La crisi di sfiducia verso la politica non può essere semplicisticamente liquidata come sentimento di “antipolitica”, espressione che sottintende: “le critiche vengono dagli ignoranti, o da quelli che hanno interesse a sostituirsi surrettiziamente alla politica”. Nella prima categoria (il populismo demagogico) rientrerebbero fenomeni come quello di Beppe Grillo. Nella seconda categoria il best-seller La casta, scritto da Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella, giornalisti del Corriere della Sera (“imbeccati” dunque, secondo le interpretazioni maliziose, dai “poteri forti” che hanno la proprietà del quotidiano).
Beninteso: ci sono anche persone che guardano con superficialità alla gestione della cosa pubblica (e questo è anche il portato di una più generale crisi culturale, soprattutto tra i giovani); ci sono poteri forti che vogliono condizionare la politica, e che alimentano i fenomeni dell'antipolitica (un rilievo poco opportuno, però, se viene da sinistra, visto che si tratta di quegli stessi poteri che hanno sostenuto l’Unione alle ultime elezioni).
Il problema è però un altro: le accuse mosse alla politica – quali che siano le motivazioni o le proposte alternative – sono vere o false?
Il fatto è che la cosiddetta “antipolitica” prende forza quando la politica si rivela debole, inadeguata ai suoi compiti, poco credibile.
Un bel contributo alla disillusione della gente lo hanno dato il comportamento della sinistra al Governo e i passi falsi commessi dalla politica negli ultimi anni. Vogliamo però interrogarci anche sulle cause più generali della crisi della politica, che investono l’intera classe dirigente del nostro Paese.
1) La crisi dei partiti. La democrazia è partecipazione. Lo strumento attraverso il quale questa partecipazione si attua possono essere solo partiti, come vuole la Costituzione (e come abbiamo spiegato analiticamente nell'articolo che analizza il fenomeno Grillo). Partiti nei quali esistano regole chiare per l'assunzione delle decisioni e la selezione della classe dirigente; partiti che offrano ai militanti e agli elettori valori di riferimento che si traducano in programmi chiari e trasparenti.
Invece, dobbiamo rilevare che in tutti i partiti vi è un forte deficit di democrazia. I leader e le classi dirigenti sono gli stessi da ormai quasi quindici anni. Le decisioni passano sopra gli iscritti. Se va bene, i congressi vengono fatti ogni quattro o cinque anni e i tesseramenti ai fini congressuali sono “vecchio stile”. L’esito dei congressi è scontato. I candidati alle elezioni vengono decisi dalle segreterie (e per il Parlamento, mancando la preferenza, finisce che le segreterie "nominano" i parlamentari). Le classi dirigenti sono peraltro inadeguate (in molti si preoccupano di sistemare familiari e “clientes”), con conseguente incapacità dei partiti di elaborare programmi e progetti, nascondendosi dietro slogan e denigrazione dell'avversario.
Il problema, allora, non è lo strumento "partito" in sé, ma questi partiti, che non esercitano davvero il loro ruolo insostituibile. Ma perché i partiti non esercitano il loro ruolo? Perché al loro interno non riescono a farsi largo le energie di rinnovamento? Perché gli Italiani continuano a votarli?
2) Il sistema di potere italiano. Il problema dei partiti, in Italia, nasce dal problema dell'occupazione del potere a fini privati. Ma per fini “privati” non intendiamo solo i privilegi (veri e presunti) dei parlamentari: su questi simboli è facile sparare, anche se incidono pochissimo sull’efficienza del sistema Paese.
Il problema non è - a nostro avviso - nel numero di rappresentanti eletti dal popolo (parlamentari, consiglieri di enti locali), o negli strumenti e garanzie che hanno per esercitare il loro mandato (entità dello stipendio, disponibilità di uffici e collaboratori, agevolazioni nei viaggi). Se gli eletti devono lavorare nel nostro interesse, è bene che siano messi in condizione di farlo.
