Totò, impiegato ‘mezzemaniche’ nel film “Chi si ferma è perduto”
In Italia la Pubblica Amministrazione (centrale e locale, enti pubblici) non funziona come dovrebbe. Ce ne accorgiamo quando ci rivolgiamo a qualche ufficio pubblico in veste di utenti: ritardi, informazioni inesatte, procedure inutilmente complicate o – addirittura - vessatorie (in casi estremi utilizzate intenzionalmente per suggerire come via d’uscita la corruzione...). Ciò significa perdita di tempo e di denaro, magari per pagare consulenti in grado di aiutarci ad evadere le pratiche burocratiche. Ne risentono sia i comuni cittadini sia le imprese, con danni che si ripercuotono sul sistema-Paese.
Ma quali sono le vere cause di questa inefficienza, che devono essere rimosse per poter intervenire in maniera risolutiva?
Tutta colpa dei “fannulloni”?
A noi sembra che sia diffusa una serie di luoghi comuni, espressione di una facile demagogia che vuole distogliere l’attenzione dai veri problemi. I luoghi comuni di cui parliamo sono quelli che individuano le cause dell’inefficienza solo nei dipendenti “fannulloni”, che lavorano poco (sempre in “pausa cappuccino”) e male, sono pagati profumatamente, sono assenteisti (magari per svolgere un secondo lavoro in nero), non rispondono dei loro errori (e spesso neanche dei reati), sono titolari inamovibili del “posto fisso”.
Individuata facilmente la causa del problema, viene suggerita anche la facile soluzione: mettiamoli sotto torchio, con controlli severi; diamo una bella sforbiciata agli stipendi, percepiti immeritatamente, così si risparmiano pure soldi pubblici; e licenziamone un bel po’, ché tanto sono troppi e inutili.
L’amico lettore potrebbe a questo punto reagire: “ma quale luogo comune, li vediamo tutti i giorni con i nostri occhi certi incompetenti al lavoro (se non sono al bar), che ci creano problemi anziché risolverli!”.
Attenzione: non abbiamo detto che è un luogo comune l’esistenza dei “fannulloni”; i cattivi dipendenti pubblici esistono in gran numero, purtroppo. Abbiamo detto, piuttosto, che è un luogo comune individuare nell’esistenza dei “fannulloni” la causa primaria dell’inefficienza della Pubblica Amministrazione.
Guardiamo le cose con occhio più attento
Siamo sicuri che la realtà del pubblico impiego sia tutta, irrimediabilmente negativa?
Nella nostra vita abbiamo incontrato sempre soltanto cattivi esempî di impiegato, funzionario, infermiere, medico, vigile del fuoco, carabiniere, poliziotto, giudice, insegnante, ecc.?
L’efficienza (o l’inefficienza) delle strutture che erogano servizi pubblici è uguale in tutta Italia, dall’Alto Adige alla Basilicata?
E siamo altrettanto sicuri che le cose funzionino meglio quando si ha a che fare con i privati? Quando abbiamo bisogno di ristrutturare un appartamento, possiamo dire con certezza che i tempi di consegna saranno rispettati, e senza incrementi dei costi? Quando ci rivolgiamo ad un professionista (commercialista, ingegnere, avvocato, ecc.) siamo sicuri che la sua prestazione sarà ineccepibile? Quando telefoniamo al call center di una grande azienda, siamo sicuri di trovare un interlocutore preparato, che sappia risolvere il nostro problema?
La verità è un’altra: esistono lavoratori – sia nel pubblico sia nel privato: non c’è una differenza ‘genetica’ tra le due categorie di Italiani... – che operano con superficialità e scarso impegno, poco preparati e senza voglia di migliorarsi. Si è diffusa purtroppo, nel nostro Paese, una cultura che non motiva i lavoratori ad ottenere sempre il meglio, a ricercare la qualità, ad aggiornarsi con frequenza, ad offrire – insomma - una professionalità elevata.
D’altro canto, continuano ad esistere numerosi altri lavoratori che operano con coscienza, che non amano “rubare” lo stipendio, e sono chiamati a fare i salti mortali per supplire alle carenze dei colleghi che “marcano visita”.
Ma vediamo più in dettaglio quanto siano fondati i luoghi comuni attribuiti ai dipendenti pubblici. Aggiungendo sin da ora (ne parleremo meglio più avanti) che l’analisi delle inefficienze non può limitarsi ai dipendenti, ma deve estendersi alla pubblica amministrazione nel suo complesso, ai suoi meccanismi organizzativi, alle linee di indirizzo che riceve.
