Dorian Gray, ovvero l'illusione della bellezza e del piacere senza confini morali
È sotto gli occhi di tutti l’asprezza con cui va montando il dibattito sui temi bioetici,che vede confrontarsi visioni dell’esistenza e della società molto diverse, a volte quasi opposte. Da una parte c’è la “cultura della vita”, che ha permeato l’identità dell’Occidente cristiano negli ultimi duemila anni. Una cultura che riconosce alla vita una sua dignità intrinseca, in ogni condizione; e che difende la dignità di ogni essere umano, anche il bambino non nato, l’handicappato, il malato terminale.
Dall’altra parte avanza una cultura che lega la dignità della vita non più alla sua sacralità (divina o naturale che la si voglia considerare), bensì alla sua “qualità” (salute, bellezza, piacere). Una dignità ‘condizionata’, insomma. Per cui esisterebbero vite “non degne” di essere vissute.
Qual è il parametro di questa “qualità” della vita? Un parametro molto sfuggente: il desiderio del singolo (o di chi gli sta vicino ed è chiamato a prendersene cura), l’efficienza economica o sociale, la “sostenibilità” ambientale. Potremmo definirla, quindi, “cultura del benessere” (del fitness?).
L’umanissimo desiderio di non soffrire, di migliorare le condizioni della propria vita, degenera insomma nell’utopia di una vita perfetta, alla quale può essere sacrificata la vita concreta (con le sue gioie e i suoi dolori). Se riconosciamo che questa cultura, oggettivamente, si contrappone alla vita, rifiutando quella che può sorgere (contraccezione, sterilizzazione, selezione o manipolazione genetica) o sopprimendo quella già concepita o nata (aborto, libero uso delle droghe, eutanasia), possiamo anche definirla, senza paludamenti – con Giovanni Paolo II -, “cultura della morte”.
L’opinione pubblica spesso non è schierata con nettezza su questi argomenti. In molti c’è confusione, anche per la carenza di informazione e la complessità di alcuni temi; c’è indecisione tra i richiami del cuore e quelli della paura.
A sostenere il dibattito sono soprattutto le élites più attive.
I corifei della cultura del benessere cercano di proporre una rappresentazione semplificatoria di questo dibattito, riducendolo a confronto tra credenti (soprattutto gerarchie cattoliche) e “laici”, tra “conservatori” e “progressisti”. Per cui, secondo loro, la cultura della vita vorrebbe imporre alla società un’ipoteca religiosa, mentre la cultura del benessere sarebbe una cultura che amplia le libertà.
Questa è però una rappresentazione falsata.
Innanzitutto, perché parte da una visione caricaturale e strumentale del concetto di laicità.
In secondo luogo, perché uno sguardo più attento alla realtà ci offre un quadro differente: se è vero che tra i sostenitori della cultura della vita troviamo compatto il mondo cattolico, è vero anche che queste posizioni sono condivise da molti non credenti illustri.
In effetti: possiamo dire che la vita sia un valore solo religioso?
Illusioni e pericoli concreti della cultura del benessere
Se condividiamo il valore anche solo “laico” della vita, dovremmo vedere con preoccupazione i pericoli concreti (alcuni sembrano già tragiche realtà) cui ci espone la cultura del benessere.
Non vediamo il pericolo che - in mancanza di paletti chiari - i requisiti per una vita “degna” divengano sempre più stringenti? E che, quindi, sempre più vite possano essere soppresse con sempre maggiore facilità?
Non vediamo il pericolo che le persone possano essere selezionate o pianificate (come un prodotto industriale)?
Non vediamo il pericolo che i soggetti più deboli (anziani, malati, disabili) vengano considerati un peso?
Talora fa capolino l'affermazione che la vita "degna" sia solo quella caratterizzata contemporaneamente da "consapevolezza, coscienza ed autonomia". Ma in questo modo si pongono le basi per l'eugenetica più spietata: significherebbe decidere l'abbattimento di milioni di persone che in tutto il mondo hanno un deficit, magari provvisorio, di queste funzioni, un deficit che spesso viene recuperato con la rieducazione.