Il problema nasce quando si riconoscono vantaggi che non sono legati al mandato elettorale: o per la loro natura (cumulo di stipendi con altri incarichi, vacanze camuffate come viaggi di lavoro, auto blu e scorte inutili), o perché si estendono vita natural durante (pensioni non legate ai contributi versati, agevolazioni dopo la cessazione del mandato, ecc.). In questi casi, si deve parlare di inammissibili privilegi, quelli documentati dal best seller di Rizzo e Stella.
Ai privilegi ufficiali, riconosciuti dalle norme, si aggiungono quelli nascosti, di cui i politici godono anche quando non sono eletti. Per cui la politica non è più un servizio reso alla collettività per un periodo più o meno lungo (che può diventare anche una professione per quei personaggi particolarmente capaci e premiati dagli elettori); ma diventa una professione per tutti coloro che fanno (o hanno fatto) parte di quel “giro”, di quella che diviene una “casta”.
Questi privilegi nascosti sono possibili per l'esistenza un gigantesco apparato parastatale (che assorbe una voragine di risorse economiche): quello degli enti pubblici elefantiaci, degli enti inutili, delle agenzie regionali, delle società municipalizzate.
Ai vertici (consigli d’amministrazione) di questi enti è “parcheggiato” il personale politico di carriera.
I posti di quadri e dipendenti - quando le assunzioni non vengono fatte per concorso - spesso servono a "sistemare" familiari e amici (dei concorsi pubblici spesso si parla male, ma rafforzarne la serietà – e non aggirarli - è l’unico argine al clientelismo). Tra i cosiddetti “precari” della pubblica amministrazione” regolarizzati dall'ultimo governo Prodi, oltre agli idonei delle graduatorie che aspettano da anni l’assunzione, vi sono anche gli “amici” assunti discrezionalmente...
Un apparato descritto molto bene - almeno nei suoi aspetti 'ufficiali' - da due senatori della sinistra, Cesare Salvi e Massimo Villone, nel loro libro Il costo della democrazia.
L’apparato parastatale non elargisce favori solo elargendo stipendi, ma anche consentendo facilitazioni nell'affitto e nell'acquisto di appartamenti (vedi l'inchiesta di qualche anno fa de Il Giornale su "Affittopoli", o quella più recente de L'Espresso su “Casa Nostra”); erogando finanziamenti a società che vedono coinvolti familiari dei politici, ecc.
Ma non basta. Se dei favori beneficiassero solo politici e loro familiari, avremmo una situazione moralmente inaccettabile, ma che non richiederebbe l'apparato parastatale "gigantesco" di cui abbiamo parlato. Il problema è che vengono sprecate risorse immense (anche in termini di perdita di produttività, di mancata valorizzazione di coloro che hanno meriti e capacità), perché al sistema di privilegi non accedono solo i politici. Il sistema di potere non è solo dei partiti, ma di tutta la classe dirigente; in particolare quella finanziaria-bancaria-industriale e quella sindacale: vedi l'inchiesta de L'Espresso sull’ “Altra Casta”, ovvero i sindacati e i loro privilegi; il libro Toghe rotte di Bruno Tinti, procuratore aggiunto a Torino, sui privilegi e le spartizioni di potere dei magistrati; il libro del giornalista Mario Giordano, Chi comanda davvero in Italia; il libro del deputato liberale Raffaele Costa, L'Italia dei privilegi.
Si tratta di poteri che trattano con i partiti da pari a pari (e a volte sembrano indirizzarne l'azione...): stipendi d'oro dei manager pubblici (anche quando gli enti che dirigono vanno male); consulenze tanto care quanto inutili; carriere accademiche "pilotate"; contratti con imprese e soggetti privati che sapranno essere grati al politico di turno; cassa integrazione e salvataggio di aziende decotte; operazioni di borsa spregiudicate, che recano grandi profitti ai grandi azionisti a danno dei piccoli (nel silenzio degli istituti di vigilanza); comportamenti anticoncorrenziali (e, quindi, altamente redditizi) sanzionati con multe ridicole.
