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Politica - Notizie e Commenti
E’ necessaria una riforma elettorale? Stampa E-mail
Governabilità, rappresentanza, bipolarismo moderato, ruolo del “centro”
      Scritto da Giovanni Martino
05/11/07
Ultimo Aggiornamento: 02/11/10

sistema_elettorale.jpgPer risolvere i problemi della politica italiana è necessaria una riforma elettorale? In caso affermativo, di che tipo?

Per dare una risposta sensata bisogna avere le idee chiare su quali siano i problemi da risolvere (eterogeneità delle coalizioni e ricatto delle estreme) e gli obiettivi da raggiungere.

Diciamo subito di non condividere l’opinione diffusa secondo cui quella attuale sarebbe una pessima legge. Quando commentammo la sua approvazione, evidenziammo che si trattava di un sistema “misto” – tra proporzionale e maggioritario –, il quale costituiva un indubbio passo avanti rispetto al sistema precedente, maggioritario uninominale (rimandiamo a quell’articolo per una spiegazione più dettagliata delle caratteristiche dei diversi sistemi, dei loro pregi e dei loro difetti). Costituiva un passo avanti perché consentiva di scegliere non solo la coalizione, ma anche il partito, rafforzando quindi la rappresentanza degli elettori.

Oggi assistiamo alla crisi del governo Prodi, incapace di prendere decisioni perché costretto ad estenuanti trattative tra i partiti di un’alleanza eterogenea. La colpa è della legge elettorale? In parte no.

Non possiamo accusare questa legge elettorale (qualsiasi legge elettorale) di non garantire un’ampia maggioranza a chi ha vinto per un pugno di voti alla Camera dei Deputati, prendendo addirittura meno voti al Senato.

Né possiamo addossare interamente alla legge elettorale la responsabilità delle divisioni interne alla coalizione.
Con l’attuale sistema, in parte proporzionale, è garantita la rappresentanza di molti partiti (quelli che superano lo sbarramento) anche all’interno della coalizione perdente. Rischiano di restar fuori solo i partiti che non si coalizzano (perché in quel caso lo sbarramento è più alto).
Quindi, fare coalizioni larghissime ed eterogenee, raccattando tutto e il contrario di tutto (anche le forze più estremiste) sotto il fragile ombrello di un fumoso “programma”, non è una questione di sopravvivenza, ma un precisa scelta di potere: “dobbiamo vincere a tutti i costi, poi si vedrà”. Va detto che scelta tanto miope è stata condivisa anche dagli elettori che l’hanno approvata, anche se molti sono già pentiti.

Bisogna però osservare che l’alternativa alla maggioranza attuale è costituita da un centrodestra che, benché più unito del centrosinistra sulle “cose da fare”, si è dimostrato nella precedente legislatura abbastanza litigioso. Anche in quel caso abbiamo conosciuto le fughe in avanti di una forza a tratti estremista come la Lega Nord, le rincorse di Berlusconi, i mal di pancia dell’UDC. Da allora nulla è cambiato nella struttura di questa coalizione.

Di fronte allo scenario attuale – coalizioni tipo Arca di Noè, unite dalla demonizzazione dell’avversario - è pensabile una via d’uscita che prescinde da riforme elettorali, basata solo su un diverso “costume” politico, sul coraggio dei partiti di non formare coalizioni eterogenee, sulla capacità dell’elettore di punirle laddove si presentino? Forse no.

La nuova domanda che possiamo porci, dunque, è: stante l’immaturità del sistema politico italiano, esiste una legge elettorale che può migliorare la governabilità, forzando i partiti a trovare il coraggio - che non hanno – per non cedere al “ricatto delle estreme”? Può la legge elettorale costituire un ‘vincolo’ esterno efficace, come l’entrata nell’Euro è stata per il risanamento dei conti pubblici? (Anche se, va detto, non dimostriamo una bella maturità invocando “vincoli esterni”).

