La protesta di Tommy Smith e John Carlos alle Olimpiadi di Città del Messico del 1968
La repressione in corso in Tibet ha spinto molti a chiedere il boicottaggio dei prossimi Giochi olimpici di Pechino. Chi contesta tale posizione, sostiene che boicottare i Giochi significa sovrapporre la politica allo sport. Ma è proprio quello che fanno i regimi totalitarî (la Germania nazista nel 1936, l’Unione Sovietica nel 1980, la Cina oggi), i quali usano l’evento olimpico come vetrina propagandistica! La Cina sta curando maniacalmente l’organizzazione delle Olimpiadi, affinché siano la vetrina della “modernità” del regime. Di questa messa in scena non possiamo essere complici; non solo per le vicende del Tibet, ma anche per il più generale carattere oppressivo (in patria e all’estero) del regime cinese.
Un carattere oppressivo aggravato proprio in vista dei Giochi: un milione e mezzo di persone sono state sfollate (senza risarcimenti) per far posto alle costruzioni olimpiche; gli operai edili giunti dalle campagne hanno lavorato 14 ore al giorno, spesso solo in cambio del vitto; l'acqua potabile per il villaggio olimpico è stata sottratta alla regione dell'Hebei, già afflitta da siccità e con forniture idriche contingentate; la repressione del dissenso politico e religioso è stata inasprita, per evitare pubblicità negativa.
Insomma: una presa di posizione dev’essere assunta. Quella del boicottaggio è la soluzione più giusta?
Col boicottaggio sarebbe vanificato il sacrificio di quattro anni di allenamento di molti atleti. Elemento da tenere in doverosa considerazione, ma non decisivo.
Col boicottaggio andrebbero in fumo i soldi investiti da molti sponsor olimpici, con ripercussioni sulla salute di quelle aziende. Come sopra: elemento importante, ma non decisivo.
Col boicottaggio c’è il rischio di reazioni negative da parte cinese. Rischio a nostro avviso da non sopravvalutare: la Cina ha da perdere più di noi da un inasprimento dei rapporti.
Col boicottaggio verrebbe a mancare un’occasione di confronto e di sensibilizzazione rispetto all’opinione pubblica cinese. Questo elemento, invece, ci sembra decisivo. Infatti, la propaganda del regime avrebbe buon gioco a manipolare i fatti, a presentare al proprio interno il boicottaggio come un atto di invidia e un’offesa al sentimento nazionale cinese.
Le Olimpiadi, invece, possono diventare un gigantesco sit-in di protesta, l’occasione per spiegare ai cinesi che l’indignazione occidentale è mossa anche da un sentimento di solidarietà verso di loro, e non solo verso il Tibet.
I protagonisti di questa protesta possono essere innanzitutto gli atleti. È giusto scaricare sulle loro spalle il peso delle contestazioni e la timidezza dei Governi occidentali?
Ogni uomo è chiamato ad esercitare la propria responsabilità sociale usando i mezzi che sa costruirsi da solo, ma anche approfittando delle opportunità che incontra. Oggi gli atleti olimpici hanno un’opportunità più grande di altri, e quindi una responsabilità più grande.
Chi non ricorda l’impatto che ha avuto la protesta di Tommy Smith e John Carlos, medaglia d’oro e di bronzo nei 200 metri alle Olimpiadi di Città del Messico del 1968, saliti sul podio scalzi e col pugno guantato chiuso per inneggiare ai diritti dei neri d’America? (Era da poco stato ucciso Martin Luther King).
C’è lo scoglio dell’art.51 dello Statuto olimpico, per il quale “non è consentito alcun genere di manifestazione o propaganda politica, religiosa o razziale nei siti olimpici e nelle strutture adiacenti”. Una norma forse necessaria, per evitare che ogni edizione dei Giochi si trasformi nella vetrina dei più disparati risentimenti ideologici. Ma oggi la situazione è diversa: si tratta di protestare contro il Paese organizzatore, inadempiente – in tema di diritti umani – rispetto agli impegni assunti nel 2001 con l’ingresso nel WTO e l’assegnazione dei Giochi; si tratta di non rendersi complici dell’esaltazione di un regime.