Gli intrecci tra politica e poteri sociali e privati non fanno altro che alimentare le distorsioni del sistema. Nel nostro articolo Il "potere" può avere un colore politico? abbiamo cercato di spiegare perché debbono essere evitati tali intrecci, perché la politica non può occupare gli spazi istituzionali.
Oltre alle classe dirigenti, col sistema delle clientele al sistema di potere accedono (sia pure per le briciole) gran parte delle categorie sociali e dei cittadini.
Impieghi negli enti statali e parastatali; sovvenzione di associazioni; realizzazione o finanziamento di iniziative (feste, sagre, opere pubbliche) spesso inutili, che servono a gratificare tante piccole realtà locali. Un quadro generale degli sprechi italiani lo ha tratteggiato Raffaele Costa in un altro suo libro, L'Italia degli sprechi.
Altre categorie e corporazioni, che non hanno benefici diretti dall’apparato parastatale, contrattano con la politica privilegi normativi: ridotte pretese di impegno (ed inamovibilità dei “fannulloni”) nel pubblico impiego (in cambio della rinuncia ad incentivare la produttività individuale); privilegi sindacali; pensioni nettamente superiori ai contributi versati; contributi pubblici alle imprese; studi di settore che si traducono in esenzione di parte del carico fiscale; accesso ad alcune professioni eccessivamente selettivo; e così via.
Nel suo volume Sussidiarietà fiscale. La frontiera della democrazia (ed. Guerini e Associati, Milano 2005) il prof. Luca Antonini ricorda che qualche anno fa fu approvata una delega per eliminare tutte le agevolazioni fiscali non corrispondenti ad un valore costituzionale. La delega rimase inattuata, ma l'indagine preparatoria stimò che nel giro di cinque anni si potevano recuperare 30 mila miliardi di lire (oltre 15 miliardi di euro di sole agevolazioni fiscali!!!).
Questo sistema di potere ha bisogno di autoalimentarsi, e diviene incapace di fare vere scelte politiche. Una scelta, infatti, richiederebbe il coraggio del cambiamento, la preferenza data ad un interesse prioritario rispetto ad un altro secondario; ma ciò non è possibile sia per il radicamento di questo sistema (e i veti paralizzanti delle diverse categorie), sia per l'entità delle risorse che assorbe.
Qual è stato l'alibi ideologico di questa voragine che si autoalimenta? Lo statalismo, retaggio di un passato che non vuol passare, che ha diffuso nel nostro Paese la falsa idea che sia compito dello Stato risolvere tutti i problemi sociali (mentre lo Stato deve avere compiti precisi e delimitati). L'autoassoluzione è facile: "tengo famiglia" (e non è un motto solo dei politici). Questo alibi pseudo-solidaristico ha consentito ai partiti di occupare le istituzioni e di utilizzare i soldi pubblici a fini privati.
A questo punto, avremo già fatto arrabbiare molti dei nostri lettori: qualcuno si sarà sentito punto nel vivo, vorrebbe controbattere che il suo “privilegio” non è tale, ma è solo la condizione per poter andare avanti in un contesto di inefficienza e di mancanza di servizi; o che “ben altri” sono i privilegi da abbattere.
Il fatto è che l’inefficienza e gli sprechi complessivi (i quali richiedono sempre nuove tasse per essere sostenuti) sono proprio la somma di tutti i privilegi descritti. La paura di perdere il proprio privilegio, ritenuto (non sempre a torto) necessario alla propria sopravvivenza, fa perdere di vista il vantaggio ben maggiore che a ciascuno verrebbe da un sistema Paese in cui le cose funzionano: tasse più basse, imprese concorrenziali che non hanno ostacoli e sono in grado di creare posti di lavoro “veri”, servizi pubblici che funzionano per tutti (senza estenuanti perdite di tempo o ricerche di raccomandazioni anche per fare un’analisi), ecc.