I privilegi (veri e presunti) dei pubblici dipendenti
Guadagnano molto – Quest’affermazione non è assolutamente corretta, se riferita all’insieme del pubblico impiego e confrontata con i guadagni degli altri Paesi europei. Una ricerca dell’Eurispes presentata nel settembre 2007 (La Pubblica Amministrazione in Italia) attesta che i lavoratori pubblici pagati meglio sono i francesi, che in un anno hanno un reddito netto medio di 35.665,9 euro; in Spagna il guadagno è di 27.622,4; in Germania di 27.110,8 euro; nel Regno Unito di 26.492,2 euro.
In Italia, invece, i lavoratori pubblici percepiscono un reddito netto medio annuo pro capite di 23.476,9 euro. Il lavoratore pubblico medio, quindi, percepisce oltre 12.000 euro in meno che in Francia, oltre 4.100 euro in meno che in Spagna, oltre 3.600 euro in meno che in Germania e circa 3.000 euro in meno che nel Regno Unito (in termini percentuali, il reddito italiano è l’88% di quello britannico, l’87% di quello tedesco, l’85% di quello spagnolo ed il 66% di quello francese.).
Stiamo parlando, si badi bene, di redditi “medi”, cioè riferiti a tutti i comparti (in Italia si va dagli oltre 100.000 euro netti dei magistrati ai circa 15.000 euro degli addetti delle amministrazioni centrali) e a tutte le qualifiche (dal dirigente al semplice “usciere”).
Negli anni, peraltro, è diminuito il potere d’acquisto del personale non dirigenziale (come di tutti i lavoratori dipendenti: ne parliamo in un altro articolo); ed è anche diminuita l’incidenza della spesa per gli stipendi sul totale della spesa per la Pubblica Amministrazione: se nel 1980 su 100 euro di spesa 76 erano destinati al reddito lordo dei lavoratore, nel 2005 il reddito lordo degli addetti è sceso a 71 euro per ogni 100 totali spesi.
Qualcuno potrebbe esclamare: “i guadagni non saranno alti, ma tenendo conto di quanto lavorano sono pure eccessivi!”. Non siamo d’accordo. Il baratto “lavori poco e male, ti pago poco”, non è ammissibile. Perché presuppone che tutti lavorino poco; e – come stiamo per vedere - non è vero. Se tale baratto fosse considerato ammissibile, sarebbero legittimati (anche moralmente) a lavorare poco pure quelli che attualmente si impegnano con dedizione e sacrificio... e allora sì che sarebbe il caos.
Il problema, piuttosto, è di accrescere la produttività del lavoro. E di eliminare una serie di disparità nel trattamento economico dei diversi comparti (ne esistono alcuni che sì, guadagnano ingiustificatamente troppo), non legate alla produttività ma al potere politico-contrattuale.
Hanno il “posto fisso” – Il dipendente pubblico, secondo la Costituzione, è assunto per pubblico concorso, al termine di una procedura complessa che deve fornire adeguate garanzie (ai partecipanti e alla collettività) sul merito dei vincitori.
Esiste il problema di alcuni concorsi “truccati”: malcostume che va assolutamente sradicato, ma che non incide sul fatto che la prescrizione costituzionale è ‘sacrosanta’.
Esiste poi il problema che la via d’accesso mediante concorso viene a volte aggirata, con la chiamata diretta – o mediante agenzie - di persone che vengono assunte a tempo determinato. Se una volta erano un’eccezione (per lo più i supplenti nelle scuole), oggi (dati del 2006) sono arrivate a toccare il numero di 600.000, a fronte di 3.632.000 pubblici dipendenti “stabili”!
Le persone inserite per vie ‘traverse’ lamentano poi di essere “precarî” e chiedono l’assunzione a tempo indeterminato. Questo modo di ingresso nella Pubblica Amministrazione (molto più agevole per i raccomandati che truccare un concorso) andrebbe assolutamente evitato: il settore pubblico non può essere la valvola di sfogo per i disoccupati a prescindere dalle loro capacità; hanno bisogno di lavorare anche quelli bravi! Altrimenti non lamentiamoci dell’incompetenza... L’assunzione a tempo determinato, e l’eventuale successiva stabilizzazione, potrebbe eccezionalmente essere ammessa solo per gli idonei di graduatorie concorsuali.
