Totò, lavoratore tribolato in "Totò e i re di Roma"
Il costo della vita aumenta, i salarî non riescono a far fronte alle necessità delle famiglie, eppure tra i cittadini non nasce quella protesta, quella spinta a provvedimenti politici davvero incisivi, che ci si aspetterebbe. Come mai? Il fatto è che è stata alzata – dal ceto politico, dai media - una cortina fumogena volta a camuffare il cuore del problema. Si parla da anni di “crisi del Paese”, dipendente anche da una crisi internazionale, che imporrebbe sacrifici a tutti. Per cui gli Italiani che hanno visto il proprio potere d’acquisto precipitare si sono lamentati, hanno borbottato, ma alla fine si sono rassegnati.
Ma le cose non stanno proprio come ce le hanno presentate.
La crisi non è principalmente internazionale.
Dal 2001, con l’attentato alle torri gemelle, si è cominciato a parlare di “crisi internazionale”. E questa presunta crisi è divenuta l’alibi per la mancanza di riforme nel nostro Paese.
Bisogna allora ricordare che sì, i fatti dell’11 settembre hanno avuto pesanti ripercussioni sul sistema economico mondiale. Ma queste ripercussioni sono durate poco più di un anno. Già dal 2003 le economie mondiali ripresero a crescere a ritmo sostenuto ovunque, tranne che da noi: negli USA il PIL aumentò del 2,5%, in Italia dello 0,3%...
Di nuovo, dallo scorso anno, si parla della crisi dei mutui immobiliari subprime scoppiata negli Stati Uniti. Eppure l’economia statunitense, che è l’epicentro di questa crisi, continua a crescere. Mentre la nostra, che ha un sistema bancario e assicurativo molto più solido (anche a spese dei consumatori...), è prossima alla stagnazione. (La crisi finanziaria mondiale, nel settembre 2008, è infine esplosa con tutta la sua virulenza, diventando nel 2010 anche crisi economica e della finanza pubblica. Ma la nostra analisi non mira a dimostrare che non possano esistere crisi mondiali cicliche. Il problema, piuttosto, è che da noi alle cause generali se ne sommano altre interne, che rendono molto più difficile la ripresa. Nda)
Rispetto agli altri Paesi dell’Unione Europea abbiamo un tasso di crescita del PIL che è costantemente inferiore di circa un punto percentuale, sia nei periodi in cui la crescita è più sostenuta, sia in quelli in cui è rallentata: secondo l’Istat, nel decennio 1998-2007 la media italiana è stata dell’1,4% all’anno rispetto al 2,5 dell’Ue27.
Le principali ragioni della nostra crisi, quindi, sono italiane, e sono croniche. Risiedono nella ridotta capacità di produrre ricchezza, a sua volta derivante da una serie di fattori (anche legati tra loro): scarsa competitività di molte imprese, mancanza di concorrenza in numerosi settori “protetti”, carenza di innovazione, carenza di infrastrutture e servizi pubblici, scarsa produttività del lavoro.
Ci sono adesso le difficoltà dovute al caro-petrolio, certo. Ma non dimentichiamo che il forte apprezzamento dell’euro sul dollaro ha molto attenuato l’impatto dell’aumento del costo energetico.
Ci sono le difficoltà più generali dovute alla “globalizzazione”, all’ingresso sul mercato mondiale di forti competitori come Cina ed India. Ma sono difficoltà comuni agli altri Paesi sviluppati, che le stanno affrontando meglio di noi (spostando le produzioni dai settori di bassa qualità con alta intensità di manodopera a quelli ad alto tasso di qualità o innovazione).
La “crisi”, dunque, nella misura in cui ha colpito il nostro Paese, è dovuta alla mancanza di riforme capaci di rimuovere i fattori negativi che bloccano lo sviluppo. Un’ulteriore dimostrazione che la crisi è interna viene dalla riluttanza dei capitali stranieri a cercare investimenti del nostro Paese.
È una crisi che muove da lontano, dal 1992/93, quando la necessità di iniziare un percorso di rientro dal debito pubblico (divenuto insostenibile) è stata fatta pesare in maniera asimmetrica sui diversi attori economici.
