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Temi caldi - America
Giornalismo investigativo e scandalistico in America Stampa E-mail
Il primato dei "fatti", l’invasione nel privato, le imitazioni italiane
      Scritto da Giovanni Martino
05/10/09

Le recenti campagne scandalistiche di alcuni giornali d’opposizione (soprattutto quelli del gruppo editoriale L’Espresso) sulla vita del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, e quelle parallele condotte da testate vicine al Governo (come il Giornale) contro esponenti dell’opposizione, e persino contro il direttore di una testata giornalistica considerata ostile (il caso Feltri-Boffo), hanno ridestato il dibattito sui ‘limiti’ (deontologici) della libera stampa.

Con aspetti nuovi.

Che sia difficile immaginare una stampa completamente “libera” e “obiettiva”, è ovvio. Tanto più in Italia, dove non esistono grandi gruppi editoriali indipendenti, ma quasi tutte le testate sono di proprietà di gruppi che hanno interessi imprenditoriali diversi (industrie, banche, costruttori). Molte delle testate più piccole, poi, vivono dei finanziamenti della legge sull’editoria, spesso grazie al collegamento con formazioni politiche.
In ogni caso, nei decenni passati veniva almeno proclamato lo sforzo della completezza e dell’obiettività dell’informazione, sulla base di un vecchio adagio: “L’obiettività è come la salute: non la si raggiunge mai pienamente, ma non per questo si rinuncia a perseguirla”.

In anni più recenti, invece, si è dovuto assistere alla crescente faziosità di una parte della stampa italiana, incline a confondere fatti e opinioni, a perseguire tesi precostituite: è il cosiddetto giornalismo militante. Il padre di questo tipo di giornalismo, Eugenio Scalfari, fondatore di quello che ha l’ambizione di essere un giornale-partito, ha anzi sostenuto che dichiarare apertamente la propria faziosità è un segno di onestà intellettuale. La verità non esiste. Casomai, lo sforzo di un’informazione più completa, di raccogliere molteplici punti di vista, spetta al lettore più volenteroso (quale? In pochi leggono un giornale, quasi nessuno ne legge più di uno...).

Oggi assistiamo ad un’ulteriore escalation: il giornalismo scandalistico. Sembra caduto il tabù della sfera privata dei potenti. Ma non basta. Questo giornalismo, nella versione italiana, prende di mira gli avversarî politici e cerca - o ‘costruisce’ - ogni tipo di notizia (più o meno privata, più o meno veritiera, proveniente da fonti attendibili o anonime) per screditarlo.

Se è evidente il degrado di questo tipo di giornalismo (minoritario, ma capace di gettare discredito sulla categoria), non è facile individuare la corretta linea di equilibrio. Se l’eccesso di scandalismo sconfina nella diffamazione, nella violazione della dignità della persona (o dei suoi familiari), l’eccesso di prudenza può sconfinare nella reticenza e nell’autocensura.
Che cosa bisogna intendere per “sfera privata”? Qual è la diversa estensione di questa sfera per gli uomini pubblici e per i comuni cittadini? E - tra gli uomini pubblici - per i politici, i giornalisti, i titolari di cariche di garanzia?

Una nostra risposta a questi dubbi abbiamo cercato di darla in un articolo sulla “privacy”, oltre che nei resoconti delle vicende specifiche.

Una riflessione sulla questione, però, non può prescindere da uno sguardo alla patria del giornalismo investigativo: gli Stati Uniti d’America.

Negli USA la libera stampa (oggi dovremmo dire la libera informazione, che comprende tutti i nuovi media) è considerata uno dei pilastri della democrazia, poiché solo l’informazione consente un esercizio consapevole – e quindi davvero libero – del voto. Nella celebre sintesi fornita da Alan Barth, “A free press is the watchdog of a free society” (“Una libera stampa è il cane da guardia di una società libera”). O ancora, secondo una metafora di Ed Murrow: "Noi dobbiamo essere il poliziotto della stradale nello specchietto retrovisore del potere".

Il prestigio di cui gode l’informazione, sino a divenire quasi istituzionalmente – e non solo in via di fatto - il “Quarto potere” (dopo quelli legislativo, esecutivo e giudiziario), si basa sulla sua autorevolezza. E questa, a sua volta, si fonda sul primato dei fatti. Secondo una celebre definizione del Wall Street Journal, "Noi crediamo che i fatti siano fatti… crediamo perciò che si possa giungere alla verità sovrapponendo fatti a fatti, proprio come nella costruzione delle cattedrali". La verità come conseguenza dei fatti, dunque, e non come pregiudizio ideologico in base al quale selezionare le notizie. O, per dirla con una venatura di ironia: “La verità è troppo importante, teniamoci ai fatti” (Walter Cronkite).

