evitare che diventino forme per mascherare il lavoro dipendente, ecc.).
Poi capita che la sinistra si rivolti la frittata a seconda dell’opportunità politica: per cui alcuni suoi dirigenti, strizzando l’occhio alla base sindacale, criticano Tremonti giudicandolo ipocrita; mentre il segretario del Pd Franceschini, pur di fare opposizione a tutti i costi (e strizzando l’occhio a Confindustria), ribatte al ministro che ci vuole “più dinamismo”.
Ma proviamo a mettere da parte la polemica politica, e ad esaminare la questione nel merito: meglio il posto fisso o il lavoro precario?
A nostro avviso, si tratta di una falsa alternativa tra due estremi dannosi.
L’idea del posto fisso si richiama all’esigenza del lavoratore di avere un reddito per vivere dignitosamente con la propria famiglia e poter programmare il proprio futuro.
Bisogna però ricordare il significato del lavoro e del reddito. Rinviando a testi più impegnativi (come l’enciclica di Giovani Paolo II Laborem Excercens) per una lettura antropologica del lavoro, ci limitiamo a osservare che con il lavoro l’uomo offre alla società qualcosa che viene ritenuto utile, e quindi meritevole di una ricompensa. La società è in grado di remunerare il lavoro se questo contribuisce a creare ricchezza.
La ricchezza è innanzitutto - ma non solo - quella materiale: servono lavori – agricoli, artigianali, industriali – che producano i beni di consumo e i servizî essenziali.
Ricchezza è anche quella della cultura tecnologica e professionale, che crea le competenze per il miglioramento dei processi produttivi, per una migliore organizzazione sociale: ricerca scientifica, insegnamento, ecc.
Ricchezza è quella della cultura umanistica, o quella spirituale: anche un artista può vivere delle sue creazioni, se esistono altre persone che in quelle creazioni trovano un arricchimento e quindi ritengono di doverle remunerare.
Ricchezza, infine, è quella delle reti di solidarietà e di assistenza che tutelano i più deboli e salvaguardano la coesione del tessuto sociale.
Il reddito, quindi, non deve essere legato ad un “posto”, ma ad un lavoro effettivamente produttivo. Se la ricchezza non viene prodotta, non si può porre il problema di ridistribuirla.
Le società socialiste, che inseguivano il mito della piena occupazione distribuendo “posti” di lavoro inutili e parassitarî, sono implose.
Perché un lavoro sia produttivo e utile serve che il lavoratore lo sappia condurre con perizia, con attenzione alla qualità di ciò che offre. Serve, dunque, formazione continua; serve la meritocrazia, che sappia premiare i più capaci e coloro che si applicano con più impegno.
I giovani che fanno il loro ingresso nel mercato del lavoro devono essere consapevoli che sono necessari sacrificio e responsabilità, e che non possono abbandonarsi a facili vittimismi.
Chi decide, in ultima analisi, se un lavoro è produttivo? In genere, è il libero mercato. Nel caso – ben delimitato – dei beni pubblici e tutorî, è lo Stato (che deve stabilire procedure perché nella pubblica amministrazione prevalga il merito).
Ma tornando al tema iniziale: un lavoro produttivo e utile alla società può essere “fisso”?
Nel senso rigido del termine, no.
L’idea che il singolo posto di lavoro possa essere fisso rientra in quella, più generale, per cui nelle società vi sarebbe una quantità fissa di reddito producibile e, quindi, di lavoro da distribuire.
È quello che gli economisti chiamano "errore del lavoro in blocco".
È lo stesso errore che alimenta il timore della meccanizzazione, la quale farebbe perdere posti di lavoro perché decurterebbe quella quantità di lavoro fissa; o che, per combattere la disoccupazione, predica "lavorare meno, lavorare tutti"; o che vuole abbassare l’età pensionabile per far lavorare i giovani; o che pensa che la ricchezza di alcuni sia necessariamente collegata allo “sfruttamento” di altri.
In realtà, il reddito non è fisso, ma aumenta ogni anno; ed aumenta anche grazie alla creazione di nuovi e diversi posti di lavoro. E questi nuovi posti di lavori sono dovuti sia al progresso sociale e tecnologico (che contemporaneamente ne rende inutili altri), sia all’inventiva di quanti – per necessità o per scelta - cambiano lavoro.
Se i posti di lavoro fossero fissi, negli ultimi trent'anni non avremmo avuto l'ingresso sul mercato del lavoro italiano di dieci milioni di nuovi occupati, di cui otto milioni di donne! E questo nonostante un aumento dell'età pensionabile che in parte c'è già stato; nonostante la grande informatizzazione e meccanizzazione dei processi produttivi, che hanno eliminato vecchie tipologie di lavoro (per combattere la disoccupazione bisognava mantenere in vita la figura del "fabbricante di ghette"?). Si noti altresì che Paesi come Stati Uniti e Giappone, che hanno orarî di lavoro molto più elevati di quelli dell’Europa continentale, hanno tassi di disoccupazione molto più bassi...
Insomma: se difendessimo il “posto” fisso, bloccheremmo lo sviluppo; sprecheremmo soldi per sostenere aziende destinate al fallimento (per incapacità dei dirigenti, o perché operano in un mercato dove cala la domanda); alimenteremmo un senso di eccessiva sicurezza che può portare ad una scarsa applicazione lavorativa.