Venendo alla “licenziabilità”: la situazione attuale si presta ad abusi che vanno corretti, visto che è inamovibile anche il dipendente gravemente inefficiente. Ma ciò non significa che si possa parlare con leggerezza di licenziamento. Nel privato, infatti, il datore di lavoro - il “capo” - non ha quasi mai interesse a privarsi di un collaboratore valido, perché ciò danneggia direttamente la sua azienda (e i suoi interessi); eppure deve dimostrare la “giusta causa” del licenziamento. Nel settore pubblico, invece, soprattutto nel sistema attuale, il dirigente spesso non ha interesse al buon funzionamento della struttura, ma piuttosto ad accontentare i politici che gli hanno dato l’incarico e gli chiedono favori; per cui potrebbe voler punire un collaboratore che non si è prestato a giochi loschi. Quindi, come deve essere rispettato il principio dell’immissione in servizio mediante pubblico concorso, con le garanzie connesse, è altrettanto evidente che l’esclusione (licenziamento) deve essere circondata da simili garanzie, e non può essere decisa arbitrariamente, ad nutum, da un dirigente.
Sono troppi – Forse sì. Il confronto con i maggiori Paesi europei ci pone in posizione medio-alta: in Germania ci sono circa 39 operatori del pubblico impiego su mille residenti, in Spagna 49 su mille, in Francia 50 su mille, in Italia 62 su mille, nel Regno Unito 70 su mille. Questi dati (e l’elevato carico fiscale), compensati dai bassi stipendi netti che abbiamo evidenziato in precedenza, portano in posizione mediana il costo complessivo della retribuzione del personale pubblico in rapporto al PIL: Francia (12,8%), Austria (12,7%), Italia (12,5%), Spagna (12,3%), Regno Unito (11,7%), Germania (10,1%).
Il problema, però, è che gli addetti sono mal distribuiti: sia a livello territoriale (si va dai 46 su mille della Lombardia ai 101 su mille della Val d’Aosta), sia – soprattutto – a livello di enti. Negli ultimi dieci anni si è verificato un aumento degli organici dovuto soprattutto alle nuove assunzioni negli enti locali (in nome di un finto federalismo): sono stati assegnati a questi enti nuovi poteri - e nuove capacità di spesa - senza contemporaneamente alleggerire le competenze delle amministrazioni centrali; e, soprattutto, senza attribuire agli enti locali la responsabilità di far quadrare i bilanci.
Servirebbe una vera mobilità, ed un blocco delle assunzioni non generale, ma selettivo.
Lavorano poco – A dire il vero, alcune categorie del pubblico impiego (forze dell’ordine, infermieri) fanno orarî massacranti, sono obbligati a straordinarî che vengono pagati con mesi di ritardo. Ed anche nella categoria che ha la fama peggiore dal punto di vista dell’applicazione lavorativa, quella dei cosiddetti “impiegati di concetto”, la situazione è molto variabile: esistono realtà dove c’è un’eccedenza di personale, o minori controlli; ed altre dove c’è carenza di personale, e gli addetti sono sottoposti a ritmi anche più intensi che nel privato.
In alcuni settori (scuola) gli orarî sono più ridotti. Ma, senza soffermarsi sull’incremento di attività integrative assegnate agli insegnanti negli ultimi anni, bisogna distinguere chi lavora meno del suo orario di competenza (rubando così parte dello stipendio) da chi rispetta un orario commisurato ai compensi ricevuti.
Non hanno responsabilità – È vero il contrario. Il lavoro del dipendente pubblico è spesso più carico di responsabilità di quello del dipendente privato. Nel settore pubblico, infatti, il datore di lavoro non si identifica col dirigente che dà le direttive: il datore di lavoro non è solo – direttamente - l’ente presso cui si presta servizio, ma anche - indirettamente - la collettività. Alla collettività (e non ai dirigenti di turno) appartengono i soldi che - direttamente o indirettamente – vengono gestiti.
Il lavoratore pubblico, pertanto, deve perseguire l’interesse generale; è tenuto a rispettare una quantità di disposizioni normative molto superiore a quanto è previsto per il settore privato; e può trovarsi in disaccordo col suo diretto superiore, qualora questi spinga per l’adozione di condotte o provvedimenti che rispondono a interessi particolari.
Rispetto a questo tiro incrociato di responsabilità e di pressioni che investono il dipendente pubblico, bisogna fare attenzione a distinguere i profili del dolo e della colpa grave (su cui, effettivamente, ci vorrebbero più vigilanza e sanzioni severe ed efficaci) da quelli della colpa lieve.