(Il 4 agosto Vaclav Havel (ex presidente della Repubblica Ceca e già dissidente ai tempi del comunismo), Desmond Tutu (vescovo anglicano sudafricano premio Nobel per la pace), Wei Jingsheng (attivista che si batte per il movimento democratico cinese) e André Glucksmann (filosofo e saggista) hanno diffuso un appello, in cui si legge, tra l'altro:
"Se è necessario che si traduca in realtà quanto si afferma nella Carta Olimpica - che stabilisce che scopo dichiarato dello spirito olimpico è 'mettere lo sport al servizio dell' armonioso sviluppo umano, col fine dichiarato di promuovere una società pacifica che abbia a cuore la tutela della dignità umana' - è necessario che tutti i partecipanti alle Olimpiadi abbiano la possibilità di conoscere concretamente la situazione reale in Cina (...).
Parlare della situazione dei diritti umani, pertanto, non può costituire una violazione della Carta Olimpica. Parlare di diritti umani non è far politica: soltanto i regimi autoritari e totalitari cercano di renderli tali. Parlare di diritti umani è un dovere. (...)
Ci appelliamo a tutti coloro che prenderanno parte ai Giochi Olimpici estivi di Pechino affinché usino questa libertà per sostenere tutti coloro ai quali - anche in tempi di Olimpiadi - questa libertà è negata dal governo cinese".)
Del resto, la sensibilità sull’argomento non sembra scarseggiare tra gli atleti.
Il vicepresidente del Comitato Internazionale Olimpico, Thomas Bach, ha dichiarato al quotidiano tedesco Bild che alcuni atleti stanno “valutando se boicottare” le Olimpiadi.
Il capitano della nazionale di calcio indiana ha rifiutato di fare il tedoforo.
L’astista francese Romain Mesnil, argento ai Mondiali 2007, ha chiesto alla federazione francese il permesso di portare un nastro sulle divise ufficiali.
Il marciatore francese Yohann Diniz, anche lui argento mondiale, propone che tutti, anche gli atleti, non partecipino alla cerimonia d’apertura.
La squadra dei pallanotisti tedeschi pensa di indossare un costume arancione, il colore dei monaci buddisti.
Il canoista tedesco Stefan Pfanmoeller ha preparato bracciali con la scritta “Human Rights”.
L’ex pugile italiano Ottavio Barone ricorda che durante le Olimpiadi di Sidney 2000 si era distinto per aver guidato la protesta di alcuni atleti – indossando magliette con scritte - contro la condanna a morte di un italoamericano, Rocco Derek Bernabei.
Altre idee e adesioni verranno – speriamo – da qui all’apertura dei Giochi.
Il peso della protesta non dovrà essere, naturalmente, solo sugli atleti.
I giornalisti dovranno avere il coraggio di fare un’informazione completa sulle condizioni di vita dei cinesi.
Tre giornalisti francesi hanno già manifestato durante la cerimonia di accensione della fiaccola olimpica, ad Atene, costringendo la televisione cinese a oscurare per alcuni istanti la diretta.
Il presidente dell’Ong "Reporter senza frontiere", Robert Ménard, ha preannunciato che “vi saranno certamente delle cose che si faranno e non in buona armonia (col regime cinese, ndr)”.
I Governi: ci si aspetta anche da essi qualche forma di denuncia, come quella di disertare le cerimonie ufficiali.
Infine, l’opinione pubblica – tutti noi -, che deve saper esercitare la necessaria pressione sui soggetti che hanno maggior potere e visibilità.
Bisogna però pretendere dalle autorità cinesi l’assoluto rispetto di alcune condizioni su cui si erano già impegnate: libera circolazione nel Paese – e non solo negli impianti – per i giornalisti; diretta televisiva effettiva (e non differita di alcuni secondi, che consenta censure preventive).
In mancanza di queste condizioni minime, diventeremmo le comparse di una grande commedia propagandistica. E l’unica soluzione dignitosa sarebbe quella del boicottaggio.
Riferimenti bibliografici:
Bernardo Cervellera
Il rovescio delle medaglie. La Cina e le Olimpiadi.
ed. Ancora, Milano 2008