Non si tratta, purtroppo, di paure immotivate, perché l’idea che i soggetti deboli non debbano nascere o possano essere lasciati morire non è un’idea nuova, almeno a partire dall’Ottocento (epoca in cui cominciano a diffondersi dottrine che si allontanano dal solco della tradizione cristiana). Già Weissmann, nel 1882, aveva ritenuto che la morte dell'anziano e perfino della donna e della persona priva di educazione scolare sia priva di importanza per la società, in quanto questi individui vivono su di un piano inferiore rispetto agli altri, meno creativo, quasi vegetativo. Osler, nel 1905, sotto l'influenza di queste concezioni, sostenne che all'età di 40 anni sopravviene la perdita di creatività ed una relativa inutilità dell'individuo, e nello stesso periodo il biologo Haeckel propose che centinaia di migliaia di persone inutili fossero soppresse mediante avvelenamento. Nel 1920 apparve un libro dal titolo L'autorizzazione all'eliminazione delle vite non più degne di essere vissute, di Hoche e Binding. Di qui è stato breve il passo al programma nazista per l'eliminazione di migliaia di pazienti affetti da malattie croniche, o da malattie mentali. L’ordinamento nazionalsocialista è stato l’unico, fino al 1995, ad ammettere l’eutanasia. "La pietà dei saggi è concessa solo alle persone interiormente malate ed in conflitto; questa pietà conosce una sola azione: lasciar morire i malati". Sapete chi è l'autore di queste "pietose" parole? Adolf Hitler...
Per impallidire, però, non c'è bisogno di rievocare il nazismo. Nella "civilissima" e socialdemocratica Svezia, le politiche di sterilizzazione forzata di donne considerate deboli di mente sono durate fino al 1975!
Arrivando ai giorni nostri, un "filosofo" come Peter Singer difende non solo l'eutanasia, ma anche - coerentemente - la soppressione dei neonati handicappati (a dire il vero, aggiunge che tutti i neonati, non essendo "autocoscienti", potrebbero essere soppressi se non vengono feriti i sentimenti dei genitori, e che non c'è differenza tra infanticidio ed aborto).
Insomma: se è intaccato un principio, un discrimine, se è abbattuto un paletto (l’intangibilità e indisponibilità della vita), la china discendente è inarrestabile. Si entra in complicati arzigògoli per stabilire dove bisogna fermarsi, quand’è che una vita merita o no di essere vissuta.
Questo scivolamento fu ben descritto dal medico di origine ebrea Leo Alexander, capo del collegio di accusa nel processo di Norimberga ai medici nazisti: "Gli inizi sono stati dapprima solo un sottile cambiamento nell’atteggiamento di base dei medici. È cominciato con l’accettazione, alla base del movimento eugenetico, che esiste una cosa come una vita non meritevole di essere vissuta. Questo atteggiamento riguardava all’inizio solo i malati gravi e cronici. Gradualmente la sfera di coloro da includere in questa categoria è stata allargata per comprendere i socialmente improduttivi, i non desiderati ideologicamente e alla fine tutti i non tedeschi. È però importante rendersi conto che il cuneo infinitamente piccolo che ha funzionato da leva perché questa intera linea di pensiero ricevesse impeto è stata l’atteggiamento nei confronti del malato non recuperabile. La categoria vite immeritevoli di essere vissute è sufficientemente vaga da consentire una graduale estensione a nuovi e meno chiari casi, una volta che il principio di base sia stato assicurato" (articolo del 14 luglio 1949 sul New England Journal of Medicine. L'evidenziazione in grassetto è nostra).
Possiamo poi parlare – come vorrebbero i sostenitori della cultura del benessere - di “espansione della libertà”, quando una decisione viene assunta in un momento di sconforto o depressione (malato grave, donna sola)? O quando viene presa per conto della vittima (aborto, eutanasia di minori o di malati non coscienti, sterilizzazione forzata)?
