La sigla Olpc, che così, all'impronta, può suggerirci petroli, o movimenti di liberazione medio- orientali, riassume invece il motto «un portatile per ogni bimbo» (One Laptop per Child). Lanciato nel 2003 da Nicholas Negroponte, allora direttore del prestigioso Media Lab del Mit, questo progetto mondiale si prefigge di far sviluppare portatili che costino non più di circa cento dollari, ma che contengono tutto, o almeno tutto ciò che veramente serve, dall'accesso a Internet ai programmi di testo, al trattamento delle immagini e della voce. Entro il 2010, ogni scolaretto nel mondo, dalla Thailandia al Brasile, dal Guatemala alle Filippine, dovrebbe infine avere a disposizione il suo piccolo portatile. Ne ho visto recentemente uno, a Santo Domingo, dove un alto funzionario del ministero della cultura mostrava con fierezza questo bianco gioiellino, con tanto di piccola manovella, per ricaricarlo anche dove manca la corrente elettrica. Aprire nuovi universi alle piccole menti, sviluppare la creatività, potenziare l'espressione, facilitare i contatti con il mondo intero, questi sono i nobili scopi dichiarati dai direttori del progetto Olpc, rigorosamente non-profit. Una battuta di riflessione ci viene, però dagli Stati Uniti, dove il mese scorso il dipartimento dell'educazione ha terminato un ampio studio comparativo. Ne è emerso che non esiste differenza alcuna nel profitto medio in matematica e in scrittura, tra gli studenti che frequentano scuole ben munite di portatili individuali e i loro coetanei che, invece, frequentano scuole del tutto prive di tali costose apparecchiature.
Non solo, ma emerge che una gran quantità di studenti, invece di prestare attenzione alle lezioni, trincerati dietro i loro schermi, giocano, si passano i compiti, si inviano messaggini o addirittura esplorano siti porno. Nello Stato di New York, il vasto distretto scolastico di Liverpool ha deciso di assottigliare progressivamente i fondi destinati all'informatica individuale nelle scuole, tornare alla lavagna, carta e matita, o all'unico computer di classe a grande schermo. Simili iniziative di progressiva «uscita» dai portatili individuali in classe sono già state decise da distretti scolastici in Virginia e in California. Nelle università americane, dove il perenne «paper» scritto costituisce l'unico tipo di compito assegnato settimanalmente e poi l'unico tipo di esame di fine corso, la tentazione di copiare pezzi, o interi testi, dalle immense risorse disponibili in rete è tale che si moltiplicano i programmi specializzati nell'individuare i plagi. Non pochi colleghi americani esplicitamente e tassativamente proibiscono l'uso dei portatili durante le lezioni. Disposizioni giustamente drastiche contro il plagio vengono diffuse ogni semestre. Sarebbe comunque impensabile, oramai, fare a meno dei computer, nella vita professionale, nella ricerca scientifica, nella docenza universitaria. Un universo di tesori intellettuali si apre di fronte a noi ogni giorno, dai grandi classici alle ultimissime pubblicazioni. Va fatta, quindi, una distinzione netta tra gli studenti dei Paesi industrialmente sviluppati, con ogni tipo di risorsa a portata di click, a casa, e gli scolaretti di una sperduta scuola nel mondo in via di sviluppo. Negroponte e i suoi molti illustri colleghi fanno bene a perseguire nella loro missione disseminatrice e seminatrice, così come fanno bene i professori di liceo e di università statunitensi ed europei a limitare l'uso dei portatili. La vecchia immagine dell'arma a doppio taglio si ripresenta potente.
Chi di noi non indulge nello «scaricare» testi, immagini e interi manoscritti nel proprio portatile, o nel computer da tavolo, dopo aver dato loro solo uno sguardo sommario? Li leggerò a tempo debito, ci diciamo, sapendo in parte di illuderci. Quando si andava in biblioteca, fosse essa la punitiva istituzione di stile europeo o la flessibile e sempre aperta banca di testi di stile americano, quanto meno si leggeva attentamente il brano in questione, per decidere se effettuarne o meno la laboriosa fotocopiatura. Prima che esistessero le fotocopiatrici, circa mille anni psicologici fa, si prendevano appunti, si riempivano schede. Oggi basta un click, basta memorizzare l'indirizzo di rete, e poi «ci ritorneremo». I ragazzini non sono più diligenti di noi, anche loro ciccano e archiviano, invece di leggere e digerire. Con ingegno, pazienza e impegno, sono state costruite in rete lezioni chiarissime e piacevoli da seguire, su quasi ogni materia, soprattutto nelle scienze esatte. Direi, però, che ovunque regna un grave equivoco: quello di pensare che i ragazzi possano imparare senza sforzo e con minima attenzione. I portatili, l'Internet e l'interattivo hanno certamente molto contribuito, ma il fenomeno è più vasto. Alcuni anni orsono venne effettuata un'inchiesta all'uscita di quei portenti di divulgazione che sono i musei della scienza americani. Ad una moltitudine di adolescenti in uscita dai musei, con tanto di professore come guida, chiesero, individualmente, quali settori del museo avessero visitato. Poi chiesero di raccontare, molto semplicemente, quali concetti, quali princìpi, quali leggi di natura avessero imparato. I dati furono sconfortanti. Si erano divertiti un mondo, ma non avevano imparato un bel niente. Giocare è bello, motivare con corredi estetici è bello, ma imparare richiede sforzo. Auguriamo, insomma, grande successo alla campagna Olpc. Speriamo che, tra dieci o quindici anni, i distretti scolastici e i professori di quei lontani e sfavoriti Paesi si vedano costretti a limitare anche loro ex cathedra l'uso dei portatili in classe. L'uguaglianza delle opportunità deve passare oramai anche per i piccoli schermi e le manovelline.
pubblicato sul Corriere della Sera