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Cultura - Storia
Jan Palach, martire della libertà Stampa E-mail
Cinquant’anni fa il sacrificio del giovane studente cecoslovacco contro l’oppressione comunista
      Scritto da Domenico Martino
26/01/09
Ultimo Aggiornamento: 17/06/19
Praga, piazza San Venceslao: il luogo del martirio di Jan Palach
Praga, piazza San Venceslao: il luogo del martirio di Jan Palach

Era il 18 agosto 1991 quando con alcuni amici, al ritorno dalla Giornata mondiale della gioventù di Czestochowa, facemmo tappa per qualche giorno a Praga. Stupenda città ricca di luoghi di interesse storico e artistico.

La prima meta delle nostre visite, però, non fu lo splendido castello, o un museo, o un locale alla moda. La prima tappa fu l’omaggio al luogo del martirio del giovane Jan Palach.

Facciamo un passo indietro. Era il 1968. La Cecoslovacchia, che prima della seconda guerra mondiale era una delle nazioni più progredite d’Europa, dopo vent’anni di regime comunista era ormai stanca e impoverita. I comunisti cecoslovacchi, consapevoli del malcontento popolare, nel gennaio elessero segretario del partito Alexander Dubček, alfiere di quanti volevano intraprendere una serie di riforme che aumentassero alcune libertà, per costruire un “socialismo dal volto umano”. Queste riforme, anche se l’intenzione era quella di conservare l’alleanza con l’Unione Sovietica, costituivano nei fatti uno strappo rispetto alla dottrina del “socialismo di un solo Paese”, cioè l’applicazione rigida del modello sovietico in tutti i Paesi socialisti.

La storia si è incaricata di dimostrare (se non era bastato un lucido realismo morale, politico ed economico) che nessuna riforma dei regimi social-comunisti era possibile. La perestrojka di Gorbaciov, vent’anni dopo, si limiterà ad accelerare il crollo di un sistema che era già in disfacimento. Ma nel 1968 la “primavera di Praga” fu chiamata così anche perché aveva il significato di una speranza: per alcuni - i comunisti al Governo – quella di poter salvare quel modello, rendendolo meno oppressivo; per altri quella di poter tornare ad un sistema democratico.

L’Unione Sovietica, però, non poteva tollerare all’interno del Patto di Varsavia nessuna deviazione (come non l’aveva tollerata nel 1956 in Ungheria): nella notte fra il 20 e il 21 agosto le truppe di Mosca (6.000 carri armati, 750.000 soldati) entravano in Cecoslovacchia, accusando i governanti e chi li sosteneva (quasi l’intera popolazione) di essere “agenti controrivoluzionarî al soldo dei capitalisti stranieri”. Le immagini dei praghesi che creavano capannelli intorno ai carri armati per convincere i soldati russi a desistere appartengono ormai all’immaginario collettivo.

Neanche in questo caso i partiti comunisti occidentali seppero condannare l’invasione sovietica con la necessaria fermezza. Il segretario del PCI Longo, dopo aver definito l'intervento in Cecoslovacchia “un tragico errore”, ribadì che nel “grande scontro che è in atto tra socialismo e capitalismo... noi staremo sempre dalla parte del socialismo, dei Paesi e dei partiti che hanno realizzato il socialismo”.

Sedata la rivolta, non era però spenta la sete di libertà nel cuore degli uomini.

Jan Palach
Jan Palach

Per un giovane praghese di 20 anni, studente di filosofia, la libertà del suo popolo era meritevole dell’estremo sacrificio. Il 16 gennaio 1969, nella centrale piazza San Venceslao, Jan si cosparse di benzina e si diede fuoco. In uno zainetto poco distante dal suo corpo furono trovati alcuni appunti, che recitavano tra l’altro: “Poiché i nostri popoli sono sull’orlo della disperazione e della rassegnazione abbiamo deciso d’esprimere la nostra protesta e di scuotere la coscienza del popolo. Il nostro gruppo è costituito da volontari, pronti a bruciarsi per la nostra causa. Poiché ho avuto l’onore di estrarre il numero uno, è mio diritto scrivere la prima lettera e di essere la prima torcia umana. Noi esigiamo l’abolizione della censura e la proibizione di Zpravy (il giornale delle forze di occupazione sovietiche). Se le nostre richieste non saranno esaudite entro cinque giorni e se il nostro popolo non darà un sostegno sufficiente a tali richieste con uno sciopero generale illimitato, una nuova torcia prenderà fuoco”.

Tre giorni dopo, il 19 gennaio, morì per le ustioni riportate. Al suo funerale parteciperanno seicentomila persone. In diciassette seguirono nelle settimane successive il suo esempio (sette furono i morti), anche se la censura impedì che se ne parlasse.

Palach era un cristiano protestante profondamente religioso. Durante i tre giorni di agonia cosciente, spiegò di aver voluto compiere un gesto forte per scuotere le coscienze, ma di non aver cercato la morte ad ogni costo; questa era una possibilità che aveva messo in conto. Il teologo cattolico Josef Zverina, autore della Lettera ai cristiani d’Occidente, così commentò quel gesto: “La tragica morte di Jan Palach non fu un sui-cidio, ma un sacrificio di sé. (...) Palach morì perché vivessero gli altri”. (Un significato simile ha il gesto del vescovo pakistano mons. John Joseph, suicida nel 1998 per protesta contro le esecuzioni di cristiani accusati di “blasfemia” secondo la legge coranica).

Come commentarono invece il gesto di Palach i leader del ’68  italiano? Mario Martucci ravvisò in Palach “un aspetto di fanatismo religioso”; Enzo Biassoni lo definì “eterodiretto”. Per non parlare di chi lo bollò come un “provocatore fascista”.

Il 16 gennaio 1989, pochi mesi prima della caduta del regime comunista, il dissidente (e futuro Presidente della Repubblica) Vaclav Havel fu arrestato mentre cercava di posare un mazzo di fiori sul luogo dove Jan si era dato fuoco.

Nell'agosto 1991, quando con i miei amici mi recai a rendere omaggio a Jan Palach, non corsi - fortunatamente - gli stessi rischi di Havel. (Per inciso, però, proprio i giorni della nostra visita a Praga furono quelli del tentato colpo di stato dei comunisti più ortodossi contro Gorbaciov. Per alcune ore le frontiere furono bloccate. Le notizie erano frammentarie e confuse, tanto più per noi che le ricevevamo solo in boemo... La paura di fare un salto nel passato, di ritrovarsi al di là di una nuova “cortina di ferro”, fu grande). Io avevo diciotto anni, quasi l’età di Jan. Quella visita fu un’occasione per riflettere sulle responsabilità che noi tutti abbiamo nel non considerare scontate le libertà che altri, pagando un caro prezzo, hanno conquistato per noi.

Altra tappa commovente fu l'incontro con il cardinal Tomašek, l'uomo che aveva affrontato la prigionia e la tortura, e che ormai novantenne aveva avuto la grazia di poter recitare il 31 dicembre 1989, nella cattedrale di Praga, il Te Deum di ringraziamento dei popoli cecoslovacchi per la liberazione dal comunismo. Ricordo il cardinale, fisico possente che gli aveva consentito di affrontare tante sofferenze, ripetere con convinzione a noi giovani, in un italiano un po' stentato: "Ottimismo cristianesimo".

Oggi non tutti i giovani praghesi sanno chi era Jan Palach, cui debbono la loro libertà e il ritrovato benessere.
Se fate visita a Praga, portate anche voi un fiore sul luogo del suo martirio.



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