La crisi finanziaria ha già avuto un grande impatto sulle nostre società: risparmi bruciati, persone che hanno perso la propria casa, posti di lavoro perduti. L’impatto rischia di essere ancora maggiore, con una più generale crisi della produzione e dei redditi.
L’insicurezza di questi momenti ci induce a interrogarci. Non solo sulle cause generali, ma anche sulle colpe specifiche: chi bisogna punire per evitare che la crisi si aggravi o si ripeta?
Interrogativi sacrosanti, perché bisogna respingere il fatalismo, la tentazione di arrendersi di fronte a fenomeni che sembrano troppo più grandi di noi. In questo fatalismo, c’è chi ci sguazza (continuando a imbrogliare e lucrare); e chi ci rimette (per ignoranza, superficialità, fate voi: ma sono i più deboli che ci rimettono).
La ricerca del colpevole, però, nasconde un’insidia: quella di trasformarsi nella ricerca del “capro espiatorio”. Una persona, una categoria, ovviamente lontane da noi. A essere “sacrificato” dev’essere il capro, e non comportamenti più o meno diffusi (magari anche nostri): compiuto il sacrificio, tutto magicamente si riaggiusterà.
Il capro espiatorio può essere anche l’assenza di regole. Stabiliamo nuove regole, dunque. Le colpe, dopotutto, non sono mai delle persone, ma del “sistema” (ce lo insegnava Rousseau, no?). L’uomo è naturalmente buono, ma rovinato da insidie esterne. Creategli condizioni perfette, le condizioni che gli risparmino la fatica di essere buono, di tenere comportamenti morali; e tra gli uomini regnerà l’armonia.
È la visione del mondo che rifiuta la morale, confondendola col moralismo. La visione che è alla base di ogni “rivoluzione”, di ogni pretesa di capovolgere le strutture sociali. I risultati di tali esperimenti, nel corso della storia, non sono stati entusiasmanti...
Le regole servono, certo. Servono anche nell’attuale crisi finanziaria, e alla necessità di stabilire nuove regole abbiamo dedicato un apposito articolo.
Ma domandiamoci: perché non sono state rispettate le regole esistenti? Chi ha omesso di vigilare sul loro rispetto?
E ancora: perché non sono state fissate per tempo nuove regole di cui si avvertiva l’urgenza? Chi ha avuto interesse a non fissarle? E chi ha chiuso gli occhi di fronte a tali omissioni (magari sperando di ricavarci un piccolo guadagno)?
Inoltre: affidare le proprie sicurezze solo alle regole non rischia di creare un alibi a chi non agisce con prudenza e diligenza (valori che non possono essere quantificati e regolati a priori)?
Bisogna allora osservare, più in generale, che questa crisi non è stata solo una crisi economico-finanziaria, ma anche una crisi morale.
Le banche non si prestano più soldi tra loro, e non li prestano alle aziende, per timore di non rientrare delle esposizioni. C’è una crisi di fiducia, elemento insostituibile nell’economia libera. Ma che cos’è, la fiducia, se non un valore morale?
Le banche d’investimento, abbiamo visto, hanno chiesto di essere dispensate da un rapporto predeterminato tra disponibilità finanziarie e rischi assunti. I politici, in molti casi, hanno ceduto alle loro richieste. Un’errata valutazione tecnica, o il cedimento alle lusinghe del denaro?
La cultura del debito non è stata solo una cultura che ha sopravvalutato le potenzialità dell’impiego anticipato di risorse, ma anche una cultura che si è illusa di slegare il guadagno dal sacrificio. Ed abbiamo visto come questa cultura sia stata diffusa a tutti i livelli: governi, istituti finanziarî, imprese, cittadini...
Molti operatori finanziarî hanno concesso prestiti che il beneficiario – viste le condizioni onerosissime – non avrebbe mai potuto rimborsare. A chi erogava il prestito, però, bastava garantirsi cospicui interessi, contando di rientrare del capitale pignorando i beni in garanzia. Come definiremmo questo atteggiamento? Cinismo?
Le banche e le società finanziarie si sono esposte ad alti rischi anche perché - probabilmente - hanno confidato in un eventuale salvataggio pubblico. Imprudenza o impudenza?
Altri operatorî hanno venduto prodotti finanziarî rischiosissimi (a privati, enti pubblici) camuffando il rischio mediante formule complicatissime, perché l’acquirente non se ne avvedesse. I dirigenti di società hanno spesso alterato i bilanci. Slealtà?
Grandi manager hanno portato avanti strategie volte a massimizzare i profitti di brevissimo termine, compromettendo la solidità delle aziende. Ingordigia? Mancanza di responsabilità? Illusione di poter recidere il legame con la realtà?
Anche i risparmiatori hanno a volte scelto con troppa fretta prospettive di guadagno allettanti, dimenticando di valutare la rischiosità dell’investimento (se erano risparmiatori) o l’onerosità del debito (se erano debitori). Superficialità? Incapacità di contenere il dominio dei desiderî?
Il settimanale statunitense Time (non il Messaggero di Sant'Antonio) ha titolato "The price of greed", cioè: la crisi finanziaria è "il prezzo della cupidigia".
E' stato proprio il teorico del capitalismo e del liberismo moderni, Adam Smith, nel suo celebre La ricchezza delle nazioni (e ancor di più nella Teoria dei sentimenti morali), a spiegare come il comportamento legato all'utilitarismo immediato non è necessariamente quello più razionale. Per la convivenza sociale servono prudenza, giustizia, generosità, spirito pubblico.
Più di recente, il premio nobel per l'economia Amartya Sen ha dimostrato - con il suo celebre "paradosso di Sen" - che l'efficienza paretiana non è raggiungibile con meccanismi di liberismo assoluto. Con il suo Etica ed economia ha spiegato che la scienza economica deve tener conto dei molteplici aspetti della natura umana: i comportamenti delle persone non sono dettati solo dall'interesse personale. Pertanto, non può esserci un unico criterio di giudizio economico, l'efficienza e la massimizzazione del benessere; vanno considerati anche l'espansione dei diritti e della libertà, il rispetto dei valori.
Insomma, servono le regole.
Ma serve soprattutto una rinnovata tensione etica, tanto nei rapporti economici quotidiani (pagare le tasse, esigere le ricevute, pretendere ed offrire trasparenza, non avere una mentalità eccessivamente utilitarista e materialista, agire con prudenza e responsabilità, ecc.), quanto nei rapporti politici (pretendere rigore non dall’avversario politico, ma dai proprî rappresentanti; difendere i valori che garantiscano stabilità sociale, responsabilità, educazione dei giovani; promuovere l'apertura alla vita, perché una società che invecchia è destinata al collasso).
Senza questa tensione, ogni sontuosa architettura regolatrice sarà in breve destinata a crollare come un castello di carte.