Marcello Pera
Perché dobbiamo dirci cristiani. Il liberalismo, l'Europa, l'etica
ed. Mondadori, Milano 2008
Il libro di Marcello Pera Perché dobbiamo dirci cristiani. Il liberalismo, l’Europa, l’etica è decisamente importante in sé ed è ancora più importante per la lettera inconsueta che Benedetto XVI ha scritto al suo Autore.
Si può dire che è un libro a tesi, in senso positivo, in quanto sostiene una posizione dichiarata con chiarezza fin dall’inizio e poi argomentata attraverso tutte le pagine. Già nell’introduzione Marcello Pera scrive: “La mia posizione è quella del laico e liberale che si rivolge al cristianesimo per chiedergli le ragioni della speranza”. La conclusione di tutto il percorso, e anche di ciascuno dei tre capitoli in cui il libro si articola, è quindi che “dobbiamo dirci cristiani”: una conclusione forte e in buona misura contro corrente, cosa di cui l’Autore è ben consapevole. Il libro si colloca pertanto dentro al grande dibattito riguardo al cristianesimo che attraversa da alcuni anni, con nuovo vigore, tutto l’Occidente. Un dibattito che si muove tra due poli: quello di coloro che vorrebbero espungere il cristianesimo dalla nostra cultura pubblica, o almeno ridimensionare la sua presenza, e quello di coloro che cercano invece di mantenere e rimotivare questa presenza, ritenendola oggi particolarmente necessaria e benefica.
In questo contesto è estremamente significativa la lettera di Benedetto XVI. Una lettera inconsueta, come dicevo, ma per nulla isolata. Essa rientra infatti nella nutrita serie dei rapporti e delle convergenze tra Marcello Pera e il Cardinale Ratzinger, e poi il Papa Benedetto XVI. Il primo atto di questa serie sono le due conferenze che il Presidente Pera e il Cardinale Ratzinger hanno tenuto rispettivamente il 12 e il 13 maggio 2004 all’Università Lateranense e nella Sala del Capitolo del Senato. A queste due conferenze fece seguito lo scambio di due lettere di approfondimento e il tutto è stato pubblicato ancora nel 2004 da Mondadori in un libro dal titolo Senza radici. Europa, relativismo, cristianesimo, islam: come si vede, sono almeno in buona parte i temi del libro che presentiamo questa sera e della lettera del Papa. Poi Benedetto XVI affidò a Marcello Pera l’introduzione al suo libro L’Europa di Benedetto nella crisi delle culture, uscito nel maggio 2005 presso l’Editore Cantagalli, che raccoglieva alcuni suoi interventi da Cardinale, tra cui l’ultimo pronunciato a Subiaco il 1° aprile 2005, il giorno precedente alla morte di Giovanni Paolo II, nel quale era contenuto l’invito, rivolto agli amici non credenti, a cercare comunque di vivere e indirizzare la propria vita "veluti si Deus daretur", come se Dio ci fosse. E il Presidente Pera intitolava la sua introduzione “Una proposta da accettare”. Ancora, il 15 ottobre 2005, in occasione di un convegno della Fondazione Magna Carta su libertà e laicità, Benedetto XVI inviò al Presidente Pera una lettera assai significativa nella quale proponeva una laicità “sana” e “positiva”. Nella lettera pubblicata nel libro che presentiamo questa sera il Papa non solo manifesta grande apprezzamento e consenso per il libro stesso, ma prende a sua volta posizione, con affermazioni brevi ma puntuali e pregnanti, sulle principali questioni che esso affronta. Ritornerò dunque sulle parole del Pontefice esaminando ciascuna delle questioni stesse. Per ora osservo soltanto che queste parole esprimono non solo una simpatia personale ma una sintonia profonda sui contenuti e gli orientamenti.
Prima di entrare nel merito degli argomenti aggiungo una parola sull’indole di questo libro: è il lavoro di uno studioso che maneggia con grande padronanza gli strumenti analitici ai quali si è formato negli anni della ricerca e dell’insegnamento, soprattutto nel campo della filosofia delle scienze. È pertanto un testo rigoroso ed organico. Ma è anche un libro – come dice l’Autore stesso – scritto per farsi capire dal pubblico più ampio possibile, che in alcune pagine può richiedere un piccolo sforzo filosofico, ma comunque entro limiti accettabili per il normale lettore. Un libro dunque che congiunge il rigore argomentativo con la passione personale e l’immediatezza del linguaggio.