Qualcun altro ci accuserà di fare demagogia non solo contro la classe politica, ma anche contro le classi sociali, accusando tutti per assolvere tutti. Ovviamente, non vogliamo fare criminalizzazioni demagogiche e generalizzate.
Sappiamo bene che criticare l'invadenza del potere partitico non può significare una ritirata totale dei partiti e della politica. Politica è anche risolvere i problemi della gente, e non può essere demonizzato - se nel rispetto delle leggi e del bene comune - l'interessamento della politica ai problemi concreti.
Sappiamo bene che esistono all'interno dei partiti politici onesti e preparati, che si preoccupano sinceramente di questi problemi.
Sappiamo altrettanto bene che in tutte le categorie sociali esiste una maggioranza di persone competenti, oneste e laboriose; quelle che tirano la carretta per tutti.
Il problema, però, e che competenza, onestà e laboriosità non possono essere affidate alla buona volontà dei singoli. Non si tratta di colpire indiscriminatamente le categorie, ma di individuare le soluzioni capaci di incidere realmente nella realtà che abbiamo disegnato:
- eliminazione immediata dei vantaggi (non solo dei politici) che sono realmente immotivati, e costituiscono quindi privilegi (alcuni li abbiamo sommariamente indicati nelle righe precedenti);
- anagrafe patrimoniale degli eletti, dei nominati a pubblici uffici e dei loro familiari, per evidenziare eventuali esagerati arricchimenti durante l'esercizio del mandato (ricordiamo che la "privacy" non è un diritto costituzionale assoluto, ma può passare in secondo piano rispetto ad interessi pubblici - come la trasparenza dell'azione amministrativa - più rilevanti);
- decadenza dal mandato elettivo già dopo il secondo grado di giudizio (appello) per i reati commessi mediante l'abuso della carica ricoperta o per conseguire la carica stessa (finanziamenti illeciti, ecc.);
- ripristino del voto di preferenza in tutte le elezioni nazionali e locali;
- divieto di cumulo delle retribuzioni ricevute da enti pubblici;
- divieto di copertura assicurativa per i danni patrimoniali commessi contro la pubblica amministrazione per colpa grave o dolo;
- sostenere con forza l’idea di uno Stato meno presente (privatizzazione di tutti gli enti che non svolgono funzioni necessariamente pubbliche, cioè che non gestiscono beni e servizî pubblici in senso stretto; eliminazione dei finanziamenti diretti a privati non indigenti, da sostituire eventualmente con detassazioni), ma più forte; meno invadente, ma più deciso nel far rispettare la legalità; meno tasse, ma pagate da tutti; meno servizî gratuiti, ma che siano davvero efficienti;
- premiare in tutti i settori il merito e la competenza, che hanno ricadute positive per la collettività (e che sono l'unica arma di crescita sociale per le classi più svantaggiate).
Su queste indicazioni generali potrebbe essere costruita una piattaforma programmatica di riforma della politica.
Finché non matura questa consapevolezza, i politici onesti (che esistono all’interno dei partiti) si troveranno a lottare ad armi impari con quelli più spregiudicati, capaci di “comprare” il consenso. La moneta cattiva, purtroppo, scaccia quella buona.
Se il consenso dei cittadini non si indirizza verso il bene comune, ma verso gli interessi di categoria, la classe politica sarà debole rispetto agli altri poteri forti, e sarà ‘costretta’ a mantenere in piedi il sistema di sprechi che alimenta il suo consenso: la democrazia si fonda sul consenso! (Intendiamoci: la dittatura è molto peggio, perché – oltre a togliere la libertà - crea un sistema di sprechi a vantaggio di una casta ancora più ristretta). Lo sbocco diventerebbe la protesta cieca dell'antipolitica.