L’Italia “non è un Paese per giovani”: parafrasando il titolo del film premio Oscar dei fratelli Coen, potremmo definire così il quadro desolante che emerge dalla nostra esperienza quotidiana; e che è suffragato da analisi approfondite come quella dell’Università Cattolica. (A dire il vero, non è neanche un Paese per vecchi, se questi non sono in buona salute e il loro mantenimento diventa economicamente troppo gravoso: sostegno sociosanitario pubblico quasi inesistente, nessun aiuto alle famiglie che si fanno carico dell’assistenza, progetti di eutanasia strisciante... ma questo è un altro discorso)
Le classi dirigenti (politiche, sindacali, imprenditoriali) negli ultimi trent’anni hanno costruito un sistema socio-economico che guarda solo al presente, tutela solo chi è “incluso”. E rende ai giovani molto difficile costruire il proprio futuro. Dobbiamo quindi concludere che i giovani sono inesorabilmente “vittime del sistema”? Che il loro futuro dipende solo da fattori “esterni” sui quali non possono intervenire?
Non è così. Ma il rischio che ci si abbandoni al vittimismo è concreto, con la conseguenza di diventare complici del proprio fallimento...
Mettiamo dunque meglio a fuoco la realtà che ci circonda, per capire come i giovani possano utilmente indirizzare i loro sforzi. Come singoli e come categoria.
1. Il cammino è difficile, non impossibile.
I nostri padri hanno sì vissuto in una società in cui il ricambio generazionale era maggiore. Ma non è mai esistita una società in cui farsi strada fosse facile, in cui chi occupa posizioni di spicco si rivolgesse amorevolmente a un giovane: “prego, si accomodi!”.
I nostri padri hanno sì vissuto in una società in cui il futuro appariva più roseo. Ma costruire quel futuro comportava spesso sacrifici maggiori di quelli che oggi riteniamo ‘sopportabili’.
Il lavoro “precario” è oggi più diffuso, ma non è un destino inesorabile. La percentuale del lavoro a tempo indeterminato sul totale dell’impiego resta costante (quasi il 90%). Il 35% dei contratti di lavoro "somministrato" (o "interinale") e il 50% dei contratti a termine viene trasformato in contratti a tempo indeterminato già alla prima scadenza. Il nuovo lavoro flessibile ha sostituito soprattutto lavoro nero e disoccupazione, perché le imprese possono assumere più liberamente.
Non stiamo negando le rigidità del sistema; né il fatto che la “precarizzazione” sia uno strumento di cui molti imprenditori si servono impropriamente per risparmiare o rendere ricattabile la manodopera. Non stiamo nascondendoci, quindi, la necessità di riforme politiche, economiche, sociali.
Ma il punto è che le opportunità esistono, anche se in misura minore a quelle che dovrebbe offrire un sistema equo ed efficiente.
La “raccomandazione”, poi, è un metodo deprecabile per concedere lavoro: un’ingiustizia verso i singoli e un freno allo sviluppo complessivo. Si tenga però conto che i “raccomandati” incapaci vanno bene solo per mansioni poco qualificate: l’imprenditore che non vuole mandare in rovina la sua azienda ha bisogno di persone in gamba; e se privilegia per ruoli qualificati persone che gli vengono segnalate, può farlo solo quando quelle persone rispondano ai requisiti.
Anche nel pubblico impiego molti conosceranno i casi di persone che si sono fatte strada in base ai proprî meriti.
Pure qui: non stiamo negando che i criterî di selezione dovrebbero essere meritocratici (e ognuno dovrebbe ricordarsene anche quando chiede un’eccezione per sé...).
Ma il rischio è quello di confondere il desiderio di giustizia con l’invidia; di vedere in chi ci supera sempre e solo un “raccomandato”, e non una persona più meritevole; di abbandonarsi all’autocommiserazione o alla ricerca di facili scorciatoie: “è inutile che studio o mi sacrifico, mi devo solo trovare la raccomandazione giusta”. Col risultato di alimentare il sistema che si contesta, se si è fortunati; o di votarsi ad amare delusioni, nella maggior parte dei casi.
L’alternativa non è solo tra i “bamboccioni” (che pure esistono, anche se il ministro Padoa Schioppa scaricava su di essi la propria inadeguatezza politica) e i giovani “in gamba e preparatissimi" (che esistono anch’essi, e per fortuna numerosi). C’è un’ampia area intermedia che, di fronte ad una delusione, anziché porsi il problema dei proprî meriti effettivi, si abbandona ad una sorta di giustizia ‘comparativa’: “sì, e vero, non ero preparatissimo, ma chi mi ha superato era peggio di me”; un ragionamento che diventa solo l’alibi per i fallimenti futuri.
I dati evidenziano che in Italia è diffuso, molto più che negli altri Paesi, il fenomeno dei giovani che non lavorano, né studiano, né stanno apprendendo un mestiere, i cosiddetti Neet: Not in Education, Employment or Training.
2. La ricetta personale: formazione a 360°
Tutte le statistiche dicono che chi ha un titolo di studio o professionale qualificato trova lavoro più facilmente. “Ma io sono laureato da tre anni e ancora sono a spasso!”. Il titolo di studio non basta. Bisogna che vi corrisponda una competenza reale.
Diciamoci la verità: se facciamo il paragone con i nostri padri, ma anche con gli altri Paesi sviluppati (come ci confermano i dati OCSE), oggi la preparazione culturale e professionale dei giovani è inferiore. Parlare approssimativamente una lingua straniera, o avere una certa dimestichezza col pc, non cambia la sostanza del problema.
Il fatto è che, assegnando al “titolo di studio” una valenza miracolistica, i genitori non hanno fatto pressione sui loro figli perché studiassero di più, ma sul sistema scolastico perché rilasciasse i titoli con più facilità, facendone “pezzi di carta”.