Il primato dei fatti – nella cui enfasi c’è indubbiamente una dose di ipocrisia - presuppone che questi fatti siano ricercati con insistenza, senza alcun riguardo per il potere; che l’attendibilità delle fonti sia accuratamente valutata; che la notizia (news) sia separata dalle opinioni (views): l’opinione può essere pluralista, la notizia è vera o falsa. Sono i cardini dell'investigative reporting, il giornalismo investigativo.

Tra i requisiti del giornalismo investigativo viene tradizionalmente annoverata anche la responsabilità morale e sociale: l'information ethics (etica del'informazione), che si radica in un Paese in cui resiste - precario - un sentimento di etica pubblica. Anche se i confini di questo requisito sono evidentemente più flebili dei precedenti.

La selezione delle notizie è operata innanzitutto nell’interesse del lettore (che è anche il cittadino). Ogni notizia capace di suscitare questo interesse è meritevole di pubblicazione. La sfera “privata” degli uomini politici è quasi inesistente.

Spesso si sostiene che questo interesse per la sfera privata degli uomini pubblici sia un’eredità del puritanesimo dei Padri Pellegrini. In realtà, i confini della “responsabilità morale e sociale” (quali notizie pubblicare e quali no) si sono progressivamente spostati nel tempo.

La vita privata assai libertina del presidente Kennedy godette della copertura quasi unanime della stampa.

Una svolta nel concetto di responsabilità sociale si ebbe probabilmente nel 1971 (con la  pubblicazione dei Pentagon Papers, che rivelavano le false informazioni fornite dall’Esercito per giustificare alcune operazioni in Vietnam) e nel 1972 (con le rivelazioni del Watergate, cioè delle illecite intercettazioni effettuate dallo staff del presidente Nixon presso la sede del Comitato nazionale del Partito democratico).

Scandali che ancora non investivano la sfera prettamente personale del potere politico, ma che hanno avuto la capacità di andare contro il tradizionale concetto di “interesse nazionale”. Il “Quarto potere” acquista piena consapevolezza della sua forza e della possibilità di non piegarsi a compromessi.

Negli anni successivi, aumenta sempre più l’invasività delle inchieste nella vita degli uomini politici. Questa invasività è dettata anche dal crescere della personalizzazione della politica: se la riuscita di un progetto politico dipende dalle qualità personali dell’uomo politico che lo incarna, interesse del lettore è conoscere ogni elemento che possa informarlo sulla moralità di quell’uomo. Insomma, nella politica americana sembra accettata la battuta di Hillary Clinton: “Se non sopporti il calore, non stare in cucina”.
Questa stessa personalizzazione iniziamo a conoscerla in Italia, non solo con Berlusconi: tutti i partiti sono leaderistici, il Pd fa le primarie sugli uomini senza conoscere i contenuti delle loro proposte.

Va anche detto che in America giornalisti e direttori di giornale godono di una sfera di riservatezza maggiore che non i politici. I giornalisti vengono giudicati essenzialmente per i loro errori professionali. Spirito corporativo? O considerazione del ruolo che nel sistema democratico viene riconosciuto – come visto - all’informazione libera da condizionamenti?

L’investigazione sulle vite personali dei politici è a tutto campo: voti scolastici, fede religiosa, abitudini, uso di droghe in gioventù, cartelle cliniche, relazioni sentimentali, punti deboli in famiglia, operazioni finanziarie e immobiliari. Senza contare, ovviamente, i precedenti più prettamente politici: dichiarazioni rese, votazioni nelle assemblee elettive.

Negli Stati Uniti, inoltre, le maglie del diritto di cronaca rispetto alla critica a personaggi pubblici sono molto più larghe (forse troppo). Si integra il reato di diffamazione se un fatto è falso, ma a condizione che la falsità sia accompagnata a malizia ("reckless disregard of the truth", "noncuranza spericolata per la verità"). Inoltre, l'accusato di diffamazione ha il diritto che il presunto diffamato si sottoponga a una procedura di discovery, di indagine per verificare se possa esservi un fondamento nelle accuse ricevute.

All'investigazione sulle vite personali dei politici contribuiscono gli staff dei candidati rivali. Ormai ogni politico di livello allestisce una war room, composta di esperti nell’attività di “opposition research”, cioè di ricerca dei punti deboli dell’avversario politico.
Questa attività deve prevedere anche la difesa dagli attacchi di cui si può essere vittime: vengono quindi effettuati studi di vulnerabilità sul candidato e sui membri del suo staff, e preparate le risposte qualora venissero allo scoperto punti deboli. A volte vengono costituite localmente anche “squadre della verità”, con il compito di monitorare web, tv, radio, giornali, per trovare notizie negative e intervenire a correggerle.
Uno di questi consulenti, Stephen Marks, ha raccontato la sua avventura nel libro Confessions of a Political Hitman (Confessioni di un sicario politico, Sourcebooks, 2007)

Com’è ovvio, agli elettori può risultare sgradevole sapere che un candidato si premura di denigrare il concorrente. Per cui le notizie scottanti trovate dagli staff politici spesso vengono fatte trapelare (“leak”) coprendo la fonte.