Nel nostro commento all’attuale legge segnalammo che essa presentava in ogni caso alcuni difetti: la mancanza del voto di preferenza (che fa sì che i parlamentari non siano più ‘eletti’, bensì quasi ‘nominati’ dalle segreterie di partito); la soglia di sbarramento troppo bassa (che non sfoltisce abbastanza i ‘partitini’, espressione più di personalismi che di istanze sociali); il premio di maggioranza regionale al Senato, che rischia di consegnare due maggioranze diverse tra le due Camere.
È sufficiente correggere questi difetti per risolvere i problemi indicati (eterogeneità delle coalizioni e ricatto delle estreme)? Probabilmente neanche questo basta.

Una riforma più radicale può andare solo in due direzioni.

1) In quella di un maggioritario ancora più forte, come vorrebbe il referendum per il quale sono state raccolte le firme (il quale assegna il premio di maggioranza al partito più votato, anche se al di sotto del 50% dei voti). Ma si tratta di una direzione a nostro avviso sbagliata per molteplici motivi.

In primo luogo, la formula che verrebbe fuori dal referendum non garantisce rappresentanza democratica: persino la legge Acerbo che portò al potere il fascismo aveva una soglia minima da raggiungere per ottenere il premio di maggioranza!

In secondo luogo, la formula referendaria costituisce una forzatura che, pretendendo di rivoluzionare un sistema dall’oggi al domani, è destinata a naufragare: il risultato prevedibile sarebbe un grande cartello elettorale pronto a sciogliersi in Parlamento subito dopo le elezioni.

In terzo luogo, i sistemi maggioritari vigenti in altri Paesi - uninominale, doppio turno alla francese – vengono spesso evocati come modello perché capaci di assicurare la governabilità. Ma, ammesso che si debba sorvolare sul loro difetto (cioè sul fatto che sacrificano la rappresentanza democratica e allontanano la gente dalla politica), va detto che il risultato della governabilità è possibile solo in quelle nazioni in cui esiste una certa omogeneità sociale. Altrimenti, è proprio il maggioritario che produce i problemi evidenziati, inducendo a coalizioni eterogenee soggette al ricatto delle estreme.

2) La seconda, diversa direzione che può prendere una più radicale riforma elettorale è quella di mettere in discussione il premio di maggioranza.

Le obiezioni immediate che vengono fatte a questa ipotesi sono: “così si tornerebbe alla politica delle “mani libere”, per cui le forze politiche chiedono il voto senza dire prima con chi vogliono allearsi, preparandosi al trasformismo”; oppure: “così si favorirebbe la rinascita di un “grande centro” che ucciderebbe il bipolarismo”.

La prima obiezione la condividiamo pienamente: anche noi siamo contro il trasformismo. Ma è da vedere (stiamo per farlo) se l'unico antidoto è il premio di maggiornaza.

La seconda la condividiamo in parte. Riteniamo importante il bipolarismo, ma… siamo sicuri che debba essere difeso questo bipolarismo radicale, un bipolarismo prigioniero del ricatto delle estreme, in cui le coalizioni chiedono consenso agitando lo spauracchio del “nemico” e professando di essere il “meno peggio”, rinunciando dunque alla capacità di governare? Siamo sicuri che parlare di “centro” significhi per forza di cose parlare di un centro “topografico”, che si caratterizza per la mutevole posizione – in barba agli impegni elettorali – nel gioco delle alleanze?

Una nostra convenzione di fondo è che il bipolarismo e l’alternanza debbano esserci sì, ma non tra destra e sinistra, bensì tra centrodestra e centrosinistra. Cioè tra due schieramenti in cui le forze di centro abbiano un ruolo importante (magari in uno schieramento più che in un altro), garantendo quella politica di moderazione che la maggioranza degli Italiani – di entrambi gli schieramenti – richiede.