Possiamo parlare di rispetto della libertà quando si vuol espropriare la coscienza delle persone, sostenendo che gli atti contro la vita sono moralmente legittimi solo perché introdotti nelle legislazioni, e pretendendo di imporre a tutti la cooperazione con tali atti?
Non vediamo i gravi rischi per l’uguaglianza, la libertà e la democrazia che vengono da cedimenti nella difesa della vita?
Non vediamo che l’implosione demografica e la paura del futuro stanno conducendo al collasso della civiltà occidentale, con le stesse modalità con cui si esaurirono le civiltà precristiane? (Qualcuno, a dire il vero, questo collasso lo vede e lo auspica...)
Non vediamo, infine, i rischi per la pace, che con troppa superficialità noi europei stiamo dando per scontata?
Cultura del benessere e antiumanesimo (le radici della cultura della morte)
In realtà, la minoranza che propaganda la cultura del benessere, pur utilizzando gli argomenti dell’espansione dei diritti e della libertà, è mossa da una visione del mondo e della vita coerente (anche se non sempre pienamente consapevole delle sue premesse e conseguenze): una prospettiva antiumanista.
Questa prospettiva ha prevalentemente una matrice utilitaristica.
Un utilitarismo diffuso è quello che considera la vita di una persona solo per la sua capacità di accrescere il benessere (produttività) o di fornire gratificazioni emotive (il figlio al “momento giusto” e “bello, sano, intelligente”, per soddisfare l’istinto paterno/materno).
Di contro, il figlio al momento sbagliato, l’anziano non autosufficiente, il malato costituiscono un impaccio all’uso del tempo libero, alle disponibilità economiche, alla progressione di carriera. Ogni valutazione dell’arricchimento umano e morale che può essere arrecato da chi soffre, o da chi esprime l’imprevisto, sembra del tutto assente (i geni – artisti, scienziati – gravemente malati o nati “per sbaglio”? Non contano).
La sessualità è privata tanto della sua funzione biologica (riproduzione, apertura alla vita) quanto di quella antropologica (amore, dono di sé). Il piacere non è più visto come una dimensione che arricchisce la sessualità, ne esprime la grandezza; piuttosto, diviene l’unica dimensione significativa. (Evidenziare questo capovolgimento del significato della sessualità non significa legarla solo alla riproduzione, non significa rifiutare che la filiazione sia anche una scelta dei genitori; significa semplicemente constatare che, quando la procreazione è vista come un "pericolo", si aprono le porte ad una mentalità ostile alla vita).
Un utilitarismo più elitario, ma che si fa promotore di politiche su larga scala, ritiene che il controllo della popolazione sia necessario a garantire gli assetti sociali ed economici esistenti. Questa prospettiva denuncia un’inesistente esplosione demografica e considera il controllo della popolazione con ogni mezzo la priorità delle politiche internazionali pubbliche (ONU, UE) e private (organizzazioni “umanitarie”).
L’antiumanesimo può anche farsi ideologia, negando apertamente l’eminente dignità dell’essere umano, come nel paganesimo ambientalista.
Quando la cultura del benessere aderisce organicamente alle istanze antiumaniste, la sua trasformazione in cultura della morte diviene piena e inevitabile.
Nell’era moderna, del resto, la promozione di aborto, eutanasia, eugenetica (ma anche di un ambientalismo paganeggiante o di un esasperato culto del corpo) si deve al nazionalsocialismo. Ricordare questo dato di fatto non è una “provocazione”, non significa etichettare come “nazista” chiunque sostenga una di quelle pratiche, presupporre una coerente adesione a teorie di supremazia razziale; significa semplicemente invitare ad una riflessione sul piano inclinato che si sta percorrendo, sulle inevitabili connessioni tra antiumanesimo e cultura della morte.
Queste derive utilitaristiche o ideologiche prevalgono sul concetto di dignità umana (o lo piegano alla propria visione), perché non è più univoco il concetto di “uomo” (si parla per questo di “questione antropologica”), di natura umana. Anche i diritti umani fondamentali, sganciati dal diritto naturale, sono quindi considerati modificabili, negoziabili, disponibili.
