I due tickets rivali: i democratici Obama-Biden e i repubblicani McCain-Palin
Il democratico Barack Obama è il nuovo Presidente degli Stati Uniti d’America. È un bene per l’America e per il mondo? È il segno di un cambiamento epocale? Sono stati vinti i pregiudizi razziali? Chiariamo subito che il titolo del nostro articolo è volutamente provocatorio. Con esso, infatti, ipotizziamo che la sconfitta del ticket repubblicano, McCain – Palin, sia stata determinata anche da pregiudizi - di tipo diverso da quelli razziali - di cui questi due candidati potrebbero essere stati vittime.
Il veterano di guerra John McCain, sottoposto a cinque anni di prigionia e di torture in Vietnam, mostra evidenti i postumi di quelle sofferenze fisiche. Ciò potrebbe averlo penalizzato agli occhi degli elettori attenti a fattori come giovanilismo e salutismo (requisiti di cui disponeva Obama).
Sarah Palin è una donna. La sua candidatura a vicepresidente è stata bersaglio di molte critiche, alcune evidentemente sproporzionate e legate al suo sesso, quindi espressione di una malcelata misoginia: accuse di non poter essere al tempo stesso una buona vicepresidente e una buona mamma (ha cinque figli); pesanti ironie su una giovanile partecipazione a un concorso di bellezza; l'accusa di indossare vestiti eccessivamente costosi; filmini satirici a carattere pornografico impersonati da sosia; accuse di aver “strumentalmente esibito” l’ultimo figlio nato, Trig Paxson, affetto da sindrome di Down (che qualcuno aveva addirittura sostenuto essere il figlio segreto della secondogenita Bristol, fino a quando non si è saputo che questa era già incinta nel periodo in cui è nato il piccolo Trig Paxson).
Sappiamo che il voto ha spesso una forte componente emotiva, che conta l’immagine dei candidati; ed è dunque ragionevole pensare che in alcune, limitate fasce di elettorato possano aver avuto un ruolo i pregiudizi descritti. Ma ridurre il significato delle elezioni a queste considerazioni sarebbe un’assurda esaltazione dell’antipolitica, oltre che una mancanza di rispetto verso il candidato vincente e la volontà democratica degli elettori.
Abbiamo però voluto lanciare questa provocazione, per rimarcare come la stessa cautela non è stata dimostrata dai sostenitori (in patria) e simpatizzanti (all’estero) di Obama.
Una vulgata si era ormai pericolosamente diffusa: Obama doveva ineluttabilmente vincere, perché rappresentava il cambiamento, l’emancipazione delle minoranze. Se Obama avesse perso, la sconfitta non sarebbe stata addebitabile alla sua inesperienza, o alla vaghezza del suo programma, o alle idee considerate troppo liberal da una parte dell’elettorato. No. La sconfitta sarebbe stata addebitabile al razzismo degli Americani che non lo avevano votato.
Insomma: sul voto era stata iscritta (più o meno consapevolmente) una sorta di ipoteca morale. Un voto – quello per Obama - era moralmente (e non politicamente) superiore ad un altro. Con tanti saluti ai programmi.
Sicuramente una minoranza (speriamo molto esigua) di elettori americani avrà anche espresso un voto contrario ad Obama perché condizionata dal colore della sua pelle. I razzisti esistono. Però è una minoranza che non può condizionare il giudizio complessivo sulle elezioni, e non avrebbe potuto farlo neanche se avesse vinto McCain.
Anzi, a ben guardare, l’unico gruppo etnico che ha votato compatto guardando proprio al colore della pelle di Obama (sia pure attribuendogli una connotazione positiva) è stato il gruppo degli afroamericani...
Il modo migliore – e più coerente - per combattere il razzismo è quello di non ragionare in termini razziali (o di non sfruttarli ipocritamente per dar forza alle proprie posizioni), guardando piuttosto ai contenuti e alle qualità delle persone.
McCain aveva qualità umane e politiche importanti. È un repubblicano che ha sempre dimostrato indipendenza di giudizio dal suo partito. È restato schiacciato, a torto o a ragione, dalla responsabilità attribuita all’amministrazione Bush per la crisi finanziaria.
Anche Barack Obama sembra avere qualità umane e politiche importanti. A noi piace ricordare, ad esempio, che è l’esponente politico democratico che più di tutti, negli ultimi anni, ha segnalato l’esigenza di riconoscere alla religione un ruolo pubblico nelle democrazie. Speriamo che se ne ricordi quando dovrà affrontare i temi bioetici (e non faccia come Clinton, che all’atto dell’insediamento approvò per prima cosa un pacchetto di leggi che facilitavano l’aborto).
Forse anche il colore della sua pelle, però, può avere una valenza positiva. Può attenuare il vittimismo che affligge da tempo i neri d’America.
Intendiamoci: è comprensibilissima (e deve suscitare ogni solidarietà) la sofferenza per le ingiustizie subìte in passato, e in parte ancora oggi. In quella comunità, però, si è radicata un'attenzione esasperata a queste ingiustizie, che ha impedito in molti casi di cogliere le opportunità offerte dalla società americana, come invece hanno saputo fare le altre minoranze (immigrati europei, asiatici, ispanici). Una parte consistente della comunità afroamericana (ma anche di altre minoranze sociali) si è aggrappata ad una certa “cultura del piagnisteo”, del politicamente corretto, focalizzandosi sull'esclusione dalle posizioni di potere.
Ebbene, dopo gli ultimi due Segretarî di Stato (Powell e Rice), dopo un giudice della Corte Suprema (Thomas), oggi è un uomo di colore - espressione anche di una minoranza, quella afroamericana, peraltro molto esigua - il Presidente, l’uomo più potente del mondo.
Questo evento dovrebbe restituire fiducia, ma anche dare responsabilità, tanto alla comunità nera nel suo complesso, quanto ad ognuno dei suoi membri (sempre che poi Obama, caricato di aspettative salvifiche impossibili da soddisfare, non venga bollato come... "bianco mascherato da nero").
Gli Stati Uniti dimostrano ancora una volta, nonostante le loro infinite contraddizioni, di essere un Paese democratico. Il Paese delle opportunità per tutti.