Dieci anni fa, il 9 settembre 1998, è scomparso Lucio Battisti.
Tracciare la biografia artistica di un cantante come Lucio Battisti è operazione difficile, al limite del pretenzioso, perché parliamo di quello che probabilmente è il più grande cantautore italiano: ha scritto decine (centinaia) di canzoni, e quasi ogni brano è divenuto un successo indimenticabile. Se la quasi totalità dei cantanti è ricordata per uno o due brani, per Battisti non solo è impossibile associarlo a una canzone, ma è arduo anche semplicemente scegliere le migliori. Inizi a citare I giardini di marzo, e subito ti viene in mente Emozioni. Ricordi Non è Francesca, e subito si accavalla Dieci ragazze. Inizi a canticchiarne una e non finisci più...
Ad ogni buon conto, se non si ha la pretesa di esaurire la vicenda artistica e umana di Battisti, ricordarlo è impresa affascinante, perché sai di scrivere di un uomo e un artista vero, e non di un prodotto dello star system, di una maschera che ha bisogno di eccessi o provocazioni per farsi notare (leggi Madonna).
Nel ricordare Lucio Battisti, però, è inevitabile associarlo al “paroliere” del suo periodo d’oro, Mogol (nome d’arte di Giulio Rapetti), perché è questo sodalizio che ci ha regalato le canzoni più belle. Se è vero che la vena melodica di Battisti è stata eccezionale, è anche vero che la vena poetica di Mogol ha dato a quelle melodie una profondità unica, le ha impresse nella memoria di tutti.
I due artisti, nel periodo di collaborazione (1965-1980), erano anche amici inseparabili, e i loro momenti creativi si influenzavano reciprocamente. Per cui possiamo dire che i testi scritti da Mogol sono anche di Battisti, ne esprimono la sensibilità artistica; e, viceversa, le musiche composte da Battisti risentono dell’influsso di Mogol. La controprova l’abbiamo guardando alla produzione artistica di Battisti successiva alla separazione da Mogol: cambiano profondamente i testi (segno anche di un cambiamento interiore del cantautore), cambiano parallelamente pure le musiche.
Per comprendere la grandezza di Lucio Battisti occorre considerare l’ambiente e l’atmosfera degli anni in cui si formò e giunse al successo. Era il periodo del “Sessantotto”, gli anni in cui regnava lo slogan “il privato è politico”, e se non eri “impegnato” - naturalmente l’impegno era solo politico e di sinistra - eri messo al bando.
Battisti parlava di amore, di sentimenti privati, con una verità e una profondità mai raggiunta prima da alcuno. Il suo successo era al tempo stesso strepitoso e... semiclandestino: quasi tutti compravano e ascoltavano Battisti, ma... di nascosto!
Con gli occhi di oggi, forse, non si ha l’esatta percezione di cosa significasse - anche per gli autori - essere controcorrente negli anni Sessanta e Settanta. Essere bollato come cantante non impegnato, o addirittura “fascista”, significava essere emarginati e scomparire dalla scena.
Non a caso, questo coraggio lo ebbero veramente in pochi: Adriano Celentano (Siamo la coppia più bella del mondo contro il divorzio, Chi non lavora non fa l’amore contro gli scioperi selvaggi), Renato Zero (Sogni nel buio contro l’aborto, La tua idea contro la droga, Sesso o esse contro il sesso facile), Rino Gaetano (Mio fratello è figlio unico contro i luoghi comuni, Nuntereggae più contro ipocriti e arroganti).
