Nel 1938 Neville Chamberlain, primo ministro inglese, così commentò l’imminente invasione della Cecoslovacchia da parte della Germania nazista: “una contesa in un Paese lontano, tra gente di cui non sappiamo niente”. Oggi sappiamo che la pavidità delle democrazie europee (qualcuno avrebbe potuto definirla “realismo politico”...) aprì le porte alla Seconda Guerra mondiale.
Oggi possiamo restare indifferenti a quanto accade in Tibet (e più in generale in Cina)?
Martedì 11 marzo gli Stati Uniti avevano depennato la Cina dall’elenco degli Stati responsabili delle più gravi violazioni dei diritti umani.
Il Governo cinese, grato della fiducia ricevuta, venerdì 14 pensava bene di reprimere con la violenza alcune manifestazioni di protesta in Tibet, nella capitale Lhasa ma anche in altre località...
La protesta è stata animata dai monaci buddisti (anche in questo caso, come nella Birmania del 2007, o nella Polonia del 1980, è il sentimento religioso a dare il coraggio della ribellione) e dagli studenti.
Fonti del parlamento tibetano in esilio a Dharamsala (India) denunciano il grave bilancio della repressione da parte delle forze dell’ordine cinesi: 140 morti tra i dimostranti di Lhasa, centinaia di feriti e arrestati (e torturati). Secondo Pechino, invece, le vittime sono quasi soltanto tra i “civili innocenti” cinesi (18 morti, oltre ad un poliziotto); i feriti sarebbero 623, molti tra i poliziotti; gli arresti “centinaia”.
A questo bilancio vanno poi aggiunte le vittime degli incidenti scoppiati in altre regioni confinanti (Sichuan, Gansu, Qinghai), seppur non ammesse da Pechino (da dove però giunge l’ammissione che l’esercito ha sparato sulla folla, per “legittima difesa”).
Come se non bastasse, i principali monasteri sono stati isolati dall’esterno: nessuno può entrare o uscire, sono state tagliate energia elettrica ed acqua, anche i rifornimenti di cibo vengono impediti. E il regime ha già annunciato che “sarà intensificata l’educazione patriottica”.
Le autorità di Pechino hanno denunciato che le manifestazioni dei monaci buddisti e della popolazione tibetana sono state violente: lanci di sassi contro le vetrine di negozianti cinesi e contro la polizia. È senz’altro possibile che ci siano persone esasperate o facinorosi che non riescano a mantenere una protesta nei binari della non violenza. Ma l’ordine dato a tutti gli stranieri di evacuare, il divieto alla stampa di accedere nei luoghi degli scontri, ci fanno capire che la versione “ufficiale” nasconde una brutale repressione, andata ben oltre la necessità di contenere episodi di violenza dei manifestanti.
La Cina ha anche sostenuto che le manifestazioni sono nate con lo scopo di screditarla in vista delle Olimpiadi. Verrebbe da rispondere: e allora? È ovvio che chi subisce da decenni una repressione cerchi un’occasione di visibilità internazionale.
Il Governo cinese ha accusato la “cricca” del Dalai Lama (la guida spirituale del popolo tibetano, esiliato in India) di essere la fonte della ribellione. Anche l’uso di queste espressioni ridicole e veterocomuniste ci dà l’idea della scarsa credibilità cinese.
Le proteste dei Tibetani sono dovute all’oppressione che subiscono da sessant’anni, cioè da quando, nel 1950, i comunisti di Mao Ze Dong decisero che il Tibet era un territorio di importanza strategica: per creare una barriera protettiva contro l’India, per avere il controllo di fondamentali risorse naturali (comprese le foci dei grandi fiumi), per dare sfogo alla numerosa popolazione di etnia cinese Han.
Da allora, oltre otto milioni di cinesi sono stati forzatamente insediati in Tibet, riducendo la popolazione locale a minoranza. La nomina dei monaci buddisti a capo dei monasteri non è più libera: vengono imposti monaci fedeli a Pechino (o addirittura finti monaci membri del partito comunista), si stabilisce d’autorità quali siano i “veri” Lama reincarnati, il Panchen Lama (la seconda autorità spirituale) è stato rapito e nascosto nel 1995. Una politica simile a quella attuata contro la Chiesa cattolica: quella fedele a Roma è fuori legge, ed è stata creata una Chiesa parallela, detta “Patriottica”, alla quale vengono imposti i vescovi.
In Tibet due grandi ribellioni – nel 1956 e nel 1959 (con 80mila morti) - sono state soffocate nel sangue. Un milione di tibetani è stato ucciso durante la “rivoluzione culturale” maoista. Altre repressioni sono seguite alle proteste del 1987 e 1989.
A molte donne tibetane sono imposte di fatto le pratiche della sterilizzazione e dell’aborto forzato (la Tibetan Women’s Association denuncia che il 20% delle tibetane è stato reso sterile), nonostante ne debbano essere teoricamente esentate, come tutte le minoranze al sotto dei dieci milioni di persone.