Il lavoro è anche un fattore di produzione, che in una certa misura l’impresa deve poter regolare.
Una certa dose di flessibilità, quindi, appare legittima e necessaria, tanto più nelle moderne società in cui i mutamenti sono sempre più veloci.
La flessibilità equivale alla precarietà?
No, ma può diventare precarietà se non si pongono regole perché ciò non accada.
Dicevamo che il lavoro è anche un fattore di produzione. Abbiamo però evidenziato in corsivo la parola “anche”, perché il lavoro non è primariamente questo. Il lavoro non è un fattore produttivo come i beni capitali, o le materie prime, o i brevetti. Il lavoro riguarda l’uomo, e la sua assoluta dignità.
Il lavoro è primariamente l’attività con cui l’uomo contribuisce al benessere comune (necessità che abbiamo sin qui evidenziato), ottenendo un reddito per vivere dignitosamente con la propria famiglia e poter programmare il proprio futuro (necessità che ricordavamo inizialmente evocata dai fautori del posto fisso).
Le due componenti del lavoro (utilità sociale, dignità e sicurezza del lavoratore) non possono essere separate.
Il lavoratore, quindi, non potrà pretendere il posto fisso. Ma potrà rivendicare un lavoro stabile, se si impegnerà in quella direzione.
Il lavoro a tempo indeterminato, in questa prospettiva, deve restare la regola, non l’eccezione. Lavoro a tempio indeterminato non significa garanzia assoluta e perenne di quel posto. Ma significa garanzie sui criterî di licenziabilità; garanzia di contributi previdenziali e assicurativi; sostegno serio (economico, di orientamento) nella ricerca eventuale di un nuovo posto; formazione continua.
La stabilità del lavoro, al di là dei contratti a tempo indeterminato, richiede altresì che siano resi universali gli ammortizzatori sociali; e che siano resi ancora più stringenti alcuni aspetti della legge Biagi, per evitare che i contratti di collaborazione mascherino rapporti durevoli non garantiti.
Certamente, poi, esisteranno persone dotate di elevatissima professionalità e vocazione al rischio, che preferiranno un’elevata mobilità sapendo che questa consente loro guadagni più elevati. Ma la mobilità totale non è il requisito essenziale di ogni forma di lavoro.
Bisogna ricordare, infatti, che a volte esistono comportamenti miopi di singoli imprenditori, che non corrispondono all’interesse del sistema produttivo e della società nel loro complesso.
Un imprenditore potrebbe cercare di massimizzare il profitto rubando segreti industriali ad altri, anziché investendo nella ricerca; risparmiando sulle misure anti-inquinamento o sulla sicurezza dei lavoratori; utilizzando materiali scadenti nella produzione.
Un’altra forma di risparmio miope – o di indebita pressione sul lavoratore – è proprio quella di utilizzare il lavoro a tempo determinato (o in nero) per esigenze produttive stabili.
Un’azienda può assumere con contratti a tempo una percentuale ridotta della sua forza lavoro, per fronteggiare esigenze produttive episodiche, o per formare giovani alle prime esperienze. Ma se questa percentuale comprende esigenze produttive stabili, significa solo utilizzare strumenti per risparmî improprî o per ricattare i lavoratori.
A questi imprenditori bisognerebbe ricordare che la stabilità del lavoro giova all'impresa: il lavoro lo si qualifica – e lo si rende davvero produttivo – se la spinta psicologica è innanzitutto positiva, se si offrono al lavoratore prospettive concrete, se si crea un clima di fiducia e collaborazione.
Bisognerebbe ricordarlo anche ai politici, che hanno creato massicciamente lavoro precario nella pubblica amministrazione (a volte per assumere raccomandati aggirando l’obbligo dei concorsi pubblici).
La stabilità del lavoro, inoltre, ha una ricaduta positiva sull’intero tessuto sociale ed economico. Chi ha una prospettiva sicura spende (e alimenta la domanda) più di chi vive nell’incertezza. Chi ha una prospettiva sicura fa figli, il che è una condizione essenziale dello sviluppo. Le famiglie che hanno una sicurezza economica funzionano anche da ammortizzatore sociale, consentendo enormi risparmi al sistema pubblico di protezione sociale.
È vero che in Italia, negli anni Settanta, si era imposta un’eccessiva rigidità del mercato del lavoro, che ha finito col creare un’elevata disoccupazione (io imprenditore non assumo se rischio di non poter gestire esuberi di manodopera). Ma è mancato il coraggio di correggere quelle regole troppo rigide. Si è preferito affiancare ai lavoratori troppo “garantiti” una nuova categoria di lavoratori, i “precarî”, privi quasi totalmente di regole che offrano protezione e stabilità.
Tremonti, elogiando il “posto fisso”, ha aggiunto: “La stabilità del lavoro è base di stabilità sociale”. Ha dunque specificato di riferirsi proprio a quella necessaria “stabilità”, che si può e si deve accompagnare ad una moderata e regolata “flessibilità”.
Ne dovrebbe tener conto anche la Confindustria, che si è precipitata a rilanciare l’elogio di una flessibilità senza “se” e senza “ma”; un elogio che sa tanto di miopia economica e sociale.