Ismail Serageldin, allora vicepresidente della Banca mondiale, nel 1995 affermò: "Se le guerre del Ventesimo secolo sono state combattute per il petrolio, quelle del Ventunesimo avranno come oggetto del contendere l'acqua". Si staglia all'orizzonte, dunque, quella che potremmo definire "La guerra dell'acqua", o "La corsa all'oro blu". Un argomento tanto serio quanto trascurato, e per il quale non è facile trovare soluzioni.
Abbiamo negli occhi le "solite" immagini dell'Africa sub-sahariana, delle zone desertiche dove la sete incombe quotidianamente. Ma il problema acqua si sta allargando.
Rievochiamo ad esempio quanto accaduto qualche anno fa a Cochabamba, terza città della Bolivia. Una città che aveva vissuto un vertiginoso aumento della popolazione, avendo visto affluire molti abitanti dalle limitrofe zone minerarie in crisi economica. L'impossibilità del sistema idrico di soddisfare le esigenze di tutti ha indotto nel 1999 il Governo boliviano a seguire le indicazioni della Banca Mondiale per un processo di razionalizzazione della gestione delle risorse che passasse per la loro "privatizzazione". Ciò mediante l'affidamento, con concessione quarantennale, ad un consorzio internazionale con a capo l'azienda statunitense Bechtel, e con partecipazioni - tra gli altri - dell'italiana Edison Aem e della spagnola Abengoa. Un grosso errore, senz'altro, fu quello di pensare che bastasse "razionalizzare" la distribuzione di una risorsa scarsa per risolvere il problema. Senza riflettere sulla necessità di investimenti per aumentare la disponibilità di quel bene, e di sussidi pubblici per "ammortizzare" gli inevitabili aumenti dei costi di accesso.
Fatto sta che i nuovi prezzi risultarono esosi per le magre finanze della popolazione locale, tanto da provocare scontri di piazza con morti e feriti. Il Governo boliviano, data la situazione, si vide costretto a revocare la concessione al consorzio. Anche se il problema della scarsità di acqua è restato.
Nel documento finale del vertice mondiale sullo "sviluppo sostenibile", tenutosi a Johannesburg nel 2002, sono emerse stime preoccupanti sul tema dell'acqua. Secondo l'ONU oltre un miliardo di persone non hanno ancora accesso all'acqua potabile; quasi due miliardi e mezzo di abitanti del pianeta vivono in condizioni igienico-sanitarie insoddisfacenti; le malattie connesse a queste carenze fanno ogni anno 2,2 milioni di morti.
In questa situazione, l'ambizioso obiettivo del summit di Johannesburg (e del successivo Forum mondiale sull'acqua di Kyoto, nel 2003) era di individuare strumenti che entro il 2015 riducano della metà il numero degli "assetati". Un'impresa che secondo la Banca mondiale costerebbe 25 miliardi di dollari l'anno. Ma non sono stati fissati impegni concreti con precise scadenze temporali per migliorare la situazione.
Le cause del problema
Il fatto è che non si è riusciti a conciliare opposti schemi ideologici ed economici.
I Paesi che soffrono di carenze idriche non possono (perché troppo poveri) o non vogliono (perché preferiscono concentrarsi su uno sviluppo rapido) investire in questa direzione, e chiedono aiuto economico ai Paesi ricchi. I quali non intendono investire senza precise garanzie sulla corretta destinazione dei fondi, che non dovrebbero essere utilizzati solo dalle amministrazioni locali (spesso corrotte e inefficienti), ma anche da aziende occidentali, che siano messe in condizioni di stringere accordi di "partenariato pubblico-privato" con i Governi destinatari degli aiuti. Questa linea attira sugli Stati occidentali (anche dal loro interno) l'accusa di voler "privatizzare" un bene fondamentale e lucrarci sopra.
Morale: la spesa da sostenere per risolvere la situazione sarebbe di molto inferiore rispetto a quella che si affronta di volta in volta per porre rimedi palliativi e temporanei...
Alla fine resta anche da chiedersi se questi "summit", "forum", "contro-forum" (come quello di Firenze organizzato in polemica con quello ufficiale di Kyoto), siano strumenti davvero efficaci di intervento, o solo opportunità che servono prevalentemente ad ingrassare strutture e istituzioni.
Abbiamo visto che servono ingenti somme per aumentare le disponibilità di acqua potabile nei Paesi in cui scarseggia. Risorse che - va detto - non servono solo a costruire impianti di depurazione e distribuzione, ma anche a promuoverne un uso più attento: anche chi ha scarsità di un bene, a volte, può usarlo male!
Non parliamo, evidentemente, degli sprechi esagerati di cui ci spesso rendiamo protagonisti nei Paesi più fortunati.
Le possibili soluzioni
Esistono però una serie di accortezze da prendere, legate soprattutto all'uso dell'acqua in agricoltura. Bisognerebbe, ad esempio, incentivare il sistema di irrigazione "goccia a goccia", che fornisce l'acqua alle piante in quantità precise, anziché farla scorrere; si tratta di una metodologia che incrementerebbe anche le rese dei raccolti (si pensa fino al 50%), impedendo che lo scorrimento dell'acqua lavi il terreno dalle sostanze nutritive. Inoltre, bisognerebbe attivare un sistema di riciclo che destini all'agricoltura l'acqua già utilizzata per usi domestici: in Israele (Paese all'avanguardia nell'efficienza idrica, capace di creare coltivazioni nei deserti...) lo si fa già per il 30% delle acque utilizzate dalla popolazione. La strada del futuro, infine, potrà essere la dissalazione (cioè la potabilizzazione mediante l'estrazione del sale dall'acqua di mare), che però è attualmente troppo costosa.
Per un esame della situazione italiana clicca qui.
Per un'analisi della questione acqua "bene pubblico", e quindi delle possibilità di privatizzare la gestione della distribuzione, clicca qui.