Dopo aver accantonato la difficoltosa “operazione Madagascar”, variante e passo decisivo del prossimo venturo sterminio – per cui l’isola, allora colonia francese, avrebbe dovuto trasformarsi, con il suo clima torrido, in un gigantesco ghetto ebraico - nella primavera del ’41 fu deciso, da parte dei vertici alti del regime nazista, il genocidio di tutti gli ebrei d’Europa. Nel gennaio ’42, dall’Alta Slesia, ad Auschwitz arrivarono le prime vittime. Nel frattempo l’aggressione all’Unione Sovietica (22 giugno ’41) aveva offerto la possibilità di una prima pianificazione del genocidio e, al seguito dell’esercito regolare avanzante per la Russia, agivano dei Gruppi Operativi della polizia politica e del Servizio di Sicurezza. Erano sotto il comando diretto del Reichsfűhrer delle SS, Himmler, ed avevano pieno mandato di “prendere provvedimenti esecutivi nei confronti della popolazione civile, nell’ambito del proprio incarico e sotto la propria responsabilità” e dunque dovevano eliminare i “nemici ideologici” (i funzionari del PCUS), “gli ebrei funzionari di partito e dello Stato”, ed altri “elementi radicali”. Questi Gruppi Operativi, che agirono da veri e propri squadroni della morte, avevano già dimostrato tutta la loro spietatezza durante la conquista della Polonia, dopo l’Anschluß e l’invasione della Cecoslovacchia. Tra il giugno del ’41 e l’aprile del ’42 questi squadroni della morte, composti da una élite e ai cui vertici erano sovente degli accademici, uccisero 560.000 persone.
Il massacro
Il 28 settembre 1941, a Kiev, un manifesto affisso su alcuni muri recitava: “è fatto obbligo a tutti [gli ebrei] di dotarsi di documenti, denaro, oggetti di valore, nonché di abiti invernali, biancheria, ecc. Gli ebrei che non ottemperassero a queste disposizioni e venissero trovati altrove saranno fucilati”. Alle otto di mattina, vicino ad uno scalo – merci, 30.000 ebrei si radunarono convinti di essere di lì a breve evacuati. Fu un’azione a sorpresa e molti ebrei ucraini erano convinti di raggiungere l’Unione Sovietica e, inconsapevoli di ciò che sarebbe poi toccato loro, si radunarono con largo anticipo nel luogo disposto: per poter occupare, sul treno, i posti migliori. In un bollettino delle SS, spietato e cinico come sempre, si legge: “era prevista la presenza di 5-600 ebrei solamente; invece se ne sono presentati 30.000, che, grazie a un’ottima organizzazione, hanno creduto ad un semplice trasferimento”.
Invece, un fiume di persone si avviò verso la forra (profonda gola rocciosa) di Babi Yar. Durante la marcia, molti uomini e donne si aggiunsero alla marcia e le SS, con l’ausilio di poliziotti e simpatizzanti nazisti, registrarono ogni persona che si fosse aggiunta.
Un testimone oculare, l’autista incaricato di trasportare i beni confiscati agli ebrei, ha raccontato:
“Tutto procedeva molto rapidamente, e quando qualcuno rallentava veniva sollecitato dagli ucraini a calci e spintoni. Credo che per ognuno occorresse meno di un minuto dal momento della consegna del cappotto fino a quello in cui restava nudo. Non veniva fatta nessuna distinzione tra uomini, donne, bambini… Gli ebrei, nudi, furono avviati verso una forra lunga 150 metri, larga 30 e profonda 15. Vi si accedeva attraverso due o tre varchi stretti, nei quali venivano spinti gli ebrei. Quando giungevano all’ingresso della forra venivano afferrati… e piegati sui corpi di altri ebrei non fucilati. Tutto avveniva con grande rapidità. I cadaveri venivano accatastati con ordine. Una volta fatto scendere l’ebreo di turno sui cadaveri, uno dei poliziotti si avvicinava e gli sparava alla nuca con il mitra. Gli ebrei che arrivavano alla forra erano talmente paralizzati, alla vista di quella scena terrificante, che non erano neanche in grado di accennare a una qualsiasi reazione. E’ persino accaduto che si mettessero spontaneamente ad aspettare il colpo… Solamente nel momento in cui, superata la strettoia, giungevano all’ingresso della forra e vedevano quella scena orribile, mandavano urli di terrore; ma un momento dopo venivano già afferrati e piegati sugli altri.”
