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Politica - Notizie e Commenti
"Divorzio" tra i moderati Stampa E-mail
Come si è giunti alla separazione tra il Pdl di Berlusconi e Fini e l’Udc di Casini
      Scritto da Giovanni Martino
25/02/08
Ultimo Aggiornamento: 16/05/10

 casini_pier_simbolo.jpg berlusconi_comizio.jpg
Moderati divisi? “La colpa è di Berlusconi che vuole comandare”. “No, la colpa è di Casini che vuole avere le mani libere”.

È già partito il fuoco incrociato di accuse propagandistiche su una divisione che potrebbe avere importanti conseguenze sulla politica italiana. Questo fuoco incrociato nasce dal timore che la divisione possa essere giudicata negativamente dagli elettori moderati, per cui sarebbe necessario individuare il “colpevole” (e lasciare ad altri il cerino in mano).

A noi sembra, piuttosto, che le larghe convergenze sono sì un valore, ma non un totem. I partiti hanno il diritto di presentarsi autonomamente, se ritengono che un’alleanza sia negativa, motivandolo agli elettori.
Per cui possiamo analizzare serenamente che cosa è successo – e ci sembra che la volontà di separare definitivamente le strade sia di Berlusconi – senza che ciò significhi addossare “colpe”.

Dunque. Berlusconi e Fini hanno chiesto all’Unione dei Democratici cristiani e di Centro (Udc) di sciogliersi ed entrare nel Popolo delle Libertà (Pdl), rifiutandole la possibilità – concessa alla Lega – di presentarsi come alleata e col proprio simbolo (lo scudo crociato). Hanno posto a Casini, insomma, un aut aut: con noi solo alle nostre condizioni. Un’offerta che – per come è maturata – era evidentemente irricevibile.

Che cosa ha determinato questo atteggiamento di Berlusconi e Fini?

I due leader hanno portato una lunga serie di motivazioni, più o meno convincenti (l’esperienza insegna che si adducono più motivi quando nessuno appare sufficientemente forte...).


1) “C’è un esigenza di semplificazione del quadro politico, la gente è stanca di tanti partiti”.

Motivazione per certi versi vaga, per altri contraddittoria.

Vaga, perché semplificazione significa evitare la frammentazione dovuta ai mini-partiti dello zero virgola, nati intorno ad interessi personali. Ma non significa necessariamente eliminare anche i partiti che hanno una storia, un’identità, un radicamento. Non significa ridurre il sistema a due soli partiti, senza primarie, senza voto di preferenza: in questo modo la partecipazione politica è azzerata, il parlamento diventa un’assemblea di nominati da due leader.
La motivazione indicata è evidentemente anche contraddittoria, perché lo stesso ragionamento non è stato fatto per la Lega Nord.


2) “Alla Lega viene concesso di presentare il suo simbolo perché è un partito regionale, con il quale si può stringere un’alleanza sul modello Cdu-Csu in Germania”.

Motivazione insincera.

In Germania, laddove si presenta la Csu (in Baviera) non si presenta la Cdu...
La verità è che la Lega è andata alla trattativa con Berlusconi da una posizione di forza, il che le consentiva di rifiutare ogni annessione nel Pdl. Tutti sanno che, con l’attuale legge elettorale (al Senato il premio di maggioranza è su base regionale), la Lega è determinante per ottenere la maggioranza nelle regioni del Nord. Rinunciare ai numeri dell’Udc (superiori a quelli della Lega, ma distribuiti in tutta Italia) è sembrato un rischio più percorribile.

(La smentita definitiva della teoria "regionalista" è arrivata quando Berlusconi ha accettato l'apparentamento (lasciando l'uso del simbolo) con la "Democrazia cristiana" di Giuseppe Pizza, un movimento di poche migliaia di persone che rivendica l'uso dello scudo crociato. Questo apparentamento era stato stipulato in quasi tutta Italia (in tutte le Regioni in cui la Dc è riuscita a raccogliere le firme, senza distinzioni di area geografica) e solo al Senato, facendo così dello scudo crociato di Pizza una lista civetta per togliere voti all'Udc dove serviva. Sennonché l'Ufficio elettorale centrale della Cassazione non ha ammesso il simbolo della Dc di Pizza, stabilendo che l'uso dello scudo crociato spetta all'Udc.)


3) “Se l’Udc afferma di volersi alleare con Forza Italia e Alleanza Nazionale, se vuole rispettare un patto programmatico sulla base di valori comuni, cosa le impedisce di entrare nel partito unico del Popolo delle Libertà?”

Si entra nello stesso partito quando ciò che unisce supera ciò che divide; quando i valori di fondo e la prospettiva sono uguali; ma, soprattutto, quando esistono regole democratiche interne che consentano ad ognuno di far valere la propria prospettiva sugli argomenti sui quali non c’è identità di vedute.
Il problema è che queste condizioni di agibilità democratica, nel Pdl, ancora non ci sono. Forse matureranno a breve; ma ancora non ci sono.