Il resto era un coro di menestrelli che si prendevano molto sul serio, e che fa cantare a Battisti:
“Sogno di abbracciare … gente giusta
che rifiuti d'esser preda di facili entusiasmi e ideologie alla moda”
(Una giornata uggiosa)
Del resto, di essere applaudito o accettato in un certo mondo a lui non interessava. Non era nato né a Roma né a Milano, e quel mondo radical chic, che difende l’uguaglianza solo a parole, non gli appartiene:
“Ah fatemi entrare
voglio giocare voglio ballare insieme a voi
No sei troppo ignorante
odori di gente
che non conta niente e paura ci fai
… Perché non mi volete forse con un altro mi scambiate
non feci mai del male
mio padre è guardia comunale
mia madre lavora all'ospedale
per questo tu non sei a noi uguale”
(Gente per bene e gente per male)
Battisti era nato a Poggio Bustone (provincia di Rieti). Le sue origini gli regalano la simpatica sfrontatezza tipicamente laziale con cui affrontava le critiche. Il mondo in cui era cresciuto era quello che sente più autentico, e che ama cantare:
“Che ne sai di un bambino che rubava
e soltanto nel buio giocava
e del sole che trafigge i solai, che ne sai
e di un mondo tutto chiuso in una via
e di un cinema di periferia
che ne sai della nostra ferrovia, che ne sai”.
(Pensieri e parole)
Ma cantare i sentimenti significa essere “disimpegnati”?
Battisti non canta l’amore romantico, retorico, utopico. Canta l’amore che investe e dà senso alla vita di ognuno. Partendo da questa centralità, sa cogliere aspetti di costume, con una profondità molto maggiore delle analisi pseudosociologiche in voga in quegli anni:
“Non ti voglio più vedere cara
mentre sorseggi un'aranciata amara
con l'espressione estasiata
di chi ha raggiunto finalmente un traguardo nella vita
Io non ti voglio più vedere sul muro davanti ad un bucato
dove qualcuno c'ha disegnato pornografia a buon mercato
(...) e mentre indossi un super super super reggiseno
per casalinga tutta veleno.
(...) Ti fanno alimentare l'ignoranza
fingendo di servirsi della scienza! Oh no!
(...) Eppure non sei meno bella in casa senza cerone
non dico che sei una rosa sarei un trombone
ma ti vorrei vedere qualche volta in bikini
senza sfondi di isole lontane e restare un po' vicini
Io ti vorrei vedere mentre cogli l'insalata dell'orto
che vorrei aver coltivato prima di essere morto
Oh no! Anche se guadagni centomila lire al giorno
non ti puoi scordare che la vita è andata e ritorno.
(Ma è un canto brasileiro)
Battisti poeta dell’emozioni e dell’amore sa distinguere tra donne e veline, amore e pornografia, verità della vita e falsità imbellettate.
Per questo non eleva a protagonista il ragazzo ribelle; ma quello comune, con le sue debolezze:
“All'uscita di scuola i ragazzi vendevano i libri
io restavo a guardarli cercando il coraggio per imitarli
poi sconfitto tornavo a giocar con la mente i suoi tarli
e alla sera al telefono tu mi chiedevi perché non parli”
(I giardini di marzo)
In una società in cui anche l’amore diviene un sentimento banale, un bene di consumo, Battisti canta un sentimento tanto grande che può far tremare:
“la paura d'esser preso per mano”
(Pensieri e parole)
Un sentimento che non può lasciare indifferenti:
“Ho visto un uomo che moriva per amore,
ne ho visto un altro che più lacrime non ha
nessun coltello mai ti può ferir di più
di un grande amore che ti stringe il cuor”
(Dieci ragazze)
Un sentimento che tocca le corde più profonde del nostro essere:
“Che anno è che giorno è
questo è il tempo di vivere con te
le mie mani come vedi non tremano più
e ho nell'anima
in fondo all'anima cieli immensi
e immenso amore
e poi ancora ancora amore amor per te
fiumi azzurri e colline e praterie
dove corrono dolcissime le mie malinconie
l'universo trova spazio dentro me
ma il coraggio di vivere quello ancora non c'è”
(I giardini di marzo).
L’amore, quindi, non è appagamento dei sensi, passione adolescenziale, ma bisogno esistenziale. Nella ricerca dell’amore c’è la consapevolezza che l’uomo non è autosufficiente, ma è alla ricerca di un “tu” che lo completi.
O la vita diviene dono o non ha sapore:
“Ma che colore ha una giornata uggiosa
ma che sapore ha una vita mal spesa”
(Una giornata uggiosa)
L’amore diviene la cifra dell’uomo nella misura in cui esprime la sua capacità di donarsi. Battisti (e con lui, ricordiamolo, Mogol) vede nella donna il simbolo di questo amore, dedicandole una delle sue poesie più belle:
“Per te che è ancora notte e già prepari il tuo caffé
che ti vesti senza più guardar lo specchio dietro te
che poi entri in chiesa e preghi piano
e intanto pensi al mondo ormai per te così lontano.