I tibetani non possono ricevere un’educazione secondo la loro lingua e le loro tradizioni religiose e culturali. Centinaia di monasteri e i principali Atenei universitarî sono stati distrutti. I lavoratori tibetani non hanno accesso agli stessi lavori di quelli cinesi, e sono pagati peggio. Insomma, assistiamo alla lenta e programmata estirpazione di un’etnia e di una tradizione; quello che il Dalai Lama ha definito “genocidio culturale”.
La Cina si difende come tutte le dittature: “abbiamo investito in opere pubbliche”, “prima di noi c’era povertà e sfruttamento”. I Tibetani non sembrano molto contenti del “progresso” cinese...
L'oppressione cinese, del resto, non è diretta solo contro i Tibetani: le violazioni dei diritti umani sono generali, e si traducono anche in una politica aggressiva all'esterno.
Come reagisce il mondo?
L’ONU tace (anche perché la Cina ha diritto di veto nel Consiglio di sicurezza). Tacciono gli Stati confinanti con la Cina, così come quei Paesi in via di sviluppo che l’hanno scelta come “padrino” politico. La Russia, addirittura, avendo a che fare con rivendicazioni interne simili, manifesta solidarietà con Pechino.
E l’Occidente? L’indifferenza sin qui ha regnato sovrana (con sottili distinguo: maggiore sensibilità manifestata da Sarkozy, Merkel, dal Congresso USA), soprattutto per timore di compromettere i lucrosi (per alcuni) affari economici con la Cina. Molti Paesi (tra cui purtroppo l'Italia) hanno persino rifiutato di ricevere ufficialmente il Dalai Lama.
La diplomazia internazionale, sotto la spinta di parte dell’opinione pubblica, si è infine decisa – timidamente – a chiedere alla Cina di avviare un dialogo con il Dalai Lama; anche per evitare che prendano forza quanti, nel movimento di protesta tibetano, ritengono debole e senza speranza la linea della protesta pacifica e della semplice richiesta di autonomia.
Il Dalai Lama esprime da sempre posizioni di moderazione: richiede una semplice “autonomia” – e non l’indipendenza – per il Tibet; richiama i suoi connazionali all’uso della non violenza; ha espresso contrarietà al boicottaggio delle Olimpiadi di Pechino; denuncia il pericolo che la manipolazione dell’informazione messa in atto da Pechino possa rinfocolare tensioni razziali tra tibetani e cinesi.
Il problema, però, è che il Governo cinese teme che le conseguenze del dialogo possano risultare incontrollabili. I gerarchi cinesi ben ricordano il tentativo di dialogo col Dalai Lama effettuato nel 1979, e le reazioni di euforia indipendentista verificatesi in Tibet: la popolazione non si accontenta di libertà dimezzate.
Lo sviluppo della libertà (non solo dei Tibetani, ma di tutte le minoranze e anche di tutti i singoli cinesi) potrebbe avvenire solo se il regime mettesse in discussione il proprio ruolo egemonico, se avviasse una complessiva democratizzazione. Un’opzione che attualmente non prende in considerazione.
Abbiamo parlato della pressione di “parte” dell’opinione pubblica occidentale. All’appello mancano i movimenti “pacifisti”. I quali, come noto, si mobilitano solo contro USA e Israele. Se aggiungiamo il fatto che la Cina si professa ancora “comunista”...
Tra gli antiamericani in servizio permanente effettivo ce n’è stato anche qualcuno che si è esercitato in spericolate acrobazie per imputare a Bush la repressione tibetana. Barbara Spinelli ha scritto su La Stampa del 16 marzo che questa tragedia è da considerare una “disfatta morale” dell’America di Bush, una conseguenza della sua politica aggressiva: “per meglio difendersi dalle insipienze USA, gli Stati hanno tutto l’interesse a presentarsi come Leviatani aggressivi, chiusi in sovranità assolute” (?!!).
Casomai agli USA si può rimproverare il contrario: aver indebolito la propria politica di difesa dei diritti umani.
Qualcuno ha chiamato in causa anche il Papa, parlando di una presa di posizione tardiva e timida. In realtà, la prudenza della Chiesa è ben motivata: Benedetto XVI sa che dichiarazioni troppo forti non sarebbero coraggiose, ma avventate, perché non sarebbe lui a risponderne, ma i cattolici cinesi oppressi.
Si tenga presente che l’autorità del Papa è tale che anche dichiarazioni misurate hanno un effetto rilevante, come testimonia la puntuale reazione stizzita di Pechino. Quando Benedetto XVI, nei giorni scorsi, ha invocato la pace in Tibet, chiedendo “tolleranza da entrambe le parti”, ha fatto subito seguito la replica cinese: “nessuna tolleranza verso i criminali”.
Concludendo: spetta a noi e ai nostri governi esercitare le pressioni necessarie a far capire che la strada della libertà e del rispetto dei diritti umani non può essere subordinata alla collaborazione economica. Prendendo in considerazione anche il palcoscenico imminente delle Olimpiadi di Pechino.