La strategia della cultura della morte
Quale che sia la sua matrice – utilitaristica o ideologica – l’antiumanesimo si manifesta con un’azione tenace e coordinata:
promozione di tutte le pratiche che aggrediscono la vita umana (aborto, contraccezione, sterilizzazione, libero uso delle droghe, selezione o manipolazione genetica, eutanasia);
uso di tecniche di comunicazione propagandistiche (e spesso menzognere) per la diffusione di queste pratiche (allarmismi infondati sulle conseguenze di una loro mancata diffusione);
uso di tecniche di comunicazione che sollecitano fattori istintuali ed emotivi (testimonials famosi, tecniche pubblicitarie, solleticamento delle pulsioni istintive);
uso di strategie subdole per la diffusione delle pratiche contro la vita, come la cosiddetta “strategia del salame”: si invoca l’eccezione al principio, quindi la moltiplicazione delle eccezioni, fino a far sparire – fetta dopo fetta – tutto il principio, e ottenere una larga diffusione di quelle pratiche. Appartengono a questa strategia le teorie del "male minore", della “riduzione del danno”, della tutela nel “caso limite”, del fine che giustifica i mezzi (una variante è quella di avanzare inizialmente richieste estremistiche, per far apparire all'opinione pubblica lo spostamento verso la pratiche contro la vita - la prima fetta di salame tagliata - come un accettabile compromesso);
capovolgimento del senso comune: richiesta di tutela giuridica come “diritti” di quelli che sinora erano considerati delitti. In particolare, si parla di “diritti civili”, intesi non tanto come generici diritti di cittadinanza, quanto come nuovi diritti che trovano un fondamento esclusivo nella legislazione, deviando dal tradizionale radicamento nel diritto naturale;
invocazione ambivalente, a seconda della convenienza del momento, ora della “sovranità popolare” ora della “legalità internazionale” (pressioni esplicite sui governi da parte di organismi internazionali) o della “legalità costituzionale” (decisioni adottate dalla magistratura o da organi amministrativi e contrastanti con le leggi approvate dal popolo);
invocazione ambivalente del rispetto della
"privacy": si pretende di confinare nella sfera privata materie che hanno evidente rilevanza pubblica, e al tempo stesso si invocano provvedimenti legislativi e/o giudiziarî che impongano la realizzazione dei cosiddetti "diritti civili";
riduzione violenta di ogni spazio di opposizione: chi contesta i nuovi “diritti civili” è un intollerante; negazione dell’obiezione di coscienza;
promozione di quelle dottrine filosofiche (
relativismo), antropologiche (
femminismo antimaterno, teoria del
gender) e parascientifiche (darwinismo, ambientalismo) che negano l’originalità e il primato dell’essere umano e ostacolano la trasmissione della vita;
azione di contrasto e di
denigrazione del cristianesimo (la religione del Dio fattosi uomo)
e della Chiesa cattolica (considerata la principale agenzia di contrasto delle politiche antiumaniste);
saldatura con interessi economici forti, che mirano ai finanziamenti pubblici sulla ricerca biomedica e farmaceutica (e in particolare su quei filoni improduttivi che non otterrebbero denaro senza pressioni politiche), ai profitti da brevetti biomedici, ai profitti da prodotti farmaceutici legati ad azioni invasive sul corpo della donna;
saldatura con lobbies compatte e capaci di grande mobilitazione.
Una via d’uscita?
Come affrontare queste derive, dunque?
Serve innanzitutto un confronto sincero e razionale, che non si basi su informazioni manipolate. Un confronto che abbia il coraggio di rinunciare alla difesa di interessi miopi, al miraggio di soddisfare pulsioni istintuali, all’orgoglio di difendere il proprio fortino ideologico. Un confronto che abbia come obiettivo quello di guardare in faccia la realtà, di leggere le conseguenze dell’azione individuale e collettiva, di evitare tragedie irreparabili. L’umanità si è già risvegliata più volte, dolorosamente, dalla hýbris della propria onnipotenza.