Forza Italia è stato sin qui un partito in cui la leadership di Berlusconi è stata indiscussa e – soprattutto – indiscutibile. Per l’indubbio carisma del personaggio. Per l’imponenza dei suoi mezzi (finanziarî e di comunicazione). Ma anche, formalmente, perché lo Statuto non era pienamente democratico: il Presidente nominava i Coordinatori regionali, creando le condizioni perché ogni congresso dovesse necessariamente rieleggerlo.
Ciò non significa, beninteso, che un tale partito non debba avere legittimità nel nostro Paese. La Costituzione non richiede la democrazia interna dei partiti (fu una precisa imposizione del Pci di Togliatti). La democrazia interna di quasi tutti i partiti, sotto diversi aspetti, lascia a desiderare. E ben può succedere che una quota di cittadini scelga la strada dell’investitura carismatica di un leader in cui si riconosce, anziché quella della partecipazione attiva.
Ma questa scelta di alcuni cittadini non può diventare scelta obbligata per tutti. Ai cittadini deve essere possibile la partecipazione democratica. In America, dove i partiti sono essenzialmente (ma non necessariamente) due, le primarie sono obbligatorie e regolate per legge.

Il Popolo delle Libertà non nasce sotto la luce della partecipazione democratica. Abbiamo criticato le carenze democratiche del processo di nascita del Partito Democratico. Eppure lì ci sono stati congressi di scioglimento dei partiti fondatori (Margherita e DS); lì ci sono state almeno le primarie per l’investitura del nuovo Segretario, Veltroni (sebbene il primo congresso sia di là da venire).

Il Pdl, invece, nasce sul predellino di una Mercedes, come mossa di Berlusconi per rilanciare la propria immagine dopo il fallimento dell’annunciata spallata al Governo Prodi in occasione della Finanziaria. Gianfranco Fini, in una lettera a Il Giornale e a Libero del 18-12-2007, chiedeva del Pdl: “è mistificatorio sapere chi ne dovrebbe far parte, con quali regole dovrebbe decidere, sulla base di quale documento politico discutere e su quali meccanismi democratici di funzionamento e di selezione della classe dirigente dovrebbe articolarsi il nuovo partito?” (in quegli stessi giorni Fini, non nuovo alle giravolte, ‘avvertiva’ Berlusconi di essere pronto a differenziarsi su conflitto d’interessi e concentrazione televisiva...).

“Il progetto del partito unico è ben precedente, e nasce da un impegno comune con Fini e Casini”, ha ricordato Berlusconi. Appunto. È un progetto che non si è mai sviluppato per la riluttanza di Berlusconi a definire regole democratiche chiare. Lo ha ricordato non un persona qualunque, ma quel Ferdinando Adornato che del partito unico è stato lo strenuo promotore, e che infine ha alzato le mani (ed è passato da Forza Italia all’Udc).


4) “Se il Pdl non è ‘democratico’, allora perché Fini e altri partiti minori hanno aderito? Perché l’Udc non può fare quel sacrificio – rinuncia al simbolo – che altri hanno già fatto?”

Chi segue con attenzione la politica sa come sono andate davvero le cose.

Il primo a smuovere le acque è stato Veltroni, con la scelta – seppure frutto di necessità - di correre da solo (poi, fatti due conti, un po’ meno solo: con Di Pietro apparentato e i Radicali ospiti).

A quel punto, Berlusconi ha accarezzato il sogno di regolare un po’ di conti, perché per vincere non avrebbe più avuto bisogno di aggregare troppe forze. Ai partiti piccoli ha detto: “o dentro la Pdl, o sparite”. E quelli, con l’eccezione di Storace e di Mastella, si sono accontentati dei due-tre seggi che il Cavaliere gli ha garantito.

Alla Lega e ad Alleanza nazionale Berlusconi non poteva rinunciare, per cui ha dovuto fare concessioni. Alla Lega – come visto – ha lasciato il simbolo. Con Fini ha aperto una trattativa (di cui, ovviamente, non sono pubblici i dettagli) sul futuro assetto del Pdl. Fini ha accettato per due motivi: perché, fatto fuori Casini, diventa lui il candidato a succedere a Berlusconi; e perché An ha sempre avuto il terrore di essere isolata a destra, e la fusione con Forza Italia elimina questo scenario.
Altre concessioni (apparentamento e uso del simbolo, candidature, ecc.) sono state fatte all'Mpa di Lombardo (per avere il premio di maggioranza al Senato in Sicilia) e, come visto, alla Dc di Pizza (per dar fastidio a Casini).

Quanto all'Udc, i calcoli di alcuni sondaggi dicevano che non sarebbe determinante per la vittoria. Per cui con Casini la trattativa non è stata aperta. Semplicemente, la decisione gli è stata comunicata per telefono. Parliamoci chiaro: accettare un’annessione (ammesso che sia possibile farlo per telefono, senza convocare un congresso) avrebbe significato lasciare a Berlusconi il diritto di decidere sulle candidature e, quindi, in mancanza di voto di preferenza, sull’elezione-nomina dei parlamentari. Avrebbe significato dare a Berlusconi la possibilità di epurare completamente l’Udc.