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Questo libro è denso di riferimenti e ricco di approfondimenti, ma la sua struttura è sostanzialmente semplice e si ripete nei tre capitoli, dedicati rispettivamente al liberalismo, all’Europa e all’etica. Perciò è possibile presentare questi capitoli unitariamente, mettendo in luce lo schema argomentativo che hanno in comune. Si parte dalla situazione attuale e in concreto dalla sua problematicità, dalle aporie e dalle debolezze che si riscontrano sia nella teoria e prassi del liberalismo sia nel processo di unificazione dell’Europa sia nell’etica pubblica. Poi si individuano le ragioni di queste difficoltà, che vengono ricondotte in ciascuno dei capitoli al divorzio dal cristianesimo. Anche qui l’Autore procede non in maniera astratta ma tratteggiando con cura la parabola storica di questo allontanamento: all’inizio del percorso si riscontra in ciascuno dei casi un rapporto forte e profondo con il cristianesimo, che poi si allenta progressivamente, con la tendenza ad estinguersi o anche a rivolgersi nel suo contrario, trasformandosi in ostilità e insofferenza. Una terza tappa dell’argomentazione consiste nel mostrare che quella parabola non era motivata da ragioni necessarie, perché intrinseche al suo punto di partenza, ma al contrario rappresenta piuttosto una deviazione rispetto alle premesse. Da ultimo vengono addotte le motivazioni per le quali conviene, anzi è doveroso – secondo la formula “dobbiamo dirci cristiani” – riconoscere e ristabilire concretamente il legame del liberalismo, dell’Europa e della sua unità e dell’etica, compresa in particolare l’etica pubblica, con il cristianesimo. Queste motivazioni sono di ordine sia pratico sia anche teoretico e il legame che intendono giustificare non è accidentale ma intrinseco.
L’Autore dedica giustamente molta attenzione a precisare più concretamente la natura di tale legame e quindi il senso nel quale dobbiamo dirci cristiani se intendiamo essere autenticamente liberali, se vogliamo che giunga a compimento il processo dell’unificazione europea, se desideriamo invertire la tendenza alla deriva dell’etica. Centrale è qui la distinzione tra “cristiani per fede” e “cristiani per cultura”. Ai fini predetti, occorre essere cristiani per cultura, mentre non è e non può essere necessario essere cristiani per fede: quest’ultima è una scelta che appartiene alla vita personale di ciascuno di noi, al mistero del nostro rapporto con Dio. Non basta tuttavia, secondo Marcello Pera, trincerarsi nel solo “cristiani per cultura”: è necessario superare un razionalismo chiuso e aprirsi all’ampiezza dell’esperienza umana, non amputandola della presenza nella nostra vita del senso del divino, del mistero, del sacro e dell’infinito. È necessario dunque essere aperti al “salto” della fede, senza per questo esigere in alcun modo che esso sia effettivamente compiuto. L’Autore si riferisce a questo riguardo non solo a Pascal ma anche al Kant della Critica della ragion pratica, per il quale “è moralmente necessario ammettere l’esistenza di Dio” e vivere "veluti si Deus daretur". Infatti, sempre secondo Kant, “la speranza comincia soltanto con la religione”, e Marcello Pera aggiunge che ciò vale non solo per la speranza ma anche per la nostra vita politica: le leggi non bastano, occorrono virtù adeguate e a tal fine la religione cristiana deve essere anche un sentimento, che si traduce in un costume civile. Così l’Autore ripropone, con proprie motivazioni e dal proprio punto di vista, il "veluti si Deus daretur" di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI.
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All’interno di questo quadro generale il percorso di ciascuno dei tre capitoli è naturalmente differenziato in rapporto ai temi trattati. Non essendo possibile qui seguire la trama dei singoli sviluppi mi limiterò ad alcuni punti nodali che mi sembrano più rilevanti.
Il primo, che l’Autore affronta espressamente solo nel terzo capitolo ma che gioca un ruolo essenziale in tutto l’impianto del libro, riguarda il rapporto tra liberalismo e relativismo. La posizione di Pera è netta: “se il relativismo è corretto, il liberalismo sbaglia con la sua pretesa di validità universale, con i suoi diritti di tutta l’umanità, con la sua idea di produrre un regime migliore degli altri”. Perciò il relativismo è incompatibile con il liberalismo, e a maggior ragione con il cristianesimo il cui Fondatore ha detto: “Io sono la via, la verità e la vita” (Gv 14,6). Viene rovesciata così la tesi diffusa che un atteggiamento relativistico sia invece indispensabile per la realizzazione di una società libera.