Fanno un lavoro “facile” – Si tratta di un’accusa rivolta ancora, prevalentemente, agli “impiegati di concetto”. È però un’accusa superficiale, che vede l’esercizio di funzioni pubbliche come un banale “scrivere lettere” o “mettere timbri”. Il dipendente pubblico, invece, e in particolare il funzionario, essendo chiamato a rispondere dei suoi comportamenti alla collettività (non solo al suo dirigente), deve avere una conoscenza approfondita di materie complesse, deve districarsi in una selva legislativa spesso intricata. E deve farlo quasi sempre aggiornandosi autonomamente, senza nessuna formazione (“non ci sono i soldi”: la spesa per la formazione è scesa allo 0,7% del monte retribuzioni, anche qui ai livelli minimi europei).
”È pagato per questo!”. Certamente: non sono accettabili gli alibi che utilizzano alcuni impiegati pubblici (“mi pagano così poco”) per giustificare la loro negligenza. E si capisce pure perché sia importante una severa selezione nell’accesso a questo lavoro. In ogni caso, però, non si tratta di un lavoro facile (anche quando è svolto con faciloneria).
Le inefficienze attribuibili direttamente ai dipendenti (e quelle che non lo sono...)
Il lettore, a questo punto, potrà rilevare: “sì, non tutti i lavoratori sono fannulloni; ma l’efficienza non può essere affidata alla buona volontà dei singoli. Inoltre, il privato inefficiente paga in prima persona: se non mi piace, lo cambio; il servizio pubblico inefficiente, invece, ce lo dobbiamo tenere sul groppone”. Osservazione giustissima.
Però, evidenziare - come abbiamo fatto - che le responsabilità attribuibili direttamente ai singoli lavoratori sono spesso enfatizzate o ingiustamente generalizzate non significa affermare che non esistono; significa evidenziare che le ricette devono essere attente e mirate.
Non possono riassumersi nella semplicistica ricetta “licenziamo i fannulloni”; né nel capovolgimento dei privilegi (da eliminare) in ingiuste discriminazioni rispetto al dipendente privato (come gli orarî di reperibilità in caso di malattia più lunghi...).
Quali sono queste ricette?
In primo luogo, certamente, punire severamente (fino al licenziamento) chi si renda responsabile di truffe o gravi inadempienze.
C’è qualcosa da fare in termini di regole (legislative, regolamentari, contrattuali), soprattutto per rendere più celeri le procedure sanzionatorie.
Ma c’è da fare soprattutto in termini di controlli. E qui sorge un primo problema, che attiene a responsabilità diverse da quelle del dipendente: chi deve fare i controlli? Solo la guardia di finanza? O anche gli organi interni all’amministrazione? Perché i controlli interni non funzionano? Perché i “fannulloni” non sono denunciati da chi ben conosce la loro condotta?
In secondo luogo, bisogna rimarcare che il problema non è solo quello di assicurare la presenza effettiva del dipendente sul posto di lavoro, ma anche – soprattutto – di responsabilizzarlo, aumentandone l’efficienza e la produttività. Bisogna inserire meccanismi di incentivazione-disincentivazione legati all’effettiva produttività individuale (o per gruppi di lavoro), e non erogati “a pioggia”.
Anche qui c’è qualcosa da fare in termini di regole. Non tanto per stabilire il principio dei premî individuali (che già esiste nei contratti), quanto per determinare indicatori di produttività precisi, che consentano la misurazione del merito. E per ‘disboscare’ la selva di clausole contrattuali eccezionali, di vecchi privilegi, di benefici particolari per quel comparto o quell’agenzia assolutamente ingiustificati.
Sorge però un problema simile al precedente, che attiene cioè a responsabilità diverse da quelle del dipendente: chi deve verificare la produttività e stabilire gli incentivi-disincentivi?
Aggiungiamo che la produttività del lavoratore e la qualità dei servizî erogati non dipendono solo dalla buona volontà del singolo operatore, ma anche dalla sua formazione, dall’organizzazione del lavoro e dall’utilizzo di idonee risorse tecnologiche (il cosiddetto “capitale applicato”). Anche qui, dunque, esistono responsabilità diverse da quelle del dipendente.
Possiamo constatarlo noi stessi: esistono strutture – pubbliche e private – complessivamente inefficienti, nelle quali l’impegno degli addetti volenterosi è una battaglia contro i mulini a vento. Ed esistono numerose strutture – in questo caso, più frequentemente nel settore privato – che sono in grado di erogare servizî efficienti; e non perché siano magicamente popolate da dipendenti virtuosi, ma perché hanno un’organizzazione interna capace di utilizzare al meglio le risorse umane ed economiche.