In mancanza di vere riforme, le imprese hanno scelto la via più facile: risparmiare sul costo del lavoro, aumentando la flessibilità e rallentando la dinamica salariale (quando non si è addirittura trasferita all’estero la produzione). Anche perché “una larga parte delle imprese italiane adotta ancora strutture organizzative e modelli di comportamento che mirano a realizzare soltanto un reddito stabile e adeguato per l’imprenditore e la sua famiglia (oltre che per i lavoratori che vi operano), senza investire su prospettive di crescita di medio-lungo termine” (ISTAT, Rapporto annuale 2007).
La crisi non ha colpito tutti allo stesso modo
Quando si parla di “crisi” si pensa ad un impoverimento. Che però non c’è stato. Infatti, stiamo parlando di rallentamento del tasso d’incremento del PIL; ma non di diminuzione del PIL stesso. Insomma, i numeri dicono chiaramente che la ricchezza complessiva in Italia è sempre aumentata, seppur di poco.
Eppure, altri numeri dicono che alcune categorie sociali sono in sofferenza, che il loro potere d’acquisto – quindi, la loro ricchezza – è diminuito. Stiamo parlando delle categorie a reddito fisso (i lavoratori dipendenti e i pensionati).
I dati della recente indagine della Banca d'Italia su I bilanci delle famiglie italiane nell’anno 2006 (diffusi nel gennaio di quest’anno) dimostrano che, nel periodo 1995-2006, il reddito disponibile degli operai è diminuito in termini “reali” (cioè depurati dell’inflazione) dell’1,6%; quello degli impiegati è diminuito dell’1,2%. Il calo c’è stato anche per i dipendenti pubblici. Gli unici lavoratori dipendenti a veder crescere considerevolmente il loro reddito sono stati i dirigenti (+ 9,1%); anche includendo questi, la variazione complessiva del lavoro dipendente nel periodo indicato resta negativa: - 0,5%.
L’impoverimento dei salariati italiani è ancor più evidente se raffrontiamo il loro reddito con quelli degli altri Paesi sviluppati. Nella classifica Ocse dei trenta Paesi più industrializzati, le retribuzioni dei lavoratori italiani sono scivolate nel 2006 al 23° posto.
Il salario medio loro annuo in Italia nel 2006 è stato pari a 31.995 dollari, inferiore del 19,5% rispetto ai 39.743 dollari che costituiscono la media Ocse, e inferiore del 17,5% rispetto alla media dell’area euro (38.759). I lavoratori coreani e inglesi guadagnano circa il 42% in più. Ci superano non solo Stati Uniti, Giappone, Germania e Francia, ma anche Spagna, Grecia e Irlanda. Tra i Paesi europei, precediamo solo il Portogallo.
Se poi si considera il livello dei salari in termini di potere di acquisto, il dato italiano scende a 29.844 dollari, il 22% in meno rispetto ai 38.252 dollari della media Ocse.
Alcuni analisti che vogliono sminuire il fenomeno, magari per timore di una rincorsa all’aumento dei salarî, rilevano che la dinamica salariale è stata a lungo superiore al tasso d’inflazione. Ma questo rilievo è del tutto parziale e fuorviante.
Infatti, evidenziare che gli incrementi salariali hanno “a lungo” superato l’inflazione, non significa nulla: bastano uno/due anni di rallentamento della dinamica degli aumenti per perdere il beneficio maturato in precedenza (i dati della Banca d’Italia citati, infatti, considerano il reddito “reale”).
In secondo luogo, utilizzare come parametro di riferimento l’inflazione ufficiale generale (sia l’indice NIC sia il FOI) è, per i redditi più bassi e da lavoro dipendente, ingannevole. Tralasciamo i dubbi avanzati da molti sulla reale capacità del tasso generale di misurare l’inflazione reale (lo Stato ha interesse a dimostrare che questa sia bassa, per contenere l’esborso in interessi sul debito pubblico). Ci limitiamo a rilevare che nel paniere generale sono sottostimati beni che incidono più fortemente sulle categorie di reddito inferiori. Tant’è che l’ISTAT stesso ha recentemente introdotto un nuovo sub-indice, quello dei "prodotti ad alta frequenza di acquisto", che è risultato di due punti percentuali superiore all’indice generale! (A giugno, 5,8% rispetto al 3,8% dell’indice generale).
