Ricorrono sessant’anni dal 18 aprile 1948, data storica per la democrazia italiana. La rievochiamo riproponendo questo articolo di Antonio Socci.
«Il mondo è fermo, l'Italia sceglie», titolava un grande giornale inglese. Quel 18 aprile 1948 non c'erano vie di mezzo: aut, aut. Una scommessa secca. Da una parte la civiltà, la libertà. Dall'altra la barbarie, il terrore, la miseria.
Scriveva il Corriere della Sera: «Preferisci la libertà o la paura di tutti i giorni? Preferisci la certezza del pane o la fame umiliante? Preferisci la serenità o il terrore?».
Il mondo libero è col fiato sospeso, la Penisola è sul crinale. L'Italia non ha solo le truppe di Stalin a Trieste. Si è trovata in casa il più grosso e agguerrito Partito comunista dell'Occidente: 2 milioni di iscritti, 50mila cellule, 50-100mila armati (le Volanti rosse ed i Gap avevano imperversato eliminando impunemente un centinaio di preti e altri avversari politici).
Alle prime elezioni, quelle della Costituente, il 2 giugno del '46 il blocco socialcomunista prende il 40% dei voti, la Dc il 35,18%.
Da allora è un'escalation. Stalin, intanto, in barba ai trattati internazionali, stende la sua cappa di piombo e di terrore fino al cuore dell'Europa. Berlino, Varsavia, Budapest, Sofia (perfino in Grecia le armi crepitano). Dovunque si ripete la tragedia: un colpo di mano dei comunisti e poi gli arresti, la censura, l'epurazione, il regime. All'inizio del '48 sembra venuta la volta della Finlandia. Il 25 febbraio, colpo di Stato comunista a Praga (due settimane dopo il ministro Masaryk viene «suicidato» e con lui la democrazia cecoslovacca).
In Italia si scopre la foiba di Basovizza e tutte le altre dove i comunisti jugoslavi, con l'appoggio di quelli italiani, hanno macellato migliaia di italiani innocenti (la Jugoslavia ancora stalinista si appropria di Zara, la Dalmazia, Fiume, l'Istria, fino a Trieste e Gorizia).
Il 27 settembre del '47, a Bialystok, Stalin aveva riunito tutti i Partiti comunisti dell'Est, il Pci (Partito Comunista Italiano, ndr) ed il Pcf (Partito Comunista Francese, ndr) dando vita al Cominform (un'edizione aggiornata del famigerato Comintern): tutti i «partiti fratelli» sono agli ordini del tiranno del Cremlino.
In Italia i comunisti (che non sono solo il partito più organizzato, ma anche l'unico ad avere una consistenza «militare») sono padroni della piazza. Due mesi prima del 18 aprile, alle elezioni comunali di Pescara, il Fronte (l’alleanza tra comunisti di Togliatti e socialisti di Nenni, che si presentava unitariamente col nome di Fronte Democratico Popolare, ndr) raddoppia i voti delle precedenti consultazioni prendendo il 48,4%, mentre la Dc non arriva al 28%. Il segnale è chiaro: c'è da sudar freddo.
Ma intanto l'Italia ha il pane razionato ed è un cumulo di macerie. Può continuare solo con gli aiuti americani (le navi del Piano Marshall). Così De Gasperi, nella primavera del '47, aveva addirittura dovuto estromettere i socialcomunisti dal governo. Fu drammaticamente solo (a parte il fidatissimo Andreotti) e, nel partito, il gruppo dossettiano arrivò ad attaccarlo pesantemente, per questa scelta. Si avvicinava così il confronto decisivo. Il 18 aprile era il redde rationem. Togliatti, che chiamava sprezzantemente De Gasperi cancelliere von Gasper, gli aveva promesso che - all'indomani della vittoria - lo avrebbe cacciato dal Viminale a pedate. Soprattutto nelle regioni rosse «i capetti (del Fronte)» racconta Andreotti «avevano minacciato sfacciatamente vendetta e forche». In questo clima di paura, di violenza e di intimidazione gli Italiani dovevano scegliere il futuro del loro Paese. «Un avvenimento di importanza storica» disse Churchill. «Tutta la campagna elettorale» ha scritto De Felice «sembrò volta ad una scelta drammatica di regime».