Tale confronto dovrà essere condotto sul piano politico-giuridico: per riaffermare l’intangibilità dei diritti umani fondamentali e il loro radicamento nel diritto naturale; per ristabilire le regole dello Stato di diritto, contro le forzature imposte dalle lobbies.
Le premesse di ogni confronto costruttivo, però, devono muovere dal piano culturale: riscoprire il significato di natura umana e persona; rivalutare la dignità della vita umana in ogni condizione; promuovere una cultura dell'accoglienza; educare i giovani al rispetto integrale di sé e degli altri, al significato pieno della sessualità, alla ricchezza della vita come impegno, come condivisione, come costruzione, e non solo come “evasione” o “successo”.
Senza dimenticare che consapevolezza culturale e previsione normativa sono fattori che si influenzano reciprocamente, e quindi deve procedere parallelamente l'azione nelle due direzioni.
L’umanesimo cristiano a difesa della vita
Serve un confronto sincero e razionale, dunque. Con alcuni interrogativi.
Sarà possibile un discorso razionalmente condiviso sull’uomo, se non si attingerà alle risorse dell’umanesimo cristiano, che ha forgiato la civiltà occidentale, che sulla vita ha elaborato profonde riflessioni, dalla Didaché – il più antico scritto cristiano non biblico, che aveva già delineato il contrasto tra la cultura della vita e la cultura della morte (1) - all’enciclica Evangelium Vitae?
Sarà possibile che la lotta contro la sofferenza non diventi un’ossessione, se non ci sarà una visione religiosa che ne decifri il significato (Fil 3,10; 1 Pt 2,21; Col 1,24)?
Sarà possibile difendere la libertà, se non si avrà la forza della Verità che libera l’uomo (Gv 8,32) integralmente (anche dai pregiudizi, dalle passioni, dagli egoismi distruttivi)?
Sarà possibile conservare l’umana solidarietà, se non si ascolterà una Parola che ricordi la centralità dell’amore, la necessità che l’uomo sia “guardiano di suo fratello” (Gen 4,9) e rifugga l’odio (1 Gv 3,15) se non vuole diventare omicida?
Sarà possibile difendere la dignità assoluta dell’essere umano, se si dimentica che questa dignità riposa nel suo essere creato a “immagine e somiglianza” di Dio (Gen 1,26), nonché nel suo essere chiamato a divenire “conforme all’immagine del Figlio Suo” (Rm 8,29)?
Sarà possibile difendere la dignità assoluta di ogni essere umano, se si dimenticherà che la venuta del Messia interpella innanzitutto gli ultimi?
Sarà possibile trovare il coraggio di difendere la vita, anche di fronte alle prevaricazioni del potere, se l’appello alla propria coscienza non sarà sorretto dal timor di Dio (Es 1,17; At 5,29)?
Sarà possibile, posti davanti alla vita e alla morte, scegliere la vita, se non si sceglierà l’amore per Dio e l’unione con Lui (Dt 30,19-20)?
Sarà possibile difendere la vita, se non “volgeranno lo sguardo a Colui che hanno trafitto” (Gv 19,37), al Figlio offerto perché l’uomo “non muoia, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16), al Cristo che ha annunciato “Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10,10)?
_________________________
(1) «Vi sono due vie, una della vita, e l'altra della morte; vi è una grande differenza fra di esse... Secondo precetto della dottrina: Non ucciderai... non farai perire il bambino con l'aborto né l'ucciderai dopo che è nato... La via della morte è questa: ... non hanno compassione per il povero, non soffrono con il sofferente, non riconoscono il loro Creatore, uccidono i loro figli e con l'aborto fanno perire creature di Dio; allontanano il bisognoso, opprimono il tribolato, sono avvocati dei ricchi e giudici ingiusti dei poveri; sono pieni di ogni peccato. Possiate star sempre lontani, o figli, da tutte queste colpe!». (Didaché, I, 1; II, 1-2; V, 1 e 3)