Un po’ ovunque nel libro si mette in evidenza come il liberalismo autentico ed originario – quello dei “Padri”, individuati principalmente in John Locke, Thomas Jefferson ed Immanuel Kant – sia la dottrina dei diritti fondamentali dell’uomo in quanto uomo – i diritti oggi riconosciuti dalle carte internazionali – che precedono come tali ogni decisione positiva degli Stati e si fondano su una concezione etica dell’uomo ritenuta vera e trans-culturale. Sempre in riferimento ai “Padri”, l’Autore sottolinea la matrice teista e cristiana di tali diritti, iscritti nella nostra natura dal Creatore: per questo, come afferma la Dichiarazione di indipendenza americana, “tutti gli uomini sono creati uguali,… dotati dal loro Creatore di alcuni diritti inalienabili”. Così, mentre da una parte si conferma l’incompatibilità del liberalismo con il relativismo, dall’altra emerge il suo “nesso non estrinseco”, storico e concettuale, con il cristianesimo.
Un pregio del libro è l’aver sottoposto ad un esame approfondito le posizioni e le motivazioni di alcuni principali teorici del liberalismo che non condividono questa tesi, tra i quali anzitutto John Rawls e Jürgen Habermas (quest’ultimo non un liberale in senso stretto). Essi sostengono l’autosufficienza del liberalismo politico, nel senso che esso non si basa su alcuna lettura “pre-politica” – etica, metafisica o religiosa che sia – e anche che esso distingue e separa la sfera pubblica, non religiosa, dalle sfere private, religiose o di altro tipo: anche se poi questa separazione dagli stessi autori – soprattutto da Habermas – è in buona misura attenuata e corretta, con il risultato però di rendere le loro posizioni alquanto incerte e anche non troppo coerenti. Marcello Pera mostra come questa autosufficienza del liberalismo sia soltanto apparente, mentre in realtà esso presuppone il riconoscimento dell’altro come persona e come fine in se stesso.
Assai diversa è la posizione di Benedetto Croce: specialmente nel celebre saggio Perché non possiamo non dirci cristiani, egli fa un grandissimo e commosso elogio del cristianesimo, come la più grande, e tuttora decisiva, rivoluzione che l’umanità abbia compiuto. Il suo liberalismo però non è una dottrina giuridico-politica, ma “una concezione totale del mondo e della realtà”: in concreto la libertà è lo Spirito nella storia, mentre “lo svolgimento dello Spirito” è il cammino stesso della libertà. In questa concezione immanentista la rivoluzione cristiana può essere solo un momento dello svolgimento dello Spirito, destinato a riassorbirsi nell’immanenza dello Spirito stesso. Perciò, mentre il filosofo idealista vede nell’uomo religioso il suo “fratello minore, il suo se stesso di un momento prima”, quest’ultimo non può non vedere nel filosofo “il suo avversario, anzi il suo nemico mortale”. Pera conclude che in questo modo Benedetto Croce – sia pure controvoglia – finisce con il dare una giustificazione filosofica, e non solo contingente come è ad esempio l’anticlericalismo, alla “equazione laica” che vuole identificare l’autentico liberalismo con il superamento della religione e con il laicismo.
Alla luce di tutto questo suonano molte precise e impegnative le parole della lettera di Benedetto XVI: “Con una conoscenza stupenda delle fonti e con una logica cogente Ella analizza l’essenza del liberalismo a partire dai suoi fondamenti, mostrando che all’essenza del liberalismo appartiene il suo radicamento nell’immagine cristiana di Dio… Con una logica inconfutabile Ella fa vedere che il liberalismo perde la sua base e distrugge se stesso se abbandona questo suo fondamento”.