Il massacro durò per due giorni da mattina a sera. Il bilancio stilato il 2 ottobre ed inoltrato subito a Berlino è drammatico: “il reparto speciale 4a, in collaborazione con il comando di gruppo e due reparti del reggimento di polizia Sud, ha proceduto in data 29 e 30/9/1941 alla fucilazione di 33.771 ebrei a Kiev”.
Un componente del reparto speciale, cinico ed imperturbabile – anche nel linguaggio - attuatore del massacro, ha deposto:
“Il terzo giorno dopo l’esecuzione fummo ricondotti sul posto. Appena giunti vedemmo una donna seduta vicino a una siepe. Evidentemente era scampata all’esecuzione restando incolume. Allora il soldato delle SS che ci accompagnava… le sparò e la uccise. Poi vedemmo che sulla montagna di cadaveri qualcuno ancora muoveva una mano. Non so se fosse una donna o un uomo… In seguito per alcuni giorni siamo stati occupati a spianare i biglietti di banca di proprietà degli ebrei fucilati. Ritengo che si sia trattato di svariati milioni. Ignoro che fine abbia fatto quel denaro. So che fu messo in alcuni sacchi e portato via…”
Nei giorni seguenti, dopo che tutti i cadaveri furono ricoperti di terra, la Wehrmacht (l’esercito tedesco) fece saltare le pareti della gola. I massacri, con il consenso o l’acquiescenza della popolazione locale (un bollettino delle SS riporta: “il ‘provvedimento di trasferimento’ degli ebrei ha il pieno consenso della popolazione locale”), proseguirono fino all’agosto del ’43. L’ultimo atto di crudeltà fu quello di imporre agli ebrei internati nei lager di riesumare i cadaveri, per bruciarli su dei roghi; le ossa rimaste nelle cenere furono schiacciate e triturate, affinché non rimanessero prove del crimine contro l’umanità.
Il capo dell’unità responsabile del massacro di Babi Yar si chiamava Paul Blobel ed era Standartenfűhrer delle SS. Nel 1948, a Norimberga, fu condannato a morte. Nel 1951 fu ucciso.
La memoria censurata da parte dell’Unione Sovietica
La soppressione su base razziale, il carattere talvolta esemplare e pubblico dello sterminio, il sostanziale successo della propaganda nazista antisemita ed antibolscevica, il forte coinvolgimento della popolazione locale, non esauriscono il dibattito storico e l’interpretazione del massacro di Babi Yar.
In un libro di fresca pubblicazione, L’Unione Sovietica e la Shoah (Bologna, Il Mulino, 2007), la storica Antonella Salomoni sostiene che la politica stalinista e post-stalinista, contraddittoria ed ambigua sulla “guerra speciale agli ebrei”, abbia voluto presentare questa come una uccisione di cittadini sovietici e nulla più; dunque “se si adotta un punto di vista interno alla storia dell'Unione Sovietica, che è quello accolto in questo lavoro, l'impressione complessiva che si ricava dall'analisi della letteratura pubblicata nel Paese sino alla fine degli anni Ottanta è dunque che la Shoah (il termine ebraico utilizzato per indicare l’olocausto, il genocidio del popolo ebraico per mano nazista, ndr) non vi sia mai stata pensata e problematizzata come un evento centrale del XX secolo”. E Proprio Babi Yar “divenne simbolo dell’atteggiamento minimalistico del governo sovietico di fronte alla catastrofe ebraica” e “per molto tempo non si fece pressoché allusione alla sorte degli ebrei di Kiev”.