Per te che di mattina torni a casa tua perché
per strada più nessuno ha freddo e cerca più di te
per te che metti i soldi accanto a lui che dorme
e aggiungi ancora un po' d'amore a chi non sa che farne.
Anche per te vorrei morire ed io morir non so
anche per te darei qualcosa che non ho
e così, e così, e così
io resto qui
a darle i miei pensieri,
a darle quel che ieri
avrei affidato al vento cercando di raggiungere chi...
al vento avrebbe detto sì.
Per te che di mattina svegli il tuo bambino e poi
lo vesti e lo accompagni a scuola e al tuo lavoro vai
per te che un errore ti è costato tanto
che tremi nel guardare un uomo e vivi di rimpianto.
Anche per te vorrei morire ed io morir non so
anche per te darei qualcosa che non ho
e così, e così, e così
io resto qui
a darle i miei pensieri,
a darle quel che ieri
avrei affidato al vento cercando di raggiungere chi...
al vento avrebbe detto sì”.
(Anche per te)
La donna è anche simbolo della libertà. Una libertà intesa non come mero anticonformismo, fuoriuscita da alcuni schemi vecchi per rinchiudersi in schemi nuovi; piuttosto, è libertà di ricercare l’assoluto, la verità:
“In un mondo che non ci vuole più
il mio canto libero sei tu
E l'immensità si apre intorno a noi
al di là del limite degli occhi tuoi
(...) In un mondo che prigioniero è
respiriamo liberi io e te
E la verità si offre nuda a noi
e limpida è l'immagine ormai”
(Il mio canto libero)
La donna dell’universo poetico di Battisti-Mogol è dunque simbolo di un Amore più grande di quello che ogni singola donna, forse, può offrire. Il bisogno di un “tu” è anche ricerca di un “Tu”:
Il fiume va
guardo più in là
un'automobile corre
e lascia dietro sé
del fumo grigio e me
e questo verde mondo
indifferente perché
da troppo tempo ormai
apre le braccia a nessuno
come me che ho bisogno
di qualche cosa di più
che non puoi darmi tu
un'auto che va
basta già a farmi chiedere se io vivo
(L’aquila)
In questa ricerca esistenziale si rivela anche una ricerca religiosa che Battisti ha voluto sempre tenere intima:
Conosci me il nome mio
tu sola sai se è vero o no che credo in Dio.
(Pensieri e parole)
Nel 1980 si rompe la collaborazione tra Battisti e Mogol.
La rottura di quel sodalizio pare sia dovuta, in parte, al raffreddarsi dell’amicizia, a causa di beghe personali (i diritti d’autore?). Ma è una rottura che esprime soprattutto il tormento della ricerca di Battisti. Non vuole diventare quello che aveva sempre rifiutato di essere: un’immagine, un prodotto, la controfigura di se stesso. Sente il bisogno di rinnovarsi radicalmente, con nuove soluzioni musicali (riduzione delle variazioni armoniche, utilizzo sempre più spinto dell’elettronica) e poetiche (i testi ermetici del nuovo paroliere, Pasquale Panella).
A nostro avviso, l’espressione artistica dell’ultimo Battisti costituisce un’involuzione. Lucio non ha trovato il Tu che cercava, l’assoluto, la verità; l’immagine di cui aveva intuito l’esistenza non è divenuta “limpida” come sperava. Forse, perché non ha saputo trovare una guida alla sua ricerca. L’artista – e l’uomo – completa, con questo nuovo linguaggio musicale, quella chiusura in se stesso già iniziata qualche anno prima col ritiro dalle scene, col rifiuto di ogni contatto col suo pubblico.
Ad ogni modo, nelle canzoni del suo “periodo d’oro” Battisti ha descritto i bisogni più veri dell’animo umano con una profondità, una semplicità e un’armonia (delle parole e delle melodie) ineguagliate. Il che rende quelle canzoni specchio delle nostre emozioni, compagne immancabili della nostra vita.