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A questo punto è possibile dar conto più rapidamente di altre tesi qualificanti di questo libro. In particolare di quella riguardante il multiculturalismo, che l’Autore esamina giustamente subito dopo aver parlato del relativismo, con il quale il multiculturalismo ha un legame profondo. Non si tratta semplicemente del dato di fatto che le società moderne sono complesse e contengono al loro interno minoranze, comunità, gruppi di varie etnie e culture. Specifica e decisiva dell’approccio multiculturale è la convinzione che non possano esistere criteri per valutare se una cultura sia migliore o peggiore di un’altra: ogni forma di cultura avrebbe infatti caratteristiche proprie e irriducibili e meriterebbe il medesimo rispetto delle altre. Marcello Pera riconosce senz’altro il contributo delle culture alla formazione dell’identità delle persone e alla stessa vita di una società libera, a condizione però che siano rispettati, e prevalgano su ogni differenza culturale, i diritti fondamentali e naturali delle persone. Proprio qui il multiculturalismo mostra il proprio limite, perché la sua logica interna lo conduce a misconoscere il carattere universale e inalienabile di tali diritti. Le sue conseguenze pratiche sono a loro volta spesso incresciose: esso rende la più ampia società insicura di sé e può condurla a ripudiare la propria identità sia culturale sia religiosa, e d’altro canto non facilità ma ostacola una effettiva integrazione degli immigrati. Anche a questo riguardo la lettera di Benedetto XVI contiene parole inequivocabili: “Non meno impressionato sono stato dalla Sua analisi… della multiculturalità in cui Ella mostra la contraddittorietà interna di questo concetto e quindi la sua impossibilità politica e culturale”.
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Con le grandi domande sul liberalismo, sul relativismo e sul multiculturalismo si connette la questione dell’Europa e della sua identità e unità, in rapporto al ruolo che ha avuto ed ha in Europa il cristianesimo. A questa questione è dedicato tutto il secondo capitolo del libro, ma qui possiamo limitarci al punto centrale: Marcello Pera individua la ragione chiave delle persistenti difficoltà del processo di unificazione dell’Europa, e in particolare dei fallimenti registrati a proposito della “Carta europea”, nel rifiuto di riconoscere adeguatamente il ruolo svolto dal cristianesimo per la formazione dell’Europa e della sua identità e anche per la costruzione dello Stato liberale: è vero infatti che le tradizioni dell’Europa sono composite e che nell’arco dei secoli è avvenuta un’ampia mescolanza di culture, ma l’anima dell’Europa è il cristianesimo, che ha articolato, fuso e portato ad unità queste diverse culture e tradizioni, componendole in un quadro che ha fatto dell’Europa il “continente cristiano”. E tuttora il cristianesimo, come ha riconosciuto Habermas, è la sorgente a cui si alimenta quella che lo stesso Habermas definisce “l’autocomprensione normativa della modernità”, senza che siano disponibili a tutt’oggi opzioni alternative. Non riconoscere questo dato decisivo, e voler fondare invece l’unità europea soltanto su di un astratto “patriottismo costituzionale”, come sembra proporre Habermas, lascia l’Europa senza una precisa identità e senza un principio realmente unificante, oltre a dividere l’Occidente allontanando l’Europa dall’America. Per questi motivi l’Autore conclude senza esitazioni: “l’Europa deve dirsi cristiana”, incontrando di nuovo il forte consenso di Benedetto XVI che gli scrive: “Di importanza fondamentale è la Sua analisi di ciò che possono essere l’Europa e una Costituzione europea in cui l’Europa non si trasformi in una realtà cosmopolita, ma trovi, a partire dal suo fondamento cristiano-liberale, la sua propria identità”.
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In rapporto al problema del fondamentalismo religioso, e in particolare del fondamentalismo islamico, il libro entra anche nella tematica del dialogo interreligioso, al quale la Chiesa ha invitato i cattolici fin dalla Dichiarazione Nostra aetate del Concilio Vaticano II. Marcello Pera afferma nettamente che un tale dialogo, “in senso tecnico e stretto” non può esistere, perché presuppone che gli interlocutori siano disponibili alla revisione e anche al rifiuto delle verità con cui iniziano lo scambio dialettico, mentre le religioni, e specialmente le religioni monoteiste e rivelate, hanno ciascuna la propria verità e i propri criteri per accertarla. Perciò, richiamandosi all’invito al “dialogo delle culture” con cui Benedetto XVI concludeva la sua celebre lezione di Regensburg, propone che tra le religioni si instauri questa seconda forma di dialogo, che riguarda non il nucleo dogmatico ma le conseguenze culturali – in particolare di tipo etico – delle diverse religioni, ossia i diritti attribuiti o negati all’uomo, i costumi sociali consentiti o proibiti, le forme di relazioni interpersonali ammesse o censurate, gli istituti politici raccomandati o vietati. Questo dialogo interculturale tra le religioni può essere dialogo in senso stretto e può condurre gli interlocutori a rivedere le proprie posizioni iniziali, correggerle, integrarle e anche rifiutarle, senza che ciò implichi necessariamente una messa in discussione del proprio nucleo dogmatico. Il patrimonio morale dell’umanità, inalienabile e non negoziabile, rappresenta secondo Pera il grande terreno comune di questo dialogo.
