(...) Il prof. Alessandro Rosina, dell’Istituto di Demografia dell’Università Cattolica di Milano, ha presentato nell’ateneo di Largo Gemelli i risultati di una ricerca dal titolo «Un ritratto degli under 35 italiani», impietosa radiografia su quei milioni di ragazzi che hanno studiato da europei e si ritrovano a 30 anni precari e per giunta «bamboccioni».
INDICATORI - La ricerca elenca una serie di record negativi, che ci vedono fanalino di coda su quasi tutti gli indicatori rispetto ai Paesi europei. Secondo Rosina «i giovani italiani risultano avere il minor peso elettorale di tutta Europa; hanno la più bassa scolarizzazione e occupazione, i salari sono fra i più bassi. Il nostro Paese ha il sistema previdenziale più iniquo e al contempo il maggior debito pubblico ereditato dalle generazioni precedenti. In Europa i giovani italiani sono quelli che contano meno dal punto di vista sociale, economico, demografico e politico».
DE-GIOVANIMENTO - Le ragioni sono in parte congiunturali, ma prevalentemente politiche. Anzitutto i giovani contano sempre meno dal punto di vista demografico e quindi elettorale. «Dati Eurostat indicano che all’inizio degli anni '90 i 15-24enni erano quasi il doppio rispetto ai 65-74enni, oggi le due fasce si equivalgono». In molti Paesi europei gli under 25 sono più del 30% della popolazione, «l'Italia è l’unico paese sceso sotto la quota del 25%. Più che di "invecchiamento" sarebbe più corretto parlare di de-giovanimento della popolazione». Inoltre la preparazione scolastica più alta che in passato, non incide, per via della mancanza di meritocrazia, sulle prospettive occupazionali: «siamo l’unico grande Paese in Europa con un solo 15-25enne occupato su quattro». (Se guardiamo poi all’occupazione dei laureati a un anno dal termine degli studi, la percentuale è scesa in pochi anni dal 57% al 53%, sono diminuite le occupazioni stabili ed è diminuito il salario: da circa 1.150 a meno di 1.050 euro al mese. Ndr).
PENSIONI - Esiste poi il nodo previdenziale. Chi ha cominicato a lavorare dalla metà degli anni '90, «andrà in pensione più tardi e riceverà circa il 20-30% in meno». Le riforme degli ultimi 10 anni hanno infatti lasciato inalterati i requisiti e il trattamento delle generazioni più vecchie «e addossato sui più giovani i costi dell’invecchiamento della popolazione». Proprio su coloro che per primi hanno affrontato la condizione di precarietà strutturale nel lavoro, alla quale la politica non ha fin ora saputo offrire alcun concreto sistema di ammortizzatori. «La stessa spesa sociale in Italia è assorbita per lo più dall’old age (terza età, ndr) (61% contro il 47% della media europea, dati Eurostat) e siamo il Paese europeo che destina meno risorse verso le giovani generazioni. Ed è per questo che si appoggiano fortemente alla famiglia di origine, il loro vero ammortizzatore sociale».
DEBITO PUBBLICO - I fondi per i più giovani tra l’altro ci sarebbero. Peccato che siano prosciugati dagli interessi sul debito pubblico, che dagli anni '80 (quando era al 60%) non smette di crescere. Negli ultimi anni è rimasto sistematicamente sopra il 104% del Pil, circa 1600 mld di euro che producono interessi annui per 65 mld (pari al 4,5% del Pil), «più o meno la percentuale che altri stati destinano alla spesa sociale e ai propri giovani, cioè al proprio futuro» afferma Rosina. Chi è entrato nella vita adulta dalla metà degli anni '90 ha ereditato il macigno di un debito che non ha contribuito a costituire e del quale non ha beneficiato in alcun modo. Si trova invece a doverne pagare il conto. Si tratta di una condizione profondamente iniqua, visto che da noi tale debito non è stato formato affatto per potenziare le prospettive per le giovani generazioni e di crescita del Paese, ma per proteggere il livello di benessere e di status degli adulti/anziani, scaricandone le conseguenze sui figli». (...)
pubblicato sul Corriere della Sera con il titolo “La «Peggio gioventù»? I 30enni di oggi”.
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