Infine, se anziché fare il raffronto con l’inflazione, lo facciamo con l’incremento del PIL (che è misurato al netto della stessa), vediamo che la dinamica dei salarî è ancora più debole.
Le cause della perdita di potere d’acquisto? L’inflazione, che penalizza innanzitutto i redditi fissi. L’aumento di imposte e tasse. Il fiscal drag, cioè l’aumento sotterraneo delle imposte dovuto all’inflazione, che fa salire parte del reddito in scaglioni con aliquota maggiore.
Si aggiunga la debole azione dei sindacati nei rinnovi contrattuali. Le organizzazioni sindacali spesso hanno preferito porsi come interlocutore politico; o hanno rinunciato a richieste salariali più forti, in cambio della rinuncia della controparte (Governo e imprese) a pretendere riforme che intaccassero privilegi consolidati dei sindacati stessi o di alcuni loro iscritti.
Una particolare debolezza investe il potere d’acquisto delle famiglie, soprattutto quelle monoreddito e con figli a carico. Le politiche fiscali e sociali, infatti, sono fortemente penalizzanti per le famiglie.
Altri analisti, sempre tra coloro che vogliono sminuire il fenomeno, osservano che il reddito complessivo nazionale è aumentato prevalentemente per l’aumento dell’occupazione, e non per un aumento della produttività del lavoro. Questa considerazione generica, però, non giustifica la perdita di potere di acquisto delle categorie descritte; né il considerevole aumento di reddito di altre categorie (che stiamo per analizzare), dovuto essenzialmente ad un trasferimento di ricchezza.
Le disuguaglianze nella distribuzione del reddito sono aumentate
C’è un luogo comune della sinistra che dice: “con il capitalismo i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri”. Questo non è vero, perché storicamente, in tutto il mondo, i Paesi ad economia di mercato più sviluppata (con elevati tassi di concorrenza, istruzione, accesso al credito, ecc.) hanno conosciuto un aumento della ricchezza complessiva, di cui hanno beneficiato innanzitutto i ceti sociali più poveri. Inoltre, i ceti sociali relativamente più poveri hanno visto accrescere il loro reddito non solo in termini assoluti, ma anche in rapporto ai ceti più agiati: sono diminuite le disuguaglianze (che erano maggiori nei Paesi socialisti!).
Non vogliamo qui sostenere che l’obiettivo di una società giusta sia l’uguaglianza assoluta dei redditi, perché ciò scoraggerebbe l’impegno dei più meritevoli e l’attitudine al rischio. Ci limitiamo a rilevare che una riduzione delle disuguaglianze è il risultato comune, sin qui rilevato, delle economie di mercato evolute; e che tale riduzione avvantaggia il sistema economico, perché riduce le tensioni sociali ed aumenta la propensione al consumo e il conseguente stimolo alla domanda interna.
Parliamo però di economie evolute. Le inefficienze del sistema (particolarmente forti in Italia) possono rallentare la diminuzione delle disuguaglianze, o addirittura invertire la tendenza.
Nel nostro Paese permangono notevoli disuguaglianze tra redditi alti e redditi bassi. Se il reddito netto delle famiglie residenti in Italia nel 2005 è stato pari in media a 2.300 euro mensili, ben più basso è stato il valore “mediano”: il 50 per cento delle famiglie ha guadagnato meno di 1.900 euro al mese (ISTAT, Rapporto annuale 2007). Si consideri altresì che il venti per cento delle famiglie con i redditi più bassi percepisce circa l’8 per cento del reddito totale; per contro, il venti per cento delle famiglie con i redditi più elevati percepisce una quota pari a circa il 38 per cento del reddito totale e ha un reddito medio equivalente circa cinque volte superiore.
In verità queste disuguaglianze tra redditi alti e redditi bassi non sono considerevolmente aumentate negli ultimi anni. Sebbene in Italia siano tra le maggiori esistenti nei Paesi sviluppati, e sarebbe utile che si riducessero.