Il pesce puzza dalla testa...
Ricapitolando: esistono i dipendenti “fannulloni”, o quelli che potrebbero semplicemente impegnarsi di più. Ma serve qualcuno che faccia i controlli per individuare le responsabilità, nonché le verifiche per attribuire incentivi e disincentivi.
Inoltre, poiché i problemi non dipendono principalmente dai “fannulloni”, serve qualcuno che si curi della formazione del personale, dell’organizzazione del lavoro, degli investimenti.
Chi è questo “qualcuno”? Sono i dirigenti pubblici.
Perché i dirigenti pubblici non hanno sin qui svolto questo ruolo cruciale?
In parte perché invischiati in pastoie normative. Ma anche – soprattutto – perché i dirigenti non hanno sin qui avuto un interesse immediato al buon funzionamento del servizio da essi diretto.
Un dirigente privato, un manager, ha obiettivi precisi (cui sono legati anche i suoi incentivi o il suo stesso posto di lavoro), determinati dal titolare dell’impresa, il quale ben conosce l’interesse dell’impresa stessa.
Nella Pubblica Amministrazione, invece, il “titolare” è la collettività. E chiamati a determinare gli obiettivi dei dirigenti (oltre che ad assumerli, a premiarli, a retrocederli) sono troppo spesso i politici e i sindacati. I quali determinano quegli obiettivi in termini di tornaconto clientelare, non di efficienza del servizio da gestire. Può capitare che il dirigente che vuole far carriera si adegui; e che quindi chiuda un occhio col “fannullone”, purché questi – a sua volta – chiuda un occhio su indirizzi dell’ufficio che non rispondono esattamente al pubblico interesse.
In questa situazione (assenza di obiettivi di efficienza ben codificati, cui sia legata la retribuzione e la carriera della dirigenza), il dirigente non ha interesse a premiare i suoi collaboratori effettivamente più meritevoli, che possono aiutarlo nel raggiungimento di obiettivi di efficienza, ma quelli più “fedeli”. I meccanismi premianti il merito individuale non riescono a imporsi per il timore che si trasformino in un’ulteriore fonte di odiosi privilegi.
I sindacati, nel pubblico impiego, hanno responsabilità pesanti. Approfittando del fatto di avere una controparte più debole rispetto al settore privato, sono riusciti a inserirsi nel governo delle amministrazioni (controllore e controllato si sovrappongono...). Si sono quasi sempre opposti ad un’organizzazione del lavoro che premiasse il merito e l’efficienza: per raccogliere un consenso vasto, hanno imposto un livellamento verso il basso.
A dire il vero, per la maggior parte dei lavoratori hanno ottenuto un piatto di lenticchie: scarsi controlli sull’impegno (chi voleva approfittarne senza scrupoli, ha avuto buon gioco; quanto ai “fessi”... peggio per loro!). Per la cerchia più ristretta dei proprî iscritti e dirigenti, invece, hanno ottenuto privilegi particolari: distacchi sindacali abnormi, carriere fulminanti.
Quanto ai politici, abbiamo detto che assumono “troppo spesso” il controllo diretto della Pubblica Amministrazione. Ma chi può farlo, se non loro?
Anche qui, rileggiamoci la Carta Costituzionale: “I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione. Nell'ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari” (art. 97, commi I e II). “I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione” (art. 98, comma I).
Insomma: La politica non deve occuparsi della gestione, ma di dare le regole e definire gli indirizzi politici generali.
Bisogna finirla con la farsa della necessità di stabilire un “rapporto fiduciario”, di neutralizzare i funzionarî che “remano contro”: sono alibi per creare le proprie clientele. Lo spoils system viene applicato in Paesi come gli Stati Uniti che hanno una Pubblica Amministrazione molto meno invasiva della nostra; e viene applicato solo alle cariche di effettivo indirizzo politico o a contenuto fiduciario. Va evitata, insomma, la tentazione di dare ai poteri pubblici un colore politico.
Inoltre, il settore pubblico deve ritrarsi (è il caso delle famigerate aziende “municipalizzate”) dai settori in cui non vengono prodotti “beni pubblici” nell’accezione più rigorosa del termine, cioè nei quali la gestione privata (con i necessarî controlli pubblici su qualità e tutela della cittadinanza) è più efficiente.