In passato, nella cosiddetta “prima Repubblica”, il bipolarismo c’era, tra DC e PCI; la mancanza di alternanza era dovuta al muro di Berlino prima ancora che al sistema proporzionale. Il “centro”, la DC, tra i suoi difetti non aveva quello di essere trasformista, avendo costituito chiaramente per oltre quarant’anni l’alternativa moderata al PCI. Il “centro”, insomma, può essere – e lo è stato storicamente, non solo in Italia - non un centro topografico, ma un centro “politico”, che si caratterizza per contenuti moderati esposti con chiarezza all’elettorato e difesi con coerenza in Parlamento.

Oggi (e già con la precedente legge uninominale), invece, assistiamo a coalizioni egemonizzate dalle forze estreme, che non solo rendono impossibile governare, ma sono minoranza nel Paese. Sparare contro il “centro”, insinuando che sia per forza sinonimo di trasformismo, esprime più che altro il timore di queste forze di veder ridimensionato il proprio ruolo politico.

Su questa convinzione di fondo (l’importanza di un centro anche per il bipolarismo), si è innestata una riflessione, maturata anche osservando l’evolversi della realtà politica: siamo sicuri che il premio di maggioranza (che esiste solo in Italia) sia l’unico meccanismo in grado di difendere bipolarismo e alternanza?


Studiando con attenzione i sistemi elettorali di altri Paesi, ci andiamo convincendo che una valida soluzione potrebbe essere il cosiddetto modello tedesco. Ed altri (come il professor Sartori, tradizionale sostenitore del maggioritario francese) stanno maturando la medesima convinzione.
Il carattere proporzionale salva la rappresentanza e non costringe ad alleanze forzate per sopravvivere; lo sbarramento elevato elimina i partitini; il particolare meccanismo di suddivisione tra collegi uninominali e collegi plurinominali (o un meccanismo equivalente) spinge gli elettori a polarizzare il voto sui partiti maggiori, creando la struttura di un sistema fondato sull’alternanza. In Germania il “centro” esiste – l’alleanza CDU-CSU -, e non è un centro trasformista, ma uno dei due grandi poli dello schieramento. Quel sistema produce un altro risultato da non trascurare: la convergenza dello schieramento opposto, pur nella distinzione di ruoli, su posizioni più moderate quanto ai temi fondamentali della convivenza civile.

Corollario di quel sistema è la cosiddetta “sfiducia costruttiva”, che garantisce la stabilità consentendo di sfiduciare un Governo solo se è pronta un’alternativa.

Il sistema tedesco, naturalmente, potrebbe conoscere adattamenti alla realtà italiana.
Il voto di preferenza, innanzitutto.
Volendo, anche l’indicazione sulla scheda del candidato Presidente del Consiglio, per stabilire un collegamento più stretto tra il voto espresso e il Governo, e per rendere più difficili “ribaltoni”, costringendo i partiti ad assumersene la responsabilità agli occhi degli elettori.

Come dicevamo inizialmente, però, la legge elettorale non è panacea di tutti i mali.

Servirebbero anche, per garantire le esigenze sin qui individuate, alcune fondamentali riforme istituzionali.

Per combattere la frammentazione, ad esempio, non basta la soglia di sbarramento alle elezioni. Serve che il finanziamento pubblico sia destinato ai partiti che hanno superato quella soglia, e non – come accade adesso - ai gruppi parlamentari. L’attuale assegnazione dei finanziamenti ai gruppi parlamentari incoraggia le scissioni e la costituzione di nuovi minigruppi (anche perché i Presidenti delle Camere concedono sempre la deroga al numero minimo di parlamentari necessario a costituire un gruppo).

Per combattere la debolezza dei Governi è importante anche rafforzare i poteri del Presidente del Consiglio, dandogli quello di nominare e revocare i ministri, di determinare la politica generale del governo, di dirigere l'attività dei ministri.

Come si pongono le attuali forze politiche rispetto al modello tedesco?

Sono sempre stati a favore, innanzitutto, Lega Nord e Rifondazione Comunista, le due forze più estreme. Ma questo è un indice indiretto che quel sistema garantisce la governabilità. Lega e Rifondazione, infatti, sanno che potrebbero ottenere rappresentanza senza essere costrette ad alleanze innaturali.

