Molte volte, di fronte ad un problema, sentiamo qualcuno invocare l'intervento dello Stato. I "servizi pubblici" sono visti da molti come la panacea di tutti i mali: salute, lavoro, trasporti, ecc. Lo Stato-papà, insomma, che risolve tutti i nostri problemi.
In realtà, questa è l'idea del socialismo, che si è dimostrata fallimentare.
A ben vedere, non avrebbe dovuto essere necessario attendere il responso della storia per evitare i disastri delle esperienze social-comuniste, così come delle esperienze social-democratiche vissute anche in Occidente.
Un'attenta riflessione dovrebbe acquisire il dato di fatto che lo Stato non è in grado di programmare i bisogni di tutti: la domanda e l'offerta che si formano liberamente sul mercato forniscono una miriade di informazioni (su tipo e quantità di beni da produrre, sui prezzi ottimali, ecc.) che nessuna programmazione è in grado di elaborare.
Lo Stato, inoltre, è meno efficiente nella produzione dei beni e dei servizi (lo constatiamo facilmente tutti i giorni): il senso di responsabilità e l'impegno stimolati dal desiderio di accrescere la propria impresa non sono surrogabili da nessun senso di responsabilità puramente morale (che pure è necessario, ovviamente).
Lo Stato, poi, se produce assistenzialismo, scoraggia l'impegno delle persone e la produzione di ricchezza.
Lo Stato, infine, anche quando riesce ad essere abbastanza efficiente, si sostituisce con le sue scelte alle libere determinazioni dei cittadini. Quei soldi che lo Stato mi preleva (con le tasse) per erogarmi un servizio, io avrei potuto volerli impiegare per un servizio diverso; oppure, con gli stessi soldi, avrei acquistato sul mercato quello stesso servizio a minor prezzo.
Senza contare che lo Stato è controllato dalla politica, e quindi una forte presenza pubblica in economia consente ai partiti al potere di avere risorse per alimentare clientele e inquinare la democrazia.
Questo significa che l'intervento dello Stato è sempre inutile? Che i servizi pubblici non esistono?
Ovviamente no. Il principio di sussidiarietà, desumibile anche dalle realtà che abbiamo esaminato, affida alle comunità superiori, e allo Stato in particolare, un ambito di intervento limitato alla misura strettamente necessaria a realizzare quei compiti che gli individui o le comunità inferiori non sono in grado di assolvere. Questi compiti sono individuabili anche in base ai beni oggetto degli interventi.
“Beni pubblici” sono quelli che producono le cosiddette esternalità positive: cioè ricadute benefiche esterne al sistema che le produce, non misurabili con meccanismi di prezzo, poiché non è individuabile l’uso che ne fanno le singole persone (esempi tipici sono le strade, la difesa nazionale, la protezione civile, la pubblica sicurezza, le funzioni sociali rese dalle famiglie, ecc.). Il mercato, perciò, non può remunerare le esternalità, e non riesce ad incentivarne la produzione. Spetta alla società nel suo complesso, allo Stato (con il ricorso alla fiscalità generale, con incentivi appositi, ecc.) garantire la produzione di esternalità positive (e disincentivare la produzione di esternalità negative: inquinamento, tassi di risparmio troppo bassi, disgregazione del tessuto familiare, ecc.).
Un caso particolare è costituito dai monopolî naturali, dovuti alla scarsezza delle risorse da utilizzare (ad esempio, le linee ferroviarie, telefoniche o energetiche, le risorse idriche). In questi casi, è misurabile l'uso che del bene fanno i singoli, ma non è possibile la concorrenza, condizione necessaria per il libero mercato.
I monopolî naturali possono essere gestiti anche dai privati, e a volte questa via può essere preferibile: per coinvolgere capitali privati in investimenti a lungo termine; per garantire efficienza di gestione, nonché entrate capaci di remunerare i costi e non sottostimate per paura di impopolarità (a meno che non si tratti di "beni tutorî" per i quali, come stiamo per vedere, si ritenga di dover calmierare i prezzi); per evitare che enti di gestione pubblici siano utilizzati come centri di potere clientelare finanziati con i soldi dei cittadini.
Nel caso di gestione dei privati, però, il prezzo con cui vengono remunerate le risorse impiegate, i requisiti minimi di qualità, i livelli di servizio essenziali devono essere fissati dallo Stato (anche attraverso Autorità indipendenti). Inoltre, la concorrenza va introdotta nelle forme possibili: se la manutenzione di una rete (ferroviaria, ecc.) può essere affidata solo al monopolista, la stessa rete può essere affittata a gestori diversi che offrono il servizio al consumatore.
Esistono anche i “beni tutorî”, cioè quelli che producono sì servizî misurabili con meccanismi di prezzo, ma di cui lo Stato ritiene opportuno incentivare il consumo rendendoli più accessibili: scuola e formazione professionale, sanità, trasporto pubblico cittadino, edilizia residenziale agevolata o popolare (in casi particolari), credito agli investimenti, prestazioni di solidarietà. Sono beni la cui individuazione deve essere rigorosissima, perché l’intervento pubblico ha sempre la ricaduta negativa di diminuire la qualità e l’efficienza, oltre che di limitare la libertà di scelta nell’impiego delle proprie risorse del cittadino-consumatore-contribuente.
A proposito dei beni tutorî, trattandosi di beni che esprimono un interesse pubblico, ma non sono pubblici in senso stretto, non devono essere necessariamente gestiti dallo Stato. Anzi. Il sostegno pubblico meglio si esprime con un sostegno economico o fiscale ai cittadini che li devono utilizzare (la cosiddetta politica dei "buoni": buono-casa, buono-scuola, buono salute, ecc.), conservando una gestione privata (sempre sottoposta a requisiti e controlli) che, in regime di concorrenza, meglio garantisce efficienza e pluralismo.
Esistono, infine, tutti quei beni che, seppur fondamentali, restano privati: cibo, vestiario, casa, automobile, istruzione superiore, energia... Sono beni privati, venduti sul libero mercato, perché il mercato garantisce le migliori condizioni di produzione e distribuzione, quindi abbondanza, qualità, costi contenuti. Purché il mercato sia davvero concorrenziale e vengano effettuati gli opportuni controlli: quello delle regole e dei controlli è un ulteriore necessario campo d'intervento pubblico.
Il che non significa, ovviamente, che l'economia libera sia la fonte del Bengodi. L'economia è detta anche "scienza triste", perché deve individuare la migliore allocazione di risorse scarse. Ma, proprio per questo, non complichiamoci la vita con illusorî (e infine devastanti) ricorsi alla mano pubblica.