Claudio Risé
Cannabis, come perdere la testa e a volte la vita
Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2007
L’ha dedicato a Vincenzo Muccioli, «che ha speso la propria esistenza perché lo sterminio finisca», e agli amici che erano ragazzi come lui verso la fine degli anni ’60, quando si diffuse la moda degli spinelli. Laura, Daniela, Paolo, Sacha e tanti altri: ci hanno rimesso tutti la vita, perché di cannabis ci si ammala e si muore. Claudio Risé, psicologo e psicoanalista, ha scritto un libro per rompere il muro d’omertà che, soprattutto in Italia, copre i danni devastanti della "maria". Si intitola Cannabis, come perdere la testa e a volte la vita, edizioni San Paolo. Mentre in altri Paesi d’Europa e del mondo, a cominciare dall’Inghilterra (dove il quotidiano The Indipendent, in passato tra i fautori della liberalizzazione della cannabis, ha chiesto scusa, ndr) e dagli Stati Uniti, assistiamo a un deciso cambio di rotta, dopo che dieci anni di ricerche scientifiche hanno dimostrato i danni irreparabili provocati dalla cannabis, in Italia, inspiegabilmente, continuiamo a pensare che facciano molto più male alla salute le merendine e gli "snack".
«Questo è un fatto indiscutibile», spiega Risé, «proprio recentemente il ministero della Pubblica istruzione e il ministero della Salute hanno varato dei piani di attenzione nei confronti delle merendine e di ciò che i bambini mangiano a scuola, mentre continuano, rispetto ai loro colleghi europei, a non fare grandi ed esplicite campagne sui pericoli ormai riconosciuti legati all’uso della cannabis».
• E questo come lo spiega?
«In Italia, come scrivo nel libro, persiste questa specie di leggenda rosa cominciata dopo il ’68, quando si diffuse per la prima volta a livello di massa il fumo dei derivati della canapa indiana. La leggenda della "buona maria" che non fa male, la droga della pace, della tranquillità e dell’allegria».
• Allora era una droga più leggera...
«Certo. In quegli anni il principio attivo della cannabis, il "tetracannabinolo", era molto minore di oggi e quindi gli effetti erano più blandi, però io sono abbastanza vecchio per ricordarmi che, fra gli amici che finirono in queste abitudini, il numero delle persone che perse la testa o perse la vita, come dice il sottotitolo del libro, è stato straordinariamente elevato. Quindi questa leggenda rosa non è mai stata vera».
• Lei sostiene però che oggi i rischi sono molto maggiori.
«Certo, perché in pochi anni il principio attivo è passato dal due al 20 per cento, quindi la droga che oggi circola è molto più pericolosa. La ricerca scientifica, legata allo sviluppo delle neuroscienze, ha stabilito in modo preciso tutti gli effetti della cannabis sulle diverse parti del cervello e sul funzionamento complessivo dell’organismo. Dalla disfunzione della memoria breve alla caduta dei freni inibitori fino allo sviluppo di quelle sindromi abuliche che rendono incapaci di organizzare la propria vita su obiettivi precisi e alla disorganizzazione motoria, che è ovviamente una delle cause principali delle stragi del sabato sera».
• Una delle cose che colpisce di più nel suo libro è proprio questo collegamento tra consumo della cannabis e fenomeni come il bullismo e le stragi del sabato sera.
«C’è un rapporto diretto, perché le persone che fanno uso di cannabis diventano incontrollate e incontrollabili. Si sviluppa una forte caduta delle capacità inibitorie e anche una grande eccitazione e aggressività. Secondo le statistiche Onu, la cannabis è la droga maggiormente usata nei casi di violenza. Ci sono fior di ricerche a questo proposito, fatte con la partecipazione di ottimi scienziati italiani, ma i media non ne parlano».
• A suo avviso i media sono i principali responsabili di questa omertà?
«Le responsabilità sono tante: ci sono innanzitutto i politici, e poi un certo mondo dello spettacolo. Però il mondo della comunicazione, col suo silenzio, le copre tutte. In Italia i giornali non ti danno spazio».
• Cosa si può fare? Per quanto riguarda la famiglia, per esempio, lei stabilisce un collegamento tra l’uso della cannabis da parte dei giovani e degli adolescenti e la mancanza di controllo da parte dei genitori.
«Tutte le statistiche internazionali sostengono che più la famiglia segue i figli e si fa sentire interessata al loro comportamento ed è contraria all’assunzione di droghe e meno loro le assumono. La famiglia è certo importante, però sono molti i genitori che negli anni ’70, a loro volta, si facevano gli spinelli e quindi sono poco attenti al fenomeno. Non è un dato trascurabile, perché se oggi la percentuale di chi assume queste sostanze è del 30 per cento, in quegli anni era superiore al 10. E poi la famiglia non ha appoggi da parte delle istituzioni, quindi può fare molto, ma è anche impotente».
• Che cosa si può fare allora?
«Sono molto importanti le politiche pubbliche. Negli Stati Uniti, durante la presidenza Bush, si è fatto un grande sforzo per informare degli effetti nefasti della marijuana: il New York Times, per esempio, che è un giornale democratico, ha diffuso un opuscolo di 60 pagine distribuendolo a tutti gli insegnanti. In conclusione l’uso dei derivati della canapa è diminuito. Bisogna fare la stessa cosa. Informare esattamente sui danni e smetterla di inserire queste sostanze tra le droghe leggere, perché non lo sono affatto. E poi avviare una politica seria di controllo e di dissuasione».
(pubblicato su Famiglia Cristiana del 20-5-2007)
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