Lo scrittore Vasilij Grossman, al seguito dell’Armata Rossa, già nel ’43 scriveva che “queste tracce sono segnate per sempre dalle lacrime e dal sangue dell'Ucraina. Le si potrebbe riconoscere persino nelle tenebre più fitte”. Anche Viktor Nekrasov, nel ’59, denunciava come in quel luogo in cui pochi anni prima erano state assassinate migliaia di persone non ci fosse neanche una lapide. Nel ’67 a Darenstadt, in Germania, furono processati (e tutti condannati) undici imputati per i crimini di Babi Yar e durante il processo furono sentite 175 testimoni. La stampa sovietica, malgrado si trattasse di uno degli episodi più importanti dello sterminio pianificato degli ebrei in Urss, non diede quasi notizia del dibattimento. Così Elio Wiesel, il premio Nobel per la Pace, nel racconto del suo “pellegrinaggio” nei luoghi dello sterminio, scrive; “le guide si rifiutavano di parlare di Babi Yar. Se insistete, vi rispondono: «non vale la pena fare un viaggio, non c’è niente da vedere». E hanno ragione. E’ inutile scomodarsi…”
Nel settembre ’61 Evgenij Evtusenko, poeta allineato al regime, fa iniziare il suo poema Babi Yar con un verso abbastanza significativo: “non c’è nessun monumento a Babi Yar”. L’opera, sebbene impeccabile per ortodossia comunista, suscitò una bufera nella letteratura sovietica; il Partito la giudicò eterodossa e costrinse l’autore a modificarne il testo.
Di Babi Yar era preferibile e forse impossibile parlare, almeno in termini veritieri. Scrive l’autrice di L’unione Sovietica e la Shoah: “a partire dal 1949, salvo rare eccezioni, in un clima di crescente persecuzione della componente ebraica e mentre i rapporti internazionali si complicavano in relazione alla costituzione dello stato di Israele, si evitò ogni riferimento esplicito alla Shoah, che scomparve progressivamente dalla cultura sovietica”: e neanche “l'età della destalinizzazione seppe esprimere una letteratura e una storiografia della Shoah”. Contributi importanti alla ricostruzione storica del massacro sono giunti solo con l’apertura degli archivi sovietici nel 1991.
La magna quaestio rimane il perché Stalin e i suoi successori adottarono questa politica di censura della memoria, soprattutto in relazione al fatto che le autorità sovietiche, in quel massacro, non hanno avuto responsabilità di sorta. Durante la guerra, una denuncia pubblica ed esplicita avrebbe forse favorito la propaganda nazista che sosteneva “la liberazione della Russia dai giudei e dai comunisti” e il governo sovietico temeva che questa propaganda attecchisse tra la popolazione più di quanto non avesse già fatto.
Dopo la guerra, tra la popolazione, persisteva l’antisemitismo, forse anche rafforzato, mentre il governo sovietico stava conducendo una politica assimilazionista per risolvere la “questione ebraica”. Inoltre, si stava procedendo alla costruzione del mito della cittadinanza sovietica della “grande guerra patriottica”, “che non avrebbe avuto la stessa forza dirompente se lo sterminio degli ebrei fosse stato valutato separatamente”. Emblematica la sorte della Commissione Antifascista Ebraica (Eak) che seppe raccogliere consensi e aiuti finanziari - in particolare negli USA - che poi permisero all’Urss di sconfiggere il nazismo. Dopo la guerra, Salomon Michaels, attore ed esponente di spicco della Commissione, fu eliminato in un falso incidente stradale. Molti altri membri della Commissione furono condannati a morte o deportati in Siberia.
Come insegna Arsenij Roginskij, eminente storico russo, “l’esperienza ha un grado di non trasmissibilità, può essere solo comunicata, ma la memoria è trasmissibilità ed è inserita negli uomini, mentre la rimozione della memoria appartiene alla sfera politica”. Così le varie nazionalità dell’Urss, come l’Ucraina, stanno recuperando la loro memoria.
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