Il risultato sarà stupefacente, sorprendente, unico nella storia d'Italia (dove per la prima volta votano tutti, donne comprese): la Dc di De Gasperi conquista la maggioranza assoluta (dei seggi; la percentuale dei votanti fu del 48,51%, ndr), ed il Fronte popolare di Togliatti (con Nenni come succube reggicoda) appena il 30%. E' un trionfo. L'incubo è finito, comincia la libertà.
Il commento più umoristico è quello dell'Unità: «Potente affermazione del Fronte» (titolo a nove colonne). Il più stupido quello del giornale satirico laicista Don Basilio, che titola: «L'Italia ha quel che si merita. Hanno vinto le vecchie e i deficienti». E' Benedetto Croce, maître-à-penser del pensiero laico, a ribattere: «Beneditele quelle beghine, perché senza il loro voto oggi noi non saremmo liberi».
Luigi Gedda, il fondatore dei Comitati civici, commenta: «Il 18 aprile è stata una bella pagina scritta dall'Italia cattolica, un'Italia che per quasi un secolo era rimasta in stato di clandestinità. La vittoria fu della Dc, ma questa fu la veste di circostanza della protagonista, l'Italia cattolica, che si era andata preparando da almeno tre generazioni a questo momento».
In effetti i Comitati civici (insieme agli aiuti americani del Piano Marshall) furono la marcia in più della Dc. «La grande ora della coscienza cristiana è suonata», così in Piazza San Pietro, Pio XII aveva chiamato a raccolta i cattolici.
18mila Comitati civici coprono il Paese, con 300mila attivisti, legati alle 22mila parrocchie. Emanazione diretta dell'Azione cattolica (ma avversati dalla componente «maritainiana» del presidente Veronese, di Lazzati e di Dossetti) corrispondono ad una formidabile intuizione di Pio XII: che fosse il popolo il vero depositario della libertà, a tener fronte allo Stato-tiranno, esprimendosi anche in forme autonome dai partiti.
Alcide De Gasperi riconosceva questa particolare natura strumentale alla Dc. All'assemblea organizzativa del gennaio '49, opponendosi al «partito giacobino» proposto dai dossettiani (cioè un partito programmatico, laico, autonomo, totalizzante) disse: «La Dc non sarebbe stata quella che è attualmente se davanti ad essa non vi fosse un secolo di esperienze del movimento sociale cristiano. Prima che come partito è nata come movimento... Dobbiamo affermare che riconosciamo questa paternità e questa origine».
Protagonista doveva essere dunque la Chiesa - il popolo cattolico - non il partito (che era «una veste di circostanza»); questa la convinzione di Pio XII: «Per lui il "partito unito dei cattolici" esisteva già prima della Dc, ed era la Chiesa». Per questo i più stretti collaboratori del Papa, Domenico Tardini della Segreteria di Stato, il cardinale Ottaviani del Sant'Uffizio e Luigi Gedda, avevano in mente non la sola Dc ma una pluralità di partiti che i cattolici potessero «controllare».
La Civiltà Cattolica (la rivista dei Gesuiti, le cui bozze vengono riviste dalla Segreteria di stato della Santa Sede, ndr), già nel '44 prevedeva che potessero «sorgere più partiti politici lecitamente discordanti sul terreno politico, ai quali essi (i cattolici) possono aderire».
Da parte sua De Gasperi proponeva invece l'immagine di un partito aperto: «La civiltà cristiana non si pone in essere solo con affermazioni generiche di principio, ma con lo sforzo concreto di trovare soluzione ai problemi che interessano la popolazione». Erano parole pronunciate qualche mese prima del 18 aprile. Gianni Baget Bozzo le commentò così: «Era il suo modo di lottare contro un modello di partito autarchico, chiuso in se stesso».
Naturalmente il 18 aprile, di fronte alla minaccia della sovietizzazione, era necessario salvare il Paese: e si fece quadrato attorno alla Dc. Ma l'orizzonte della Chiesa viva era la sua stessa missione, non un partito (che era solo una delle espressioni storiche).