Per motivi opposti sono a favore del sistema tedesco le forze che si pongono il problema della governabilità: l’UDC innanzitutto; e, da quando hanno sperimentato sulla propria pelle le difficoltà del governare, anche larga parte delle componenti confluite nel Partito Democratico (Rutelli, ex popolari, D’Alema, Fassino), che in passato avevano simpatia per il doppio turno alla francese.
Resta l’incognita Veltroni: farà tesoro delle difficoltà incontrate da Prodi, o coltiverà l’illusione che il proprio carisma gli renda possibile conciliare tutto e il contrario di tutto, lasciandosi aperta la porta ad un nuovo Fronte antiberlusconiano, e appoggiando una legge maggioritaria che spinga verso lo scontro tra grandi schieramenti contrapposti? O magari stringerà un’intesa sotterranea con Berlusconi, per rafforzare – con la legge maggioritaria che uscirebbe dal referendum - la posizione dei rispettivi partiti, i più grandi delle coalizioni?

Sono invece contrari al modello tedesco i partitini di entrambi gli schieramenti, soprattutto di sinistra, per ovvie ragioni di sopravvivenza.

E’ contraria Alleanza Nazionale, perché – ufficialmente - teme che un centro forte possa scegliere un’alleanza con la sinistra anziché con le destra; e questa ipotesi, che emarginerebbe AN, è vista come un “attacco al bipolarismo”. In realtà, Fini vuole avere il tempo di “fondere” le forze di centrodestra, possibilmente guadagnandone l’egemonia. Progetto rispettabile, ma che – a nostro avviso – non può essere perseguito paralizzando il sistema istituzionale italiano. Meglio sarebbe dotare stabilmente AN di quel profilo moderato-conservatore che ne faccia l’alleato naturale del centro, senza il bisogno di “camicie di forza” elettorali.

Ambigua, infine, la posizione di Forza Italia. In passato si è espressa a favore del modello tedesco, con il quale diverrebbe naturalmente uno dei due poli di attrazione del sistema politico italiano. Ma la posizione di Berlusconi varia spesso in funzione di obiettivi tattici.
In questo momento, non gli sta tanto a cuore la stabilità del sistema e l’omogeneità della coalizione, quanto la certezza di poterne essere il leader indiscusso. Ed a questo fine, paradossalmente, gli appare preferibile un sistema che induca ad una coalizione di centrodestra vasta ed eterogenea (comprendente Storace, DCA di Rotondi, Pensionati, Leghe locali, ecc.), di cui lui solo – con il suo carisma e le sue risorse finanziarie – potrebbe essere il collante. Ma Berlusconi ha grande versatilità tattica, e potrebbe convincersi che può proporsi come leader anche usando l’arma delle idee e delle riforme, alla guida di una coalizione compatta e non raccogliticcia.
Altra remora alla ricerca di una nuova legge elettorale è, per Berlusconi, il timore che si allunghino i tempi per nuove elezioni, indebolendo la rendita di posizione guadagnata con la pessima prova di Prodi. Per cui ha insistito sulla necessità di mantenere la legge attuale finché aveva speranza di dare la spallata sulla Finanziaria al Governo Prodi. Ma aveva senso voler vincere subito, per rischiare di non poter governare poi?
Fallita la spallata, cambio di rotta: torna ad essere valido il modello tedesco. Riflessione su cosa è meglio per il Paese, o semplicemente desiderio di essere protagonista del confronto istituzionale?

Dicevamo inizialmente che un’analisi seria deve muovere dai problemi da risolvere (eterogeneità delle coalizioni e ricatto delle estreme) e dagli obiettivi da raggiungere (rappresentanza, governabilità effettiva).

Ci auguriamo che le posizioni assunte dagli attori politici e dai commentatori siano meditate (quali esse siano), e non dettate da suggestioni o piccoli interessi di bottega.



Giudizio Utente: / 7

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