Ciò è accaduto innanzitutto nel sistema dell’istruzione scolastica. Ma anche nel sistema universitario: in nome dell’ “autonomia”, proliferano in maniera incontrollata piccole università, cattedre ad uso e consumo di chi le deve ricoprire, percorsi formativi improbabili, lauree brevi inservibili, crediti formativi basati su esperienze extrauniversitarie prive di spessore... L’autonomia ha senso nella misura in cui non ci si affidi solo al valore legale del titolo di studio, ma si accetti di misurarsi col mondo del lavoro sulla base delle competenze effettive.
Il risultato è che abbiamo aspiranti “professionisti” che non conoscono a fondo i contenuti della loro professione. Ad ogni bando per il concorso in magistratura (uno dei pochi che conserva la necessaria severità) i posti non vengono ricoperti interamente per mancanza di candidati sufficientemente preparati.
Più in generale, la maggioranza dei diplomati, laureati, specializzati, non conoscono neanche l’italiano: e ciò non significa solo non saper comunicare, ma anche non comprendere a fondo un testo da studiare. (Giova ripetere che, nel denunciare un fenomeno diffuso, non stiamo generalizzando, non vogliamo dimenticare coloro cui vanno riconosciuti impegno e meriti).
I giovani sono in parte vittime, come segnalavamo, di un sistema formativo che non li abitua allo studio rigoroso, che rinvia le prove della vita adulta senza insegnare ad affrontarle. Sono vittime dell'iperprotettività dei loro genitori.
Ma fino a che età si può continuare a ritenersi vittime? Fino a quando si può rinviare la propria maturazione, la propria assunzione di responsabilità?
Arriva anche il momento in cui, presa coscienza dell’insufficienza di ciò che il sistema formativo ci ha trasmesso, ci si rimbocca le maniche: si riprendono in mano materie colpevolmente trascurate (come, appunto, la lingua italiana; o tutte quelle che formano la cultura generale, che sembra inutile solo a chi non la possiede); si scelgono i percorsi formativi più duri, ma capaci di fornire conoscenze più profonde.
Un altro problema è la carenza di manodopera in alcuni settori poco graditi; o di laureati in materie scientifiche (che, si sa, sono un po’ più “toste”): Fisica, Matematica, Chimica, Ingegneria. Per contro, c’è l’inflazione di lauree che diventano vere e proprie fabbriche di disoccupati: Scienze della Comunicazione in primis.
Sia ben chiaro: se scegliamo una facoltà che non garantisce sbocchi, e magari ci lamentiamo del numero chiuso all’ingresso (che invece è una garanzia contro le illusioni pericolose), non possiamo poi accampare il “diritto” a trovare il lavoro dei sogni. È vero che a qualcuno è possibile emergere, se ha grande spirito di sacrificio, anche nei settori più concorrenziali o più chiusi. Ma un’altra dote che serve è la capacità di adattamento, di trovare nuove e creative modalità di applicare le proprie conoscenze.
La stessa capacità di adattamento che è richiesta nell’accettare proposte di lavoro lontane da casa.
3. La ricetta collettiva: mobilitarsi per ottenere le necessarie riforme economiche e sociali
Sforzarsi di curare la crescita personale, di non crearsi alibi, di trovare le opportunità individuali per affermarsi, non significa rassegnarsi alle ingiustizie generali.
Alcuni nodi (scarse garanzie contrattuali, costo esorbitante degli alloggi, mancanza di sostegno alle nuove famiglie) non sono risolvibili da nessun giovane di buona volontà.
È vero che, come ricorda lo studio del prof. Rosina, il calo demografico ha ridotto i giovani ad essere minoranza numerica, quindi con capacità di pressione politica più ridotta che in passato.
Va però tenuto presente che anche una sparuta minoranza, se ben organizzata e attiva, può avere grande influenza. Un discorso che vale a maggior ragione per i giovani, i quali restano pur sempre una categoria di enormi dimensioni, di importanza vitale per il sistema-Paese, e con grandi energie da spendere in ogni iniziativa.
Esiste però il problema della mancanza di consapevolezza e della rassegnazione.
Molti giovani dimostrano mancanza di consapevolezza quando non individuano i loro veri interessi: chiedendo facilitazioni (formazione poco severa, niente numero chiuso all’università, stabilizzazione dei precarî nella pubblica amministrazione) che li danneggiano a lungo termine; o, addirittura, facendosi strumentalizzare e schierandosi al fianco di categorie che difendono interessi in conflitto con quelli delle nuove generazioni (è uno spettacolo penoso vedere studenti marciare al fianco di professori che non vogliono essere valutati nel loro lavoro, o di lavoratori adulti che aspirano al privilegio della pensione di "anzianità").
Se non si riescono a mettere a fuoco gli obiettivi, falliscono mobilitazioni velleitarie - come quelle del Sessantotto - all'insegna del "tutto e subito", della "immaginazione al potere", o di ideologie totalitarie fuori dalla realtà.
Subentra così la rassegnazione, la rinuncia ad impegnarsi per difendere i proprî diritti. Si diffonde l’idea che “la politica è una cosa sporca”, in cui non vale la pena impegnarsi; affidando così ad altri la delega in bianco per decidere del proprio futuro.
Impegno “politico”, però, non significa solo partitico. La politica nasce dalle idee, dalle domande diffuse della popolazione. I giovani possono – debbono – parlarsi, organizzarsi, mobilitarsi, trovare compattezza, per un grande movimento di opinione che li aiuti a ritornare protagonisti. I diritti si conquistano, non piovono dall’alto.
La strada c’è, per chi vuole camminare...