Su questa problematica indubbiamente delicata Benedetto XVI, nella sua lettera, si sofferma un poco più a lungo, prendendo ancora una volta una posizione netta e consonante. Egli scrive: “Particolarmente significativa è per me anche la Sua analisi dei concetti di dialogo interreligioso e interculturale. Ella spiega con grande chiarezza che un dialogo interreligioso nel senso stretto della parola non è possibile… senza mettere tra parentesi la propria fede”. Urge invece “tanto più il dialogo interculturale che approfondisce le conseguenze culturali della decisione religiosa di fondo”. Occorre pertanto affrontare tali conseguenze “nel confronto pubblico… Qui il dialogo e una mutua correzione e un arricchimento vicendevole sono possibili e necessari”. Il portavoce della Sala Stampa vaticana, Padre Federico Lombardi, ha osservato a giustissimo titolo che Benedetto XVI è personalmente assai impegnato nel dialogo tra le religioni, come mostrano tra l’altro le sue visite alle sinagoghe e ad una moschea. Rimane vero al tempo stesso che le parole da lui scritte al Presidente Pera rappresentano un chiarimento importante, e a mio avviso prezioso, circa la natura e le finalità di questo dialogo, nella linea che il Cardinale Ratzinger e poi Benedetto XVI aveva già più volte indicato e che ha un suo fondamentale aggancio nella Dichiarazione Dominus Iesus pubblicata nel 2000 dalla Congregazione per la Dottrina della Fede. Ugualmente indispensabile, anche al fine di una corretta interpretazione dei vari documenti ecclesiastici, è tener conto del senso più preciso e più stretto, o invece più ampio e comprensivo, che assume via via la parola “dialogo”.
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Un ultimo punto a cui vorrei accennare è quello della “parabola dell’etica liberale”, di cui si parla verso la fine del libro. Prendendo come riferimento dapprima Kant, poi John Stuart Mill e infine le interpretazioni del liberalismo attualmente prevalenti, Marcello Pera traccia la parabola seguente: con Kant la legge morale è la legge (cristiana) dell’imperativo categorico, con cui la ragione universale comanda, in modo altrettanto universale, la volontà. Questa legge impone il rispetto della persona. Con Stuart Mill la legge morale è la legge (utilitaristica) che comanda come buone l’azione o la regola a cui segue il massimo di utilità per tutti. Tale legge impone il rispetto della libertà. Per le correnti oggi prevalenti non esiste alcuna legge morale universale, né religiosa né laica, e – limitatamente al mondo liberale, in concreto occidentale – vale il rispetto delle libere scelte di valore degli individui. Siamo dunque passati dall’universalità alla relatività e dalla persona al soggetto che è unica norma a se stesso. L’Autore ne trae la conseguenza che anche qui ci troviamo di fronte a quel bivio del liberalismo, tra cristianesimo e laicismo, che egli aveva già indicato all’inizio del suo libro. A questo punto il bivio si può articolare così: o il liberalismo si sposa con una concreta dottrina del bene, in particolare quella cristiana che gli è congenere, e allora esso ha qualcosa da offrire alla crisi morale contemporanea, o invece il liberalismo si professa autosufficiente, “neutrale” o “laico”, e allora diventa un moltiplicatore della crisi stessa. Anche qui Benedetto XVI mostra il suo interesse e il suo accordo, scrivendo: “Ella mostra che il liberalismo, senza cessare di essere liberalismo ma, al contrario, per essere fedele a se stesso, può collegarsi con una dottrina del bene, in particolare quella cristiana che gli è congenere, offrendo così veramente un contributo al superamento della crisi”.