Le disuguaglianze che si sono accresciute sono quelle tra lavoro dipendente e lavoro autonomo, all’interno della classe media.
Non è una tendenza solo italiana: nei Paesi dell’Unione europea, nel 1981, ai salarî andava il 71% del reddito nazionale, oggi 9 punti di meno (dati della Commissione europea).
Ma in Italia il fenomeno, negli ultimi quindici anni, si è fatto molto più vistoso. Se infatti, come visto, nel periodo 1995-2006 il reddito disponibile di operai e impiegati è diminuito, quello dei lavoratori autonomi (sempre secondo l'indagine della Banca d'Italia) è aumentato del 25,9%.
Anzi, all’interno della categoria del lavoro autonomo bisogna fare una differenza: mentre il reddito dei professionisti è rimasto stabile (+0,2%), quello delle altre categorie (imprenditori, commercianti) è aumentato del 41,9%!
La motivazione di questo divario dovrebbe essere evidente.
I lavoratori dipendenti, come visto, hanno difese limitate rispetto ad inflazione ad aumenti di imposte.
Una difficoltà simile hanno i professionisti (almeno stando ai redditi dichiarati: c’è poi chi usa la scappatoia dell’evasione fiscale, impossibile ai dipendenti), che devono attenersi alle tariffe degli albi professionali.
Gli altri lavoratori autonomi, invece, avendo il potere di determinare i prezzi, hanno potuto facilmente scaricare sui consumatori finali l’inflazione o (col fenomeno della traslazione dell’imposta) gli aumenti fiscali. Possibilità tanto più agevole nei settori in cui la concorrenza è meno sviluppata.
A questo punto, qualche lettore che esercita attività di lavoro autonomo potrebbe ribellarsi, ricordando i rischi che corre, le protezioni di cui non dispone, la burocrazia con cui deve combattere, i numerosi fallimenti che coinvolgono molte imprese produttive e commerciali, ecc. Noi non stiamo però sostenendo che esercitare un lavoro autonomo significhi guadagnare molto e senza nessuna fatica; stiamo semplicemente evidenziando che il settore autonomo, nel suo insieme (e quindi tenendo conto delle estreme difficoltà di molte imprese o aree territoriali), ha goduto negli ultimi anni di una maggiore crescita di reddito e potere d’acquisto.
Quali rimedî?
La sinistra massimalista ha denunciato con forza parte del fenomeno descritto. Per cui potrebbe subentrare la tentazione di Totò, allorché – nei panni di un archivista vessato (nel film Totò e i re di Roma) - esclamava: “E poi dice che uno... si butta a sinistra!”.
Tentazione senza via d’uscita.
Innanzitutto, la sinistra ha denunciato parte del fenomeno, perché è sensibile al potere d’acquisto dei salarî e delle pensioni, ma sottovaluta drammaticamente – per avversione ideologica all’istituto familiare – il problema del potere d’acquisto delle famiglie.
Per di più la ricetta che propone (e che in parte ha cercato di far applicare nei due anni di governo Prodi) è la classica ricetta comunista, semplicistica e alla fine peggiore del male: aumentiamo le tasse sui redditi più alti per ridistribuire la ricchezza.
Aumentare le tasse in un sistema in cui il carico fiscale è già gravoso produce effetti negativi: significa indurre all’evasione chi può farlo (non i lavoratori dipendenti e i pensionati); significa scoraggiare l’impresa e gli investimenti, rallentare la produzione di ricchezza, e assottigliare quella “torta” che si vorrebbe ridistribuire. I danni prodotti sono sotto gli occhi di tutti.
Le ricette giuste sono altre.
Realizzare le riforme di sistema generali (che abbiamo ricordato inizialmente), per aumentare la capacità italiana di produrre ricchezza.