Si tratta di “giornalismo scandalistico”, simile a quello di cui ci lamentiamo oggi in Italia?

Negli USA il giornalismo scandalistico – “muckraking” – ha una sua nobiltà, che lo ha portato ad intrecciarsi profondamente con l'investigative reporting. Scandali economici e sanitarî che hanno fatto epoca (cibi contraffatti, automobili non sicure, inquinamento ambientale, frodi sui risparmî) sono venuti alla luce proprio grazie ad un’attività giornalistica spesso spregiudicata nell’acquisizione delle notizie.

Ma anche il giornalismo scandalistico ha sempre proclamato – almeno – il rispetto di un principio irrinunciabile: l’autenticità dei fatti.
Esiste anche una versione deteriore del giornalismo scandalistico, quella che si presta a rilanciare i cosiddetti “dirty tricks”, i giochi sporchi (montature e dossier fasulli o artefatti). Ma se questi giochi vengono alla luce, gli autori – o coloro che li hanno diffusi - ne pagano il prezzo.

Ricordiamo il recente caso di Dan Rather, il giornalista televisivo più famoso degli USA, l’erede di Cronkite alla guida del notiziario Cbs. Ebbene, nel settembre 2004 rivela un presunto scandalo: il presidente Bush, da giovane, per evitare di essere inviato a combattere in Vietnam, avrebbe ottenuto di prestare il servizio militare nella Guardia Nazionale sulla base di documenti manipolati. Peccato che, qualche settimana dopo l’esibizione di questi documenti, un blogger dimostri che la manipolazione è recente, e che è stata effettuata con un programma di ritocco informatico che ha utilizzato caratteri di stampa non ancora introdotti al tempo in cui Bush fece il servizio militare... Rather viene licenziato dalla Cbs.

Non possiamo dire che in Italia gli autori delle recenti campagne di stampa scandalistiche abbiano manifestato la stessa devozione per l’attendibilità delle notizie. Dimissioni o licenziamenti in seguito a patacche pubblicate (interviste a sedicenti fidanzati di giovani “veline”, informative anonime spacciate per atti giudiziarî) non ne abbiamo visti.
Peraltro, il giornalismo d'inchiesta italiano ha scarsa tradizione e autonomia. Vive spesso di un leak deteriore, quello della magistratura. Deteriore, rispetto alle notizie fatte trapelare a seguito dell'attività di opposition research, perché quelle fatte trapelare dai pubblici ministeri non vengono quasi mai verificate, essendo loro riconosciuta un'aura di autorevolezza; deteriore, perché non c'è il contrappeso di war rooms di candidati diversi, ma ci si affida alle finalità (anche politiche) perseguite dagli ambienti giudiziarî.
Al deficit di etica giornalistica (collegato ad un più generale deficit di etica pubblica) si cerca di porre rimedio con un affastellarsi di codici deontologici.
L’invocazione dell’ “esempio americano”, quindi, appare fuori luogo.
Anche se va detto che non si può parlare solo di “colpe” di certi giornalisti: tra i – pochi - lettori italiani, molti sembrano amare l’informazione partigiana e rissosa.

Nel giornalismo americano tutte rose e fiori, dunque?
Niente affatto.

I “dirty tricks” vengono puniti quando sono scoperti. Ma sono molti di più quelli di cui non si ha prova.
Il problema dell’indipendenza della stampa si fa sempre più acuto, nel momento in cui solo il 20% degli introiti viene dai lettori, e il restante 80% dagli inserzionisti pubblicitarî.
Esiste anche in America il giornalismo militante, in cui l’indipendenza è sacrificata non al denaro ma al pregiudizio ideologico.
Si va diffondendo l'infotainment, cioè l'information-entertainment business: le notizie si confondono con l’intrattenimento, quindi con le opinioni e con la suggestione. È il modello importato in Italia da Striscia la notizia o da Le Jene.

Si tratta di problemi a causa dei quali va diminuendo la fiducia degli Americani nel loro sistema di informazione.

Nonostante questi problemi, però, negli Stati Uniti resta vivo un giornalismo investigativo che rivendica il suo ruolo, che non si arrende alla faziosità e alla sciatteria. Un esempio da osservare con attenzione, anche se non da imitare acriticamente.



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