Naturalmente si trattava anche di evitare l'invadenza degli ecclesiastici che De Gasperi stesso dovette contenere (e lo fece da maestro). Piuttosto, la Chiesa non doveva illudersi che il 18 aprile, come osservò giustamente Cronache sociali, «fosse stato il giorno della vittoria dello spirito cristiano». Insomma altro era un voto per la libertà, contro l'adesione corta e totale alla proposta cristiana. Un equivoco ci fu: e con gli anni '50 un'amara realtà comincerà a presentarsi alla Chiesa. Ma, per tornare al 18 aprile, certo a uscirne a pezzi non fu solo il Fronte stalinista.
Anche per la pattuglia laicista del Partito d'Azione fu una disfatta. Mario Scelba si congratulò col popolo italiano che aveva fatto «giustizia sommaria di quattro pseudo-intellettuali residui dell'anticlericalismo». Contrariamente a Croce, gli azionisti (alcuni dei quali stavano con il Fronte) non erano disposti a riconoscere alcun merito alla Chiesa.
Del tutto privi di sostegno popolare, ma non di potere. Ha scritto Giorgio Bocca (azionista, ndr): «L'élite laico-risorgimentale si accorse allora di che cosa erano l'informazione e le comunicazioni di massa. Noi avevamo dei giornali che arrivavano a poche centinaia di migliaia di copie. I cattolici, con la rete delle parrocchie, raggiungevano milioni di persone. In compenso l'amministrazione era ancora in mano laica. Dall'unità fino al tramonto del fascismo i tecnocrati e i funzionari non erano stati né cattolici né comunisti, ma laici. Tutto questo ebbe un'importanza enorme perché l'economia fu affidata a Einaudi, il sistema bancario restò a uomini come Mattioli, l'industria era nelle mani dei Valletta e dei Pirelli. Il ruolo dei laici nella società civile e nella cultura fu decisivo».
Era quello che De Gasperi chiamava «quarto partito». Con una Italia in macerie cosa fare? «Il quarto partito» dichiarò De Gasperi «può non avere molti elettori, ma è capace di paralizzare e di rendere vano ogni sforzo, organizzando il sabotaggio del prestito e la fuga dei capitali, l'aumento dei prezzi e le campagne scandalistiche. L'esperienza mi ha convinto che non si governa oggi l'Italia senza attrarre nella nuova formazione di governo i rappresentanti di questo quarto partito che dispongono del denaro e della forza economica». Così riuscì a far loro accettare la leadership cattolica.
Era il sano realismo del trentino che sapeva che, quello dell'accordo, del compromesso è il compito della politica e non un utopico progetto di palingenesi sociale, che diventa, per natura, totalizzante. Lui intanto pensava anche alle contromisure per il futuro. Per esempio riuscendo ad attrarre al governo i socialisti di Saragat (fondatore del Partito Social-Democratico Italiano, che riuniva i socialisti decisi ad optare per l’Alleanza Atlantica e le libertà occidentali, e quindi staccatisi dal PSI di Nenni che aveva scelto l’intesa con Togliatti, ndr) e - secondo le testimonianze della figlia - cercando di continuo di sottrarre, anche personalmente, Nenni (che stimava molto) dall'abbraccio mortale con il Pci. (Magari permettendo anche ad Angelo Rizzoli, come racconta Andreotti nel suo De Gasperi visto da vicino, di cercare finanziamenti per «affrancare il Psi dalla dipendenza economica dal Pci»).
Per De Gasperi un Psi finalmente autonomo dal Pci avrebbe segnato l'inizio di una nuova stagione della democrazia italiana. Il 18 aprile è servito anche a questo.
pubblicato su Il Sabato
Nel corso del testo dell’articolo di Socci abbiamo evidenziato in grassetto una frase di De Gasperi, che ricorda l’importanza di richiamarsi ad un’ispirazione ideale, ad un quadro di valori preciso (di ispirazione religiosa - “la civiltà cristiana” – ma declinato laicamente e condivisibile da tutti) per trovare concrete “soluzioni ai problemi”. La chiave del successo del 1948, quindi, non fu solo la grande mobilitazione o la paura della dittatura: fu una proposta politica forte, che non durò l’arco di una legislatura, ma seppe guidare lo sviluppo economico e della democrazia nei decenni successivi.