Realizzare, in particolare, quelle riforme capaci di accrescere il potere d’acquisto delle categorie a reddito fisso e delle famiglie: diminuire le tasse (a partire dalle famiglie numerose, per le quali servono politiche forti e mirate); combattere seriamente l’evasione fiscale; concentrare la spesa pubblica sugli interventi proprî dello Stato sociale, eliminando assistenzialismi e clientele che scoraggiano la produttività; concentrare la spesa pensionistica su chi ne ha davvero bisogno (persone davvero non più in grado di lavorare), anche per aumentarne la capacità di consumo; accrescere la concorrenza, per abbassare i prezzi a beneficio dei consumatori, e per costringere le imprese a puntare sulla qualità del lavoro (che deve quindi essere ben remunerato), e non su facili rendite di posizione incamerate come profitto; promuovere la formazione dei lavoratori (anche così si accresce il loro potere contrattuale).
Al di là delle riforme, serve che il sindacato torni a fare il suo mestiere, contrattando aumenti salariali che aumentino il potere d’acquisto dei salarî. In quest’ottica, a fronte di un’inflazione generale al 3,8%, e di un’inflazione relativa ai prodotti ad alta frequenza di acquisto del 5,8%, parlare – come ha fatto il Governo - di aumenti rapportati all’inflazione “programmata” dell’1,7% sa di presa in giro...
A chi obietta che l’aumento salariale rischia di aggravare la spirale inflazionistica, va detto che bisogna vedere quali sono le cause dell’inflazione. Se negli anni Settanta risiedevano proprio nell’aumento incontrollato dei redditi (che veniva fatto gravare sul debito pubblico), oggi l’inflazione è importata (energia e alimentari). Un aumento controllato dei salarî, che corrisponda ad un’erosione parallela di rendite finanziarie e profitti, e sia legato ad un incremento della produttività del lavoro, avrebbe un’incidenza marginale sull’inflazione.
Ci sono circostanze che portano ad un incremento della dinamica salariale inferiore a quello dell’inflazione e delle ricchezza nazionale. Ma tali circostanze devono essere compensate da altre in cui l’incremento sia superiore; altrimenti dovremmo teorizzare una perdita di potere d’acquisto dei redditi fissi progressiva e illimitata...
Chi non vuole le riforme?
Abbiamo parlato inizialmente di una cortina fumogena alzata per camuffare, con lo spauracchio della “crisi”, uno spostamento di ricchezza da alcune categorie sociali ad altre. Chi ha steso questa cortina? Ovviamente, chi doveva beneficiare dello spostamento di ricchezza.
In primo luogo i grandi gruppi industriali, bancarî e assicurativi, che operano spesso in regime di ridotta concorrenza. E che, per inciso, sono proprietarî dei mezzi di informazione.
In secondo luogo, una parte del lavoro autonomo, che ha trovato - soprattutto al Nord - un forte collante politico.
Non sarebbe corretto sostenere che questa categoria sociale sia “nemica” delle riforme. Il “popolo delle partite IVA” ha giustamente denunciato l’ubriacatura ideologica degli anni Settanta-Ottanta, che aveva portato ad un’esaltazione unilaterale del lavoro dipendente; ha invocato riforme (semplificazione amministrativa, calo delle tasse) utili per l’intero Paese. Esistono però alcuni settori del lavoro autonomo che operano in fasce di mercato protette; e che non hanno tanto interesse a combattere gli eventuali “privilegi” dei lavoratori dipendenti, quanto a contrattarne di proprî: studi di settore che si traducono in esenzione di parte del carico fiscale, benefici fiscali mirati, controlli fiscali lacunosi, accessi contingentati alla professione, ecc.
In terzo luogo, i partiti politici. I quali – a prescindere dallo schieramento - non hanno avuto il coraggio di combattere le inefficienze e fare le riforme che avrebbero scatenato l’opposizione delle minoranze sociali ed economiche contrattualmente più forti, gli stakeholders di riferimento (quelli che spostano voti o versano ingenti finanziamenti). Anzi, hanno consentito uno strisciante trasferimento di ricchezza in favore di questi soggetti.
Il lavoro dipendente avrebbe dovuto avere la sua forza contrattuale nei sindacati. I quali, però, come detto, non hanno fatto il loro mestiere.
L’eccessivo depauperamento delle categorie a reddito fisso, oltre a costituire un’ingiustizia sociale, fa calare i consumi e trascina l’intero Paese in una spirale di declino. Bisogna tornare a reclamare con forza le riforme di cui l’Italia ha bisogno.