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A chi mi chiedesse un giudizio personale su questo libro potrei rispondere semplicemente rimandando alla lettera di Benedetto XVI, dato che ne condivido i contenuti, non solo perché è scritta dal Papa, ma perché questi sono anche i convincimenti che ho maturato con crescente chiarezza. Preferisco però aggiungere brevemente qualcosa di mio, anzitutto riguardo alla lettera del Papa. Delle cinque prese di posizione in cui essa si articola, soltanto quella riguardante il rapporto tra Europa e cristianesimo può considerarsi la riaffermazione di una linea ben nota della Chiesa e dei Pontefici, sebbene anche qui suoni nuovo il parlare, da parte di un Pontefice, del fondamento cristiano-liberale dell’Europa. Le altre quattro prese di posizione, sul radicamento del liberalismo nell’immagine cristiana di Dio, sulla multiculturalità, sul dialogo interculturale piuttosto che interreligioso e infine sul rapporto tra il liberalismo e la dottrina cristiana del bene, si collocano certamente ben dentro alla linea di pensiero che Joseph Ratzinger-Benedetto XVI ha espresso ed approfondito in tante occasioni, ma costituiscono pur sempre, sia per i loro contenuti sia per il vigore e la nettezza con cui sono formulate, sviluppi o chiarimenti assai significativi che contribuiranno non poco al dibattito in corso sui rapporti tra il cristianesimo e il mondo contemporaneo.
Quanto all’Autore di questo libro, oltre ad esprimergli personale gratitudine per la forte e fortemente argomentata affermazione dell’importanza di dirsi cristiani oggi, vorrei pormi in dialogo con gli interrogativi che egli solleva nelle ultime pagine, per dire che l’invito di Benedetto XVI ad “allargare i confini della ragione” è certamente – come egli osserva – un appello, piuttosto che una soluzione già teoreticamente disponibile, e che in ogni caso quella di essere cristiani, o almeno di comportarsi da cristiani, rimane una scelta libera, ma proprio per questo è necessaria e urgente quella sincera e crescente collaborazione tra cattolici e laici che Benedetto XVI ha più volte auspicato e di cui questo libro, insieme alla lettera del Papa, è un ottimo esempio.
La presentazione del libro che abbiamo pubblicata è stata pronunciata dal card. Ruini a palazzo Wedekind, ed è già apparsa su http://chiesa.espresso.repubblica.it.
La lettera di Benedetto XVI riprodotta in apertura del libro
Caro Senatore Pera,
in questi giorni ho potuto leggere il Suo nuovo libro "Perché dobbiamo dirci cristiani". Era per me una lettura affascinante. Con una conoscenza stupenda delle fonti e con una logica cogente Ella analizza l'essenza del liberalismo a partire dai suoi fondamenti, mostrando che all'essenza del liberalismo appartiene il suo radicamento nell'immagine cristiana di Dio: la sua relazione con Dio di cui l'uomo è immagine e da cui abbiamo ricevuto il dono della libertà. Con una logica inconfutabile Ella fa vedere che il liberalismo perde la sua base e distrugge se stesso se abbandona questo suo fondamento. Non meno impressionato sono stato dalla Sua analisi della libertà e dall'analisi della multiculturalità in cui Ella mostra la contraddittorietà interna di questo concetto e quindi la sua impossibilità politica e culturale. Di importanza fondamentale è la Sua analisi di ciò che possono essere l'Europa e una Costituzione europea in cui l'Europa non si trasformi in una realtà cosmopolita, ma trovi, a partire dal suo fondamento cristiano-liberale, la sua propria identità.
Particolarmente significativa è per me anche la Sua analisi dei concetti di dialogo interreligioso e interculturale. Ella spiega con grande chiarezza che un dialogo interreligioso nel senso stretto della parola non è possibile, mentre urge tanto più il dialogo interculturale che approfondisce le conseguenze culturali della decisione religiosa di fondo. Mentre su quest'ultima un vero dialogo non è possibile senza mettere fra parentesi la propria fede, occorre affrontare nel confronto pubblico le conseguenze culturali delle decisioni religiose di fondo. Qui il dialogo e una mutua correzione e un arricchimento vicendevole sono possibili e necessari. Del contributo circa il significato di tutto questo per la crisi contemporanea dell'etica trovo importante ciò che Ella dice sulla parabola dell'etica liberale. Ella mostra che il liberalismo, senza cessare di essere liberalismo ma, al contrario, per essere fedele a se stesso, può collegarsi con una dottrina del bene, in particolare quella cristiana che gli è congenere, offrendo così veramente un contributo al superamento della crisi.
Con la sua sobria razionalità, la sua ampia informazione filosofica e la forza della sua argomentazione, il presente libro è, a mio parere, di fondamentale importanza in quest'ora dell'Europa e del mondo. Spero che trovi larga accoglienza e aiuti a dare al dibattito politico, al di là dei problemi urgenti, quella profondità senza la quale non possiamo superare la sfida del nostro momento storico.
Grato per la Sua opera Le auguro di cuore la benedizione di Dio. Suo
Benedetto XVI
Castel Gandolfo, 4 settembre 2008