Un problema di poltrone? Tralasciamo il fatto che queste considerazioni un po’ demagogiche spesso vengono da chi le poltrone le vuole tutte per sé.
Il fatto è che Casini la sua poltrona e quella degli amici più fedeli l’avrebbe conservata. Probabilmente gli sarebbero stati garantiti più parlamentari di quelli che otterrà correndo da solo. Il problema, però, è di dare voce ai due milioni e mezzo di elettori che alle ultime elezioni hanno votato il simbolo dello scudo crociato.
Forse quegli elettori ritenevano che la condivisione dei valori di ispirazione cristiana non sia ancora piena in tutti i partiti della destra, finché in essi la difesa dei valori è affidata alla “libertà di coscienza”.
Forse quegli elettori ritenevano che sia ancora utile un partito (l’ultimo in Italia) in cui l’identità cristiana sia chiara e impegnativa nel simbolo; un partito che cerchi alleanze a partire da questa identità (con il rischio – come negarlo - che qualcuno al suo interno cerchi di utilizzare i “valori” per tutelare i proprî interessi).
Forse la crescita di una forza di centro costituisce la preoccupazione comune e non confessata di molti protagonisti (a destra e a sinistra) della politica italiana, affannati a difendere sistemi elettorali farraginosi che hanno l’unico scopo di ostacolare quello scenario.


5) “L’Udc ha rimarcato per prima la sua autonomia dalla Casa delle Libertà, ha ostacolato nella precedente legislazione l’attuazione del programma di Governo”.

Sinceramente non abbiamo capito quali punti del programma del Governo Berlusconi non siano stati realizzati per responsabilità dell’Udc. Berlusconi ha affrontato la sconfitta elettorale del 2006 rimarcando che era un quasi-pareggio, parlando di brogli; rifuggendo infine quel confronto sulle cause politiche delle sconfitta che gli veniva chiesto da An e Udc.

Le “distinzioni” dei cristiano-democratici? Ci sembra di ricordare che nella precedente legislatura, in tema di giustizia, l’Udc aveva preteso che gli effetti di alcune leggi ad personam (Cirami, ex Cirielli) volute da Berlusconi non fossero retroattivi; si era opposta all’abolizione della par condicio in campagna elettorale; aveva chiesto che il calo delle tasse avvenisse nel rispetto dei vincoli di bilancio, e privilegiasse i carichi familiari. La Casa delle Libertà ha perso le elezioni per questi motivi?


6) “L’Udc ha contestato la leadership di Berlusconi”.

Qui è Berlusconi stesso che – durante la puntata di Porta a Porta del 12 febbraio – ha messo infine in luce i veri motivi della sua decisione. La sintesi della sua posizione è chiara: poiché sono il maggior azionista (è evidente la provenienza imprenditoriale...) dell’alleanza, chi deve comandare sono io. Sono stanco di trattative estenuanti. Chiedo fedeltà.

A noi questa impostazione sembra legittima – anche se non è il nostro ideale di partecipazione politica – all’interno di un piccolo partito, se si applica a coloro che, aderendovi, la condividono.
Diventa un'impostazione più discutibile se applicata ad un grande partito, in cui è inevitabile che ci siano anime diverse, per cui dovrebbero esserci gli spazi e le regole perché i militanti concorrano alla definizione della linea. 
La pretesa di "fedeltà", in ogni caso, non vale nel caso delle alleanze, nelle quali anche i partiti minori devono avere la possibilità - in proporzione alla loro consistenza - di difendere il punto di vista degli elettori che rappresentano.
La lealtà - il rispetto del patto di alleanza sottoscritto - è una cosa, nobile e importante. La “fedeltà” personale è un’altra cosa, che in politica può risultare fuori luogo. Fedeltà, caso mai, si deve ai proprî principî, alla propria coscienza, al mandato degli elettori. Amicus Plato, sed magis amica veritas.

È un po’ come in un matrimonio: il coniuge che guadagna di più non può pretendere di essere il padrone della famiglia, di comprare l’obbedienza dell’altro.

Aggiungiamo che, anche in questo, Berlusconi ha attuato un ragionamento diverso con la Lega, la quale lo aveva “tradito” per davvero nel 1994 (ricordiamo “Bossi Giuda”...).

L’Udc può aver sbagliato – a giudizio di Berlusconi e di altri – in alcuni distinguo eccessivi. Ma non ci sembra che si possa parlare di slealtà o di trasformismo, come dimostra l’aver negato la fiducia al Governo Marini (che non avrebbe portato alle elezioni).

Concludendo. Casini ha legittimamente cercato di conciliare un progetto di alleanza di centrodestra con il tentativo di condizionare la leadership di Berlusconi. E il Cavaliere ha legittimamente deciso che questi condizionamenti rendono non praticabile l’alleanza.

Giudicheranno gli elettori se questo “divorzio” sia un bene o un male. E giudicheranno idee e programmi dei diversi schieramenti con cui i moderati si